I meravigliosi anni ’80 erano volati via così, come il più bel pompino della vostra vita.
Tutta la masturbazione musicale di quel decennio, insieme all’ossessione per la tecnica e per la velocità di esecuzione, portò il mondo del rock degli ’80 ad una inevitabile deriva satolla, satura, monotona e soporifera. Yngwie Malmsteen fu la massima espressione di quella corrente di chitarristi impegnati a suonare migliaia di note nel minor tempo possibile.
In quel momento storico, i metallari credettero davvero che il guitar hero svedese fosse il futuro della musica in generale. “La più grossa stronzata mai sentita da quando l’omo inventò er cavallo!”.
Ed invece, Malmsteen, grazie al suo labirinto strumentale senza uscita, costruito su una visione patologica e narcisista, finì con lo snaturare il DNA di quel genere musicale.
Del resto, la musica rock ha sempre dovuto fare i conti con la “stupida” logica del virtuosismo, caratteristica amplificata, soprattutto, negli anni ’80 (grazie a tutti gli emuli di Ritchie Blackmore, Eddie Van Halen e Randy Rhoads), e l’infondatezza della teoria umana che spesso sostiene che complessità sia sinonimo di grandezza.
Le teorie e le logiche dei “guitar hero” verranno smontate all’inizio del decennio successivo. Credo che nessun fan del rock, mediamente intelligente (la famosa teoria degli altri che sono più stupidi di noi…), direbbe mai che Yngwie Malmsteen è un chitarrista migliore di Keith Richards, sebbene il primo sia oggettivamente più dotato tecnicamente dell’altro.
Così, lo sfavillante decennio degli Ottanta, da lì a poco, avrebbe esaurito la sua carica testosteronica e consumato l’illusione del boom economico, mentre si affacciavano all’orizzonte le nuove “autostrade informatiche” (come amava definirle Al Gore) del nuovo decennio.
Gli anni ’90 sono stati un periodo storico caotico, entropico e ricco di contaminazioni, tra alti e bassi, luci e ombre. Immaginate una cipolla dai mille strati. Eravamo tornati a fare i conti con le difficoltà del realismo, tra le lotte per i diritti civili, cultura collettiva multirazziale e lo spettro dell’austerity, ed avevamo iniziato a testare i primi effetti della globalizzazione.
Il muro di Berlino era caduto, la guerra fredda era finita e folle di sconosciuti si abbracciavano attraversando il Checkpoint Charlie. Niente più frontiere in Europa, come in Lisbon Story di Wim Wenders.
Nel 1990, la nuova Germania, fresca di unificazione, ma ancora come Germania Ovest, vinse il mondiale di calcio delle “notti magiche italiane” contro l’Argentina di Maradona. La vendetta dopo la finale di Messico ’86. Alle porte del nuovo decennio, tutti volevano rivendicare la propria indipendenza, in un contesto geopolitico fluido e flessibile, nel quale si stavano creando e riscrivendo nuovi confini territoriali. La Germania si sarebbe rinforzata unificandosi sotto un’unica bandiera, mentre (ecco il paradosso) le guerre “fratricide” e secessioniste nei Balcani, in breve tempo, avrebbero disgregato la Jugoslavia in tanti stati indipendenti. Stessa sorte toccò alla vecchia Unione Sovietica.
Alla Casa Bianca non è che le cose andassero meglio: Ronald Reagan era stato scalzato da George Bush senior, il quale ricevette in eredità la guerra del Golfo e la minaccia Saddam Hussein. l’Occidente non poteva permettersi una terza crisi petrolifera. Successivamente, nel 1994, George Bush venne rimpiazzato dal giovane progressista Bill Clinton, al quale venne affidato l’arduo onere di ravvivare il sogno americano e contenere le tensioni razziali. A distanza di quattro anni Bill Clinton si ritrovò quasi in “ginocchio” a causa dello scandalo Sexgate.
