Se analizziamo la narrativa chiariana, il continuo rodaggio del narratore verso il romanzo si affina notevolmente nel 1976 con “La stanza del vescovo”, nel quale l’autore lombardo creò uno spartiacque tra la prima produzione, appannaggio del racconto e simile a un’accorata stenografia dell’oralità, e la seconda che, da quel momento in poi, si sarebbe specializzata verso stesure congeniali alle strade di genere e forma che il romanzo europeo, e nostrano, aprivano a partire dalla metà del Novecento. I critici, infatti, parlano del raggiungimento di una sostanziale “maturità” in virtù della quale l’autore ha sconfitto lo spettro della semplicità del racconto, raggiungendo vette di dignità letteraria che gli erano proibite o che gli apparivano irrimediabilmente lontane fin dagli inizi. Vien da sorridere che il raggiungimento della maturità non sia valso comunque a Chiara il riconoscimento nell’olimpo tra i grandi narratori. Probabilmente tutte le quisquilie letterarie che lo videro invischiato (se discreto narratore o affermato romanziere) lo interessarono marginalmente o meglio lo fecero, solo al punto di intaccare la sua vanità di scrittore (molto alta in effetti, se consideriamo che intraprese anche l’ardua opera di tradurre il Satyricon aiutato dal compianto Federico Roncoroni; una versione propria del Decamerone e dei Promessi Sposi, ormai prodotti fossilizzati alla scuola degli anni ottanta). Ciononostante continuò a scrivere e a raccontare la vita nelle sue dolcezze e nelle pungenti asperità, vicende che al raggiungimento della pensione da cancelliere divennero il suo unico scopo, come peraltro testimoniato dalla targhetta apposta sulla porta del suo studio nella casa varesina di via Metastasio: Nessun altro impegno oltre quello di narrare.
La stanza del vescovo, la cui tipologia narrativa presenta notevoli affinità con il romanzo giallo, rientra nella tipologia del genere psicologico, dal momento che accomuna un campionario di personaggi vasto, accuratamente descritto e in crisi con la propria identità, insomma uno schizzo antidiluviano di inizio novecento. Lo spazio geografico entro il quale si snoda l’azione è il Lago Maggiore, perennemente percorso dalle virate della Tinca e vissuto nelle continue trasformazioni sotto gli occhi sornioni delle stagioni, antropizzato e sondato nelle sue profondità e nei profili di grandi ville che si stagliano sullo specchio d’acqua lacustre, una delle quali è Villa Cleofe che ha una forza d’attrazione, a metà tra la curiosità e la passione per il mistero, come per quella stanza riservata agli ospiti in cui per breve periodo dimorava un zio monsignore di Cleofe Berlusconi (da qui il nome della villa), l’oscura protagonista della vicenda. A torto viene reputato il protagonista principale l’Orimbelli, di cui parleremo in seguito, ma è in realtà la sua signora a detenere le fila oscure del romanzo, in questo sapere e non sapere, attendere e presagire che delinea ombre di mistero sempre più cupe.
La narrativa chiariana, più volte mi son espresso su tale proposito, è una narrativa che riscopre la femminilità; essa, infatti, disconosce modelli patriarcali o macchiette stereotipate della vita di provincia (escluse le prime opere, si guardi ad esempio a Il piatto piange) secondo me è di più: è pur vero che ci appare come la fissazione concreta della diceria immaginaria che corre di paese in paese; ma del resto presenta anche lo sforzo di capire un’interiorità femminile non più fragile e dimessa, ma in cerca di un’autonomia personale che preservi il proprio pensiero, la propria indipendenza. Troppo riduttivo soffermarsi sulle memorabili e tortuose descrizioni dei corpi, che fanno di Chiara un esteta.
