Alla scoperta di Dante con il professore Angelo Fàvaro

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Nel 700° anniversario della morte del sommo poeta Dante Alighieri (1265-1321), del «poeta-giudice tra la terra e il cielo» (G. Tellini) prosegue il nostro «cammino» alla scoperta di come l’opera omnia di Dante segna, meravigli e impreziosisca la vita di un professore di Letteratura e dei suoi alunni e alunne. In quest’intervista con Angelo Fàvaro, docente di Italiano e Latino nei Licei e professore incaricato di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata», ri-luce la missione educativa di chi per passione e vocazione offre attraverso i «testi» non solo un metodo di conoscenza edificante e salvifico ma soprattutto l’essenza della vita, il respiro delle libertà di cui i testi letterari sono tessuti e che copiosamente diffondono in chi li scopre.

D.: Può raccontarci, professore Angelo Fàvaro, a quando risale il suo primo incontro con Dante? Come e cosa ricorda?

R.: Il primo incontro con Dante, o più esattamente con la Divina Commedia, è avvenuto in seconda media. Ricordo esattamente la prof.ssa di Lettere, Faustina Reali, che cercava di leggere ad una classe indisciplinata e sufficientemente irrequieta i versi dell’Inferno. La poesia mi appariva ammaliante, ma temo di non aver capito molto.

Così, il primo vero e consapevole appuntamento con l’Alighieri e la sua Opera è stato rimandato agli anni del Liceo Classico Dante Alighieri di Latina. Al mio terzo anno, ecco la folgorante apparizione di Dante. Non finirò mai di ringraziare il mio professore di Italiano, Angelo D’Onofrio, di aver incantato studentesse e studenti con i versi danteschi. Dai sonetti della Vita nuova fino ai Canti infernali. Come dimenticare il professor D’Onofrio e l’ora settimanale dedicata alla Commedia? Puntualissimo il professore giungeva in classe, sempre con il bicchierino di caffè, e fumando… prendeva posto alla cattedra e senza alcuna introduzione, spiegazione, riflessione, senza indicare nemmeno il canto, cominciava a recitare i versi a memoria.

All’inizio era tutto un frusciare di pagine, uno scorrere da una parte all’altra, un rincorrersi d’occhi, per capire quale canto stesse recitando, col tempo ci abituammo. Ascoltavamo in silenzio. Al termine, il professore commentava il canto, infine usciva dall’aula, senza pronunciar verbo o ascoltare le nostre idee, impressioni, o anche soltanto i dubbi. Per quel lavoro c’era l’edizione a cura di Natalino Sapegno e le enciclopedie. Interpretava gli endecasillabi con una precisione assoluta, non ricordo abbia mai sbagliato un verso o un accento. In particolare, ho ancora scolpito nella mente il Canto XXVI dell’Inferno: ognuno degli studenti in classe, quella mattina, ne sono certo, credette inequivocabilmente d’essere insieme ad Ulisse nel folle volo.

D.: Quale rima, terzina o frase dantesca ha guidato e guida il suo quotidiano lavoro di docente e studioso.

R.: Insegno Italiano e Latino in un triennio di Liceo Scientifico, ormai da tempo, e ogni anno accolgo le terze, con un discorso sul mio metodo di insegnamento, sul significato dello studio della letteratura italiana ed europea, con inserzioni dalle «letterature del mondo», secondo la lezione del mio compianto maestro di Letterature Comparate, Armando Gnisci, leggo qualche passo tratto da un testo di Giulio Ferroni sulla Letteratura, di anno in anno consegno agli studenti una frase o un pensiero tratto da autori classici o contemporanei, ma prima di congedarmi chiedo a tutti di scrivere sul diario o di appuntare questi versi:

«Apri la mente a quel ch’io ti paleso

e fermalvi entro; ché non fa scienza,

sanza lo ritenere avere inteso».

Sono i celeberrimi versi (40-42) del quinto canto del Paradiso, e mai come in questo ultimo decennio, posso affermarlo decisamente, costituiscono un viatico metodologico e pedagogico. Gli studenti contemporanei palesano una straordinaria intelligenza, hanno anche notevoli abilità in vari ambiti, tuttavia non riescono a ritenere che per breve tempo i contenuti culturali. È disarmante verificare come da una settimana all’altra dimentichino pensieri, concetti, metodi che sembrava avessero acquisito indelebilmente e interiorizzato pienamente. La terzina dantesca la conservo e la porto con me da molti anni… e non fallisce il significato, che rimane e perdura nella mia vita.

D.: La figura di Dante come uomo e letterato è davvero piena e completa: un politico, un poeta e scrittore, un esule con prole al seguito, un condannato a morte sempre alla ricerca della giustizia. Cosa quest’uomo oggi può davvero insegnare? Ovvero quale segno nella vita dei giovani e dei meno giovani può porre?

R.: Dante è soprattutto un poeta!

Sì, esule; sì, disperato, a volte, sempre coraggioso; sì, uomo impegnato politicamente (per ciò criticato anche da Boccaccio che invece lo lodò per altre ragioni), e a causa degli errori politici anche condannato a morte; sì, alla ricerca di una giustizia terrena speculare alla giustizia divina, secondo la lezione de De Civitate Dei; sì, un saggio studioso, mai pago delle conoscenze che avrebbe potuto ottenere nelle differenti discipline della sua epoca…

Tuttavia, per me, rimane un poeta affamato di equità, di fede, di bellezza, ma soprattutto di verità, anzi di Verità, quella che lui poteva ancora scrivere con V maiuscola.

Nell’odierna situazione culturale, sociale, politica, Dante Poeta o il Poeta Dante può continuare ad insegnare ai nostri giovani e giovanissimi, se intendono studiarlo seriamente e tentando di comprendere il messaggio contenuto nei suoi scritti, il potere dell’immaginazione, che superando le forme della logica e della razionalità, consente di creare l’alterità, di rendere visibile l’invisibile, di modellare le forme e i modi della percezione, vincendo i conformismi e l’omologazione imperanti.

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