Si è disquisito in lungo e in largo degli anni ’80, i meravigliosi e avidi anni Ottanta.
Un decennio camaleontico e contraddittorio, caratterizzato da materialismo, consumismo, esibizionismo, slancio imprenditoriale, neoliberismo e conservatorismo repubblicano, e sensibilizzato dalla crisi umanitaria nel corno d’Africa, dalla contagiosa ignoranza nell’affrontare il virus dell’AIDS e dalla discriminazione nei confronti degli omosessuali, in un contesto socio-economico che metteva sempre più in evidenza la distanza tra le classi ricche e quelle povere.
Da una parte c’erano gli arrivisti in carriera (yuppies) e dall’altra i cosiddetti “loser”. Eravamo passati dal messaggio nichilista “no future” del punk al “tutti vogliono comandare il mondo” dei Tears For Fears. All’inizio degli ’80, il mondo occidentale era ancora scosso dalla grave stretta economica dei Settanta, quando venne colpito da una seconda crisi energetica, a causa dei conflitti tra Occidente e paesi petroliferi arabi. Solo a metà degli anni ’80 i paesi dell’ovest industrializzato riuscirono a lasciarsi alle spalle quel periodo grigio, nonostante la guerra fredda ed il pericolo di una imminente terza guerra mondiale.
Il mondo “civilizzato” era pronto a ripartire da nuove ambizioni, nuove libertà e nuovi soldi, legati da un pizzico di follia e racchiusi in una “nuova” stagione del consumismo (il cosiddetto “living large”). Si stavano riaprendo i “rubinetti” e la gente voleva una cosa sola: divertirsi. Ogni riferimento a Girls Just Wanna Have Fun di Cindy Lauper e Nothing But A Good Time dei Poison non è puramente casuale.
C’era la voglia di rispondere alle ristrettezze economiche degli anni precedenti con una spinta emotiva completamente differente, incentrata sulla spensieratezza, la leggerezza ed il benessere. Come su un set vacanziero caraibico, nel totale “relax”.
Nonostante il tessuto sociale dell’epoca fosse ancora fortemente bigotto, maschilista, classista e razzista, la società multietnica degli ’80 era proiettata verso un modello di comunicazione sempre più accessibile (un prototipo di società iperconnessa), dal forte impatto visivo, di chiaro stampo “hollywoodiano”, in cui tutti potevano o volevano diventare “qualcuno”. Ed il termine “somebody” era molto in voga in quel periodo.
L’ex attore e neo presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan si fece portavoce di quello spirito pseudo avanguardista, in cui era praticamente impossibile andare oltre l’immagine. Il suo scopo fu quello di riportare le lancette dell’orologio nel passato (negli anni ’50, come nel film Ritorno Al Futuro) per trovare la chiave vincente per l’avvenire, dove le strade non avevano un nome. Vi lascio indovinare quest’ultimo riferimento musicale.
Dopo la rivoluzione hippy degli anni ’60 ed il caos dei ’70, negli anni ’80 si concretizzò l’idealizzazione “rassicurante” dell’era Reagan: cultura popolare e politica si gemellarono e si coalizzarono come mai prima nella storia, sotto un’unica bandiera, sotto un’unica maschera, quella della nostalgia e della retorica del combattente.
Questo, in sintesi, era il Reaganismo. Se pensiamo alla filosofia comunicativa del governo Reagan, al successo di eroi nazional-popolari del grande schermo come John Rambo, alla popolarità del genere metal in ogni sua sfaccettatura, all’invasione della “generazione elettronica” di Alberto Camerini e alla prassi comune di rimarcare le origini disagiate di chi ce l’aveva fatta, allora il collegamento è sin troppo immediato.
Lo show business di quel decennio diede sfogo a nuovi aspetti della nostra società, che lasciò a briglie sciolte dinamiche latenti ma già esistenti. Una delle espressioni essenziali degli anni ’80 è stata senz’altro la cultura edonista dell’immagine: vi ricordate tutte quelle teste vaporose e cotonate? Quanto andava di moda il coiffeur?
Contestualmente, il boom delle arti grafiche amplificò quel tipo di messaggio visuale con altri trucchetti ad effetto. Successivamente arrivarono le risate finte nei programmi di intrattenimento, le messinscene del wrestling, la cura morbosa per la forma fisica, il restyling del glam rock e l’ostentazione di capi d’abbigliamento firmati tendenti al kitsch e al color-shocking.
Nel frattempo, la fazione più estremista dei metallari non vedeva di buon occhio l’ingresso di tastiere e sintetizzatori nel genere metal. Alcuni, tra musicisti e fan, li consideravano da “checche”. Probabilmente, tale giudizio, “ingenuamente” omofobo, era dettato da due fattori: il pregiudizio nei confronti del look androgino che la musica elettronica portava con sé ed il forte timore che l’espansione commerciale di quei mezzi tecnologici, in grado di riprodurre il suono di qualsiasi strumento musicale convenzionale, potesse sostituire e disumanizzare la figura del musicista in carne ed ossa.