Nel nostro ambito, invece, la presunta stabilità della politica italiana fu messa a dura prova da diversi eventi drammatici e nefasti: la corruzione di tangentopoli (meglio nota come “mani pulite”), il passaggio di testimone tra Prima e Seconda Repubblica, l’assassinio di Falcone e Borsellino per mano della mafia, l’ingresso in politica di Berlusconi, le lolite di Non È La Rai guidate da Boncompagni ed il successo popolare degli Articolo 31 e del karaoke di Fiorello.
“Un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte”. Gli sceneggiatori della serie tv Boris avevano visto il futuro prima degli altri; ci avevano descritto con un’intuizione disarmante. Eravamo veramente così, costantemente in differita rispetto alle mode, profondamente distratti dall’esterofilia e lanciati nel futuro senza la minima idea di futuro: ovvero, “il peggior conservatorismo che si tingeva di simpatia, di colore e di paillette”.
Eppure, negli anni ’90, il rock alternativo trovò terreno fertile persino in Italia. Erano molte le band nostrane impegnate a cavalcare quell’onda musicale non convenzionale. Sfortunatamente, fu una breve parentesi, un sogno ad occhi aperti.
Nel frattempo, lo sviluppo bulimico della tecnologia (che invece nel futuro ci stava andando sul serio e con cognizione di causa) iniziò ad offrire distrazioni di massa sempre più efficienti e all’avanguardia: i nuovi sistemi operativi Microsoft Windows, la PlayStation, il Tamagotchi, il CD-ROM, i cellulari di prima generazione, Internet e Google.
Di conseguenza, tale progresso mise in discussione la vecchia concezione del mondo del lavoro, proiettando arti e mestieri verso profili più dinamici dove le macchine, ben presto, avrebbero preso il posto degli esseri umani. Era, forse, questo il futuro utopico disegnato dai Kraftwerk?
Al contempo, i mercati finanziari stavano registrando un aumento esponenziale del debito pubblico, cosicché le certezze a livello economico ed occupazionale cominciarono a vacillare, incrementando gli episodi di microcriminalità.
Fu così che ci ritrovammo tra l’incudine e il martello; da una parte la destabilizzante e avida prospettiva del capitalismo e dall’altra il declino dei valori spirituali di una società sempre più agnostica e indirizzata verso forme di comunicazione individualiste e virtuali.
In poche parole: negli anni ’90, tutto ciò che era analogico passò definitivamente il testimone alle nuove offerte digitali. Anche la musica, così come lo sport e la politica, espresse la sua moralità in quanto riflesso di una generazione che stava cambiando pelle e mentalità. Ovviamente, in peggio. L’impostazione del rock anni ’80, ad esempio, risultava decisamente antiquata e superata. Se ne accorsero i volponi delle industrie discografiche, pronti ad accogliere uno stile musicale diverso, dalle sonorità ruvide, abrasive, essenziali, dirette, contaminate, eclettiche e nichiliste.
All’improvviso le band metal apparirono datate e i loro frontman ridicoli. Le case discografiche li abbandonarono per inseguire nuove band alternative rock e grunge su cui investire. Gli anni Novanta sono stati il vero trionfo del rock alternativo e del grunge. Un vero e proprio fiume in piena a base di vodka. Probabilmente, l’ultima rivoluzione culturale nella storia della musica rock, che potremmo considerare come una specie di revival della musica ribelle del ’68. E, soprattutto, verranno ricordati per la rivincita dei nerd, dei cosiddetti loser (Beck docet), dei reietti del decennio prima: insomma, dei Radiohead.
I musicisti emergenti nel panorama alternative rock rifiutarono il look come “divisa da lavoro”. I protagonisti della scena grunge e alternative rock si presentarono al grande pubblico con un abbigliamento trasandato “fai-da-te” e casual (più precisamente, a cazzo di cane!), proprio per dare risalto alla musica e ai contenuti, così da poter risultare, nonostante fosse tutto recitativo, più credibili possibile.