Mentre la geografia del romanzo, intesa come spazio percorso nella sua componente sia fisica che umana, rappresenta un grande crocevia nel quale si incontrano storie, che, nella limitatezza dell’arco cronologico considerato, evidenziano il dramma della crisi successivo alla seconda guerra mondiale; la precarietà dell’essere umano e il crollo delle certezze, le medesime che costituivano capisaldi d’inizio secolo e che pervadono uno spazio neutro nel quale subentrano: incertezze, paure, angosce. Quale futuro ha una generazione che non aveva avuto presente? Possiamo tracciare l’inizio della fase dell’arrangiarsi quotidiano, che perdura ancora oggi? Il sottotesto della storia indaga con pervicace ostinazione il silente trauma bellico successivo alla seconda guerra mondiale. Dunque è probabile che l’autore lombardo offra l’opportunità di riflettere sul disastro psicologico vissuto dalla generazione antecedente al boom economico che, convinta di aver perduto gli anni migliori della propria vita sul campo di battaglia o imbrigliata nella struttura gerarchica della rivoluzione delle camicie nere, voleva recuperare quanto non aveva potuto vivere, a guerra finita. Egli pertanto diventa l’autore della ragione di una generazione (forse il più interessante romanziere se si depone la prospettiva boccaccesca e si abbraccia quella della guerra nella sua duplicità di: dramma psicologico interiore ed esteriore), che miracolosamente scampata alla guerra, doveva vivere sopravvivendo; in fondo, scendere a patti con la realtà che gli uomini attraversavano, cercando di dipanare il mistero, è un atto legittimo, anche per capire che il macrocosmo causale della guerra è soprattutto una somma di minute interiorità, di coscienze in crisi che si dibattono in un contesto i cui connotati sfuggono al gioco delle più probabili interpretazioni.
Lasciando da parte divertissement filosofici e psicologici, la figura dell’io narrante del romanzo, adombrata dal mistero, presenta una fisionomia consimile a quella nota dalla maggior parte della prosa dannunziana, ossia la creazione di un alter ego per rivivere ancora una volta un’esperienza personale (non si capisce se più per il piacere di raccontarla o per quello di rievocarla come piacere, ricordo o rimorso?. L’incontro/scontro con un altro protagonista, Temistocle Orimbelli, disegnerà un romanzo le cui pagine del libro, infatti, diventano simili agli specchi posti all’interno di una sala: pertanto il narratore si riflette nell’io narrante, che a sua volta si riflette nel protagonista principale. Questo gioco psicologico di scatole cinesi scatena una soffusa compassione tra chi vive quella vita e chi la osserva. Tra i due uomini nasce comunque un’amicizia che consente all’oscuro io narrante di addentrarsi nella villa entro la quale conosce Matilde, la cognata dell’Orimbelli e moglie del fu Angelo Berlusconi, una vedova bianca. Già tale terminologia evoca, soprattutto in tempi moderni, un esotismo fascinoso, che in sostanza traduce il nome della moglie di un emigrato (in questo caso un combattente della guerra d’Etiopia), rimasta sola in patria.
Matilde diventa curiosamente il centro del romanzo attorno al quale gravita la volontà di perdersi (per entrambi i due compagni di scorribande amorose) in un amore estivo per dimenticare il presente (e forse nell’Orimbelli anche il passato), in attesa che l’orizzonte delle acque sia definito, e che la vita, dopo questa parentesi estiva che ingurgita un grappolo di passione dietro l’altro, possa ripartire. Qui è possibile aprire una piccola parentesi in merito alla visione dell’amore da parte di Chiara, giacché esso non è solamente sentimento o corrispondenza d’amorosi sensi, ma è baloccamento del momentaneo, illusione che ci consenta di eludere il presente e sfuggire alla pesantezza della vita; e transitare il tempo con le armi della seduzione nella faretra a ripercorrere sempre impronte già solcate da altri, forse perché si è smarrita la propria; o ancora a sommare una sfida dopo l’altra per farne incetta come seduttori che inseguano le norme dell’amor cortese.
La proibizione che la storia fascinosa della donna evoca – il marito è dato per disperso e si attende la notizia della morte conclamata – è quel fiore di pascoliana memoria che è come un miele che inebria l’aria; un suo vapor che bagna l’anima d’un oblio dolce e crudele. Difatti l’attrazione dell’oscuro narratore nei confronti della giovane vedova si dissolve, dopo che la compiacente amicizia con l’Orimbelli diventa un patto cavalleresco che lascia intatta l’ambizione del narratore segreto, che assiste impietrito alla notizia della morte di Cleofe Orimbelli di ritorno dall’ennesima crociera sul lago.
Proprio quando il romanzo sembra avviarsi in un finale scontato e le indagini, scaturite dal misterioso annegamento della donna nella darsena adiacente alla villa, si chiudono con l’archiviazione del caso per suicidio, un colpo di scena turba il lettore. Il giallo assume i contorni della tragedia greca e lo spirito di Cleofe Orimbelli continua a guidare la macchina narrativa determinando anche l’epilogo del romanzo. Proprio nelle pagine finali, quando l’esito della vicenda potrebbe apparire più ovvio ecco che il viaggio (lacustre sic et simpliciter), metafora di condizione esistenziale per Piero Chiara, continua nella sua bruciante condizione di conoscere o di seppellire uno dopo l’altro i ricordi disseminati lungo il corso del tempo per sfuggire allo spauracchio della vita.