Animali ubriachi o drogati: mito o realtà?

Articolo di C. Alessandro Mauceri

Gli esseri umani non sarebbero i soli ad utilizzare sostanze “strane” che generano effetti simili a quelli delle droghe. Anche i cavalli, a volte, mangerebbero erbe allucinogene. Le pecore dalle grosse corna brucherebbero licheni narcotici. In Australia pare che i wallabi ingerissero piante di papavero. E che i cani diventavano dipendenti dalla sostanza tossica secreta dai rospi delle canne.

Cambiando continente, le scimmie Vervet (chiamate scimmie verdi), originarie dell’Africa, oggi vivono anche nelle isole dei Caraibi: nel XVIII e XIX secolo, erano diffuse tra gli schiavisti come animali domestici. Quelle di loro che riuscivano a scappare o venivano liberate si adattavano facilmente alla vita delle isole tropicali mancando reali predatori. Il loro alimento principale era ed è la canna da zucchero. Ma quando questa viene bruciata o occasionalmente lasciata fermentare prima del raccolto, diventa  ricca di etanolo. Ebbene pare che le scimmie si siano abituate al succo di canna fermentato fino a diventarne quasi dipendenti (si raccontano storie locali di scimmie selvatiche catturate senza problemi dopo averle attirate e ubriacate con una miscela di rum e melassa). Studi condotti sui discendenti di quelle scimmie hanno rivelato che quasi una scimmia su cinque preferirebbe un cocktail di alcol mescolato con acqua zuccherata a un sorso di sola acqua zuccherata. Un comportamento che pare essere più diffuso nei soggetti giovani. Alcuni ricercatori come Jorge Juarez dell’Universidad Nacional Autonoma de Mexico, hanno cercato di spiegare questo fenomeno: “È [possibile] che gli adulti bevano di meno perché devono essere più attenti e percettivi delle dinamiche sociali del gruppo”. Come dire che le scimmie più anziane capiscono che è bene liberarsi dall’alcolismo e non dover subire postumi di una sbornia e iniziano a iniziare a comportarsi da adulte.

Recentemente alcuni biologi hanno scoperto che anche i delfini dai denti ruvidi (simili ai più comuni tursiopi) gradirebbero molto la “sbronza da pesce palla”. Sì proprio il pesce che produce una potente sostanza tossica che espelle quando è minacciato. E che per questo è diventato famoso nella cucina giapponese: i cuochi seguono corsi speciali che durano anni e alla fine devono ottenere una sorta di patentino per poterli preparare e offrire ai propri clienti (nonostante ciò ogni anno sono molte le persone intossicate). Ebbene pare che i delfini gradiscano i pesci palla, non come alimenti, ma (e questa è la cosa più sorprendente) proprio per gli effetti che le sostanze tossiche generano in loro. In diverse occasioni questi mammiferi marini sarebbero stati visti giocare con questi pesci, passandoli tra loro fino a quando, ad un certo punto, non finivano come ipnotizzati in una sorta di “stato di trance”. La prima ad accorgersi di questo comportamento sarebbe stata la biologa marina Lisa Steiner nel 1995. Osservando un gruppo di questi delfini la ricercatrice si è accorta che alcuni di loro si nutrivano pigramente, nuotando lentamente. Fu allora che notò “quattro pesci palla gonfiati” e “uno di loro, che era capovolto, veniva spinto in giro da uno dei delfini”. La Steiner descrisse questo comportamento come una specie di gioco. Poi però, si accorse che “verso la fine dell’incontro, molti dei delfini stavano sdraiati immobili in superficie con la schiena e la sommità della testa chiaramente visibili”. Il loro comportamento insolitamente apatico suggerì che stessero sperimentando una lieve intossicazione causata dalla tetrodotossina, il veleno del pesce. Più di recente, altri studi hanno confermato questa teoria.