Niente bella vita, alcool, donne o amore, ma solo l’ostentazione di sentimenti quali depressione, odio e rabbia ricamati su camicie da boscaioli, golfini della nonna, magliette e jeans strappati. Tutto sembrava così sudicio e genuinamente grezzo e incazzato.
Fu questo l’epitaffio delle soubrette del glam rock anni ’80, l’ascesa della Generazione X e la sconfitta dei boomer. La “moda” grunge sarebbe esplosa alla fine del 1991, nonostante già alla fine degli anni ’80 godesse di una certa popolarità tra le mura amiche di Seattle, e avrebbe assistito al suo epilogo con il suicidio di Kurt Cobain, messia e portavoce dello spleen giovanile di quella generazione.
Alla luce di questi cambiamenti, negli anni ’90 la chitarra (leggermente defilata nel circuito commerciale degli anni ’80) si riprese il centro della scena pop ed i riflettori del music business. In quel periodo, tutti volevano alzare i decibel dei propri amplificatori ed enfatizzare il suono distorto della parte ritmica. Un po’ come riesumare l’etica punk, ma con una bella colata di glassa. Marilyn Manson, per capirci.
Per esempio, mostri sacri come U2, Depeche Mode, Michael Jackson e R.E.M. sfilarono sul red carpet dei ’90 adeguandosi al nuovo trend, al “rock delle libertà”, e mettendo in secondo piano l’aspetto elettronico, funky-disco, new wave o rock retrò che li aveva contraddistinti in precedenza. Contestualmente, punk rock e brit rock tornarono in auge con un restyling in chiave pop; rap e hip hop erano diventate realtà affermate e sdoganate; la politica delle fusioni (Crossover) si dimostrò una strategia necessaria per sopravvivere; l’elettronica esplose in tutto il mondo con il suo potenziale commerciale nella musica dance e nella cultura dei club rave; operazioni di marketing dolose come quelle delle boy band (e girl band) diedero vita a fenomeni da baraccone (Take That, Spice Girls, New Kids On The Block e Backstreet Boys) acchittati a tavolino, con lo scopo di coinvolgere emotivamente il “segmento remunerativo” dei teenager, in particolar modo il pubblico femminile.
L’heavy metal classico, invece, si apprestava a giocare le sue ultime carte buone con il Black Album dei Metallica e Vulgar Display Of Power dei Pantera, mentre nuove forme di metallo pesante (nu metal), mescolate al cantato rap e alle atmosfere industrial, da lì a poco, avrebbero scalato, purtroppo, la piramide dell’ingranaggio mainstream.
Quelli erano anni in cui la musica dovevi ancora “cercartela” (non c’erano le piattaforme streaming), sia che fosse finalizzato all’ascolto casalingo oppure alle esibizioni live. Anche vinili e musicassette risultarono supporti fisici datati; la loro fetta di mercato passò a quello che, in quel momento, veniva considerato come il supporto digitale dell’avvenire, il prototipo di musica liquida, ovvero il compact disc.
In conclusione, si evince che le operazioni nostalgia funzionano quasi sempre, purché l’oggetto del tema sia abbastanza popolare da poter coinvolgere un numero più vasto possibile di utenti. Oggigiorno, sembra stiano tornando in voga le sonorità retrò degli anni Novanta, a metà tra l’irreversibile mancanza d’ispirazione e l’omaggio paraculo. Dove quest’ultimo fattore è comunque derivante dal primo. Del resto, sappiamo che ogni forma d’arte, in buona sostanza, non è altro che un qualcosa di già cucinato.
Dunque, se di questi tempi ve ne andate in giro indossando la vostra t-shirt dei Nirvana acquistata nel reparto saldi della Oviesse ed una camicia di flanella a quadri di H&M, non passerete per incalliti nostalgici, ma semplicemente per dei patetici fighetti.