Un’“ombra” spessa sembra ipnotizzare le voci della narrativa italiana: è l’interrogazione sul male. Il male più insondabile, perché non sorretto o ammantato da nessuna ambizione politica, travestimento o nesso: il male “privato” che è consumato in alcuni casi da giovanissimi (https://www.ilsaltodellaquaglia.com/2020/09/07/solo-un-ragazzo-il-romanzo-sapiente-di-elena-varvello/) o che in altri assume una sorta di spessore corale, diventa racconto di una città. (https://www.ilsaltodellaquaglia.com/2020/11/05/nicola-lagioia-i-vivi-e-i-morti/). A questa fascinazione oscura non si è sottratta Antonella Lattanzi con la sua terza prova narrativa, Questo giorno che incombe.
Francesca lascia con la famiglia – il marito Massimo, le figliolette Angela ed Emma – Milano, gli affetti, il lavoro, le occasioni che riempivano la sua esistenza. Si trasferisce a Roma. Nuovo inizio, nuova casa, nuova vita, Francesca fa tabula rasa del passato: è il coronamento di un sogno, la chimera della libertà. Zero vincoli, zero condizionamenti. Libertà. Pienezza. Chi non la invidierebbe? La promessa, però, piano piano si incrina. La felicità si oscura. Nell’universo fatato che crede di aver raggiunto, si produce la prima fessura, la prima incrinatura, la prima slabbratura. Quello che all’inizio è un piccolo varco diventa una porta spalancata: il male fluisce, invade. Il male si è insediato al centro della vita (e nella testa) di Francesca.
Il microcosmo che l’aveva accolta, che avrebbe dovuto lasciare respirare il suo desiderio di felicità, il condominio che assorbe totalmente la vita di chi lo abita – “non lasciamo che il germe della paura piantato da qualcuno di fuori si insinui nel nostro paradiso” – svela il suo volto arcigno, assediante, quasi una potenza occulta lo nutra. “Il Giardino di Roma” assomiglia sempre più a una foresta di rovi. L’orrore lo intrappola. Prima la morte misteriosa di un gatto. Poi la scomparsa, terribile, di una bambina. Ma qual è il vero volto del male? Chi è il volto del male? Dove si insinua il male?
Chi possiede la “patente” per riconoscerlo? Il male non si annida proprio là dove si pretende che non ci sia, nel “paradiso” di chi si sente immune dal suo contagio, nella chiusura al mondo, nella barriera tra “noi” e “loro”, nella caccia al diverso, nella pretesa della perfezione? Sulla scia (dichiarata) di Stephen King – tipica del maestro è la corrispondenza tra i luoghi e il male che lo macchia, del maestro è la frantumazione del pensiero – Lattanzi procede con una scrittura affannosa, ritmata, a tratti gonfia.
Una scrittura abile a registrare le voci che abitano la testa della protagonista, il formicolio agghiacciante dei pensieri. I dolori che schiacciano la vita. Alla fine, sembra dirci Lattanzi, che tu fugga in un albergo vuoto o in un condominio affollato, devi arrenderti a una verità. L’orrore non puoi esorcizzare. L’ustione del male prima o poi ti artiglia. “Chi è infelice ti divora”.