Altri studi, invece, sarebbero giunti a conclusioni diverse. La tetrodotossina è un veleno estremamente potente: anche una piccola dose potrebbe essere letale. Anche per un delfino. Secondo la biologa marina Christie Wilcox “la tetrodotossina è 120.000 volte più letale della cocaina, 40.000 volte più letale della metanfetamina e oltre 50 milioni di volte più del THC. È da decine a centinaia di volte più letale rispetto ai veleni degli animali più famosi al mondo, inclusi i ragni vedova nera e il mamba nero. È più potente del gas nervino VX, della formaldeide o persino della ricina. È, letteralmente, uno dei composti più tossici conosciuti dall’uomo”. La Wilcox sostiene che mammiferi curiosi e dal cervello grosso come i delfini potrebbero esplorare i pesci palla ed esporsi accidentalmente a un po’ della tossina. Ma questo non vuol dire decidere di farne uso intenzionalmente dato che farlo per ottenere solo un po’ di intorpidimento e senza rischiare di morire richiederebbe una precisione eccezionale nella misurazione della quantità ingerita.

Anche gli elefanti, a volte, sono stati visti “ubriacarsi” di frutti dell’albero di marula. Pare che gli scienziati si siano accorti di questo comportamento già all’inizio dell’Ottocento. Fu allora che un naturalista francese, Adulphe Delegorgue, descrisse il comportamento misteriosamente aggressivo di alcuni elefanti maschi dopo che avevano mangiato frutti di marula. “L’elefante ha in comune con l’uomo una predilezione per un dolce riscaldamento del cervello indotto dal frutto che è stato fermentato dall’azione del sole”, scrisse Delegorgue.

Anche in questo caso, però, non sono mancate le critiche a queste teorie. La loro stazza elevata richiederebbe un’enorme quantità di frutto di marula per avere effetti reali. Studi che risalgono al 1984 dimostrerebbero che questi animali erano felici di bere una soluzione alcolica al 7% e che alcuni ne bevevano abbastanza da alterare il proprio comportamento. Sebbene non “agissero ubriachi”, in termini umani, diminuivano il tempo trascorso a nutrirsi, bere, fare il bagno ed esplorare, e diventavano più letargici. Diversi comportamenti mostravano che indicavano di essere a disagio, o forse leggermente malati. Il fatto che un elefante possa avere questi comportamenti non significa, però, che lo faccia in modo da poterlo considerare un comportamento naturale. Secondo alcuni studi, un elefante del peso di 3.000 kg dovrebbe assumere tra i 10 e i 27 litri di soluzione alcolica al 7% in un periodo di tempo relativamente breve per mostrare palesi cambiamenti del comportamento. Questo significherebbe che mangiare il frutto di marula (che contiene solo il 3% di etanolo), non basterebbe ad un elefante per ubriacarsi. Il vero motivo che porta gli elefanti ad assumere un comportamento insolito quando si trovano intorno agli alberi di marula resta quindi incerto. Morris, Humphreys e Reynolds hanno detto che potrebbe derivare dal fatto che gli elefanti considerano questo frutto come alimento molto apprezzato. Oppure, che ad intossicarli non sarebbero i frutti dell’albero ma la corteccia che spesso contiene pupe di uno scarabeo che contengono una sostanza che gli africani del posto storicamente usavano per avvelenare le punte delle frecce: se ingerita dagli elefanti questa tossina potrebbe essere la vera causa del comportamento insolito dei pachidermi. Ancora una volta questo non sarebbe un gesto volontario ma un effetto collaterale del tutto casuale.

Morris, Humphreys e Reynolds ritengono che la maggior parte delle storie di animali ubriachi o “fatti” sarebbero “aneddotiche, impantanate nel folklore e nel mito”. In molti casi è più probabile che siano le persone ad attribuire spiegazioni erronee di determinati movimenti o temperamenti accomunandoli  al comportano degli esseri umani ubriachi.

Foto: greenme.it

Related Articles