Per quanto, diverse band hard rock e glam rock, tra cui Hanoi Rocks, Van Halen, Europe e Bon Jovi, ad esempio, accolsero le tastiere come un’opportunità di crescita sotto ogni punto di vista. Ciò che, invece, metteva d’accordo tutti era la spasmodica ricerca di quello che oggi chiamiamo “outfit”, in quanto tratto distintivo e identificativo: da Madonna ai Cinderella, da Prince ai Duran Duran, dai Culture Club ai Guns N’ Roses, ecc.
Gli anni ’80 verranno ricordati anche per aver sdoganato icone che hanno riscritto il mondo dello sport, per lo stile del prêt-à-porter italiano, per l’affermazione “cinematografica” dei videoclip musicali, per l’egemonia mediatica di MTV e per l’ascesa di radio FM e magazine musicali. Mentre si rafforzava il rapporto simbiotico tra celebrità e mass media, iniziava a farsi largo la coesistenza tra beneficenza ed attivismo sociale.
Insomma, il nuovo boom economico era all’orizzonte e stava decollando, senza cinture di sicurezza, senza forza gravitazionale e senza limiti di velocità. Un po’ come ritrovarsi al volante di una monoposto in Formula Uno insieme ad Ayrton Senna.
Pertanto, negli anni ’80, la nuova strategia di marketing aveva impostato il suo core business (il magnetismo seduttivo dell’anglofonia…) sulla diffusione di immagini visive semplici, jingle accattivanti e slogan sintetici. Il suono aveva superato la potenza del messaggio dei testi.
Il chè significava rivolgersi ad un pubblico di massa e, di conseguenza, mediamente poco intelligente, il cui impegno era votato unicamente all’intrattenimento (Adrian Borland, già in tempi non sospetti, si era espresso in maniera negativa riguardo l’intrattenimento nell’industria musicale e ad un gruppo in particolare). La cultura di massa si era diffusa come forma multimediale di persuasione ormai imprescindibile in quegli anni, al punto da diventare il modello da seguire, nonchè il principale bene di consumo da esportazione.
Di fatto, ciò che contava era l’influenza dei mass media e della cultura di massa. In mezzo c’era il prodotto (non importava che fosse musicale, cinematografico, ecc.), il quale dipendeva dal semplice fattore di domanda e offerta. Vi evito il paragone pleonastico con la società del 2020. Quando pensiamo alla confusione morale di oggi, alla superficialità e agli eccessi di beni di consumo della contemporaneità, è come se tornassimo a guardare una fotografia sfocata degli anni ’80, scattata con la nostra vecchia Polaroid.
Successivamente, tra la fine dell’89 e l’inizio della nuova decade, arrivarono due avvenimenti storici e significativi per la storia del Novecento, ovvero la caduta del muro di Berlino e la liberazione dell’attivista sudafricano Nelson Mandela. Eventi che decretarono la fine di alcuni regimi totalitari, favorendo la creazione di un nuovo ordine mondiale e la formazione di nuove alleanze, modificando lo status quo di molti paesi e riscrivendo i confini geopolitici del pianeta, facendo così il primo passo verso il concetto futuro di globalizzazione.
Peccato che tutta la prosperità “oversize” degli ’80, soltanto un decennio più tardi, si sarebbe rivelata nient’altro che una mera bolla speculativa. Le conseguenze le conosciamo tutti.
Ma si sa, il capitalismo per sua natura deve nutrire il desiderio, quindi qualsiasi realtà commerciale dovrà assumere tutte le caratteristiche che gli permettono di promuovere qualsiasi bene di consumo, a prescindere dall’etica e dalla percezione personale.
Ed in quel momento storico, la coscienza etica non era affatto un valore prioritario. La cultura individualista, da lì a poco, avrebbe scansato il vecchio status di collettività. Lo aveva capito Billy Idol con la sua Dancing With Myself.
La cultura pop degli ’80, con tutti i suoi vecchi e nuovi scenari artistici, salvo poche eccezioni, continuava comunque a registrare il dominio dei “bianchi”. Soltanto a metà degli anni Novanta la controcultura afroamericana raggiungerà il punto più alto del mainstream, sebbene persisteranno condizioni di disuguaglianza sociale in diverse parti del mondo.
Potremmo riassumere quella magnifica giostra stellata e carnevalesca degli ’80 con una delle sceneggiature più patetiche ed inflazionate che siano mai state scritte: all’inizio c’è un artista che ha un sogno e che riesce a raggiungere la fama (David Bowie?) grazie ai suoi dischi multi-platino, poi però soccombe all’alcool, alle droghe e al sesso (una originalissima collezione di clichè rock) che arrivano con il successo, quindi perde tutti i soldi e va in disgrazia, ma alla fine risorge dalle sue ceneri. Qualcuno ha detto Ozzy Osbourne e Mötley Crüe?
Alla fine degli anni Ottanta c’era voglia di libertà, voglia di nuova linfa vitale, smania di scoprire energie rinnovabili, urgenza di cambiare nuovamente rotta (alla faccia dei boomer) e di voltare le spalle a tutte le promesse fatte. Gli anni rampanti dei miti sorridenti da windsurf, così allegri e depressi, erano scivolati via per trasformarsi in graffiti. Bisognava dunque, ripartire da altre prospettive, dalle nuove contaminazioni e dall’ultimo afflato del genere rock.