Antonio Margheriti (1930 – 2002) si avvicina al cinema da giovanissimo, lavorando a cortometraggi e sceneggiature. Il regista Turi Vasile lo fa mettere in luce come soggettista e sceneggiatore di alcune commedie (Classe di ferro, Gambe d’oro, Promesse di marinaio, Roulotte e roulette), ma il giovane Margheriti ama gli effetti speciali e il cinema fantastico, per questo non tarda a porsi all’attenzione del pubblico come primo autore italiano di fantascienza. Space Men (1960) rappresenta il suo ingresso nella cinematografia di genere, sfidando un settore da sempre povero di successi come la fantascienza artigianale, composta di trucchi casalinghi ma ben congegnati. Margheriti segue il destino di Mario Bava e di molti geniali autori italiani, costretti a fare di necessità virtù e a lavorare sempre con budget risicati, ispirandosi a successi d’oltreoceano, ma non di rado anticipandoli e condizionandoli. La fantascienza di Margheriti vista oggi pare puerile e datata, ma va storicizzata per essere apprezzata, perché l’autore romano riesce a creare atmosfere suggestive e credibili con mezzi molto limitati.
Margheriti si firma spesso come Anthony M. Dawson, soprattutto quando gira pellicole horror e fantastiche, che vengono esportate anche all’estero e lo pongono all’attenzione della critica internazionale. Il suo primo pseudonimo era Anthony Daisies, ma la traduzione del cognome in “Margherite” poteva lasciar intendere implicazioni omosessuali. Per questo il regista scelse Anthony Dawson, ma anche qui c’era il problema dell’omonimia con un attore inglese e allora per differenziare venne inserita una “M.” tra il nome e il cognome. Inutile dire che Margheriti ne avrebbe fatto a meno e che si adeguava ai voleri dei produttori per poter vendere meglio il suo cinema. In questa sede analizzeremo la produzione horror, tralasciando gli altri campi d’interesse del regista che vanno dal mitologico al western, passando per il cinema di animazione, lo spionaggio, la commedia, il thriller e soprattutto la fantascienza.
A Cinecittà viene chiamato “il Roger Corman italiano” per questa sua facilità di passare da un genere all’altro realizzando prodotti di buona fattura con poche lire. Tra l’altro segnaliamo molte pellicole di Margheriti dove vengono inserite tematiche impegnate, anche se la confezione è squisitamente di genere. In ogni caso lui non si prende mai sul serio e afferma con grande ironia: “Sono un macellaio che vende film un tanto al chilo”. Gira pellicole in due settimane e due giorni, questi ultimi dedicati a trucchi ed effetti speciali che di solito realizza in proprio, con lo pseudonimo di Anthony Mattews. Margheriti è un maestro degli effetti speciali, al punto che rischia di finire a lavorare niente meno che con Stanley Kubrick per 2001:Odissea nello spazio (1968), ma poi l’occasione sfuma. Per Sergio Leone, invece, realizza i trucchi finali di Giù la testa (1971), in particolar modo la scena dello scontro tra i due treni.
Prima di cimentarsi con l’horror gotico gira film fantascientifici come Space men (1960) e Il pianeta degli uomini spenti (1961), ma anche il fiabesco L’arciere delle mille e una notte (1962) e Il crollo di Roma (1963). Altri suoi film di carattere mitologico sono: Anthar l’invincibile (1964), I giganti di Roma (1964) e Ursus il terrore del Kirghisi (1964 – con Ruggero Deodato).
Il primo film gotico di Margheriti è Danza macabra (1963), una storia di fantasmi girata in un suggestivo bianco e nero, con protagonista niente meno che Edgard Allan Poe, memorabile per un’intensa interpretazione di Barbara Steele nei panni di uno spettro inquietante e morboso. La narrazione prende le mosse all’interno di una taverna londinese in seguito a una scommessa tra il giornalista Alan Foster e un amico di Poe. Tra l’altro lo scrittore nelle prime sequenze narra brani tratti da Berenice e cita alcuni passi di considerazioni letterarie desunte dalla sua opera. Il giornalista è un uomo molto razionale, non crede ai misteri e alle creazioni fantastiche. Per questo scommette di poter passare un’intera notte in un castello infestato da fantasmi che tornano in vita per rievocare il loro passato. Non è una notte come le altre, perché è il primo novembre, giorno dei morti che tornano sulla terra. Nel castello Foster incontra due spettri con le sembianze di giovani donne che sembrano avere un legame lesbico. Il giornalista rivede gli ultimi momenti della vita di Elizabeth, si innamora della bella presenza spettrale e resiste all’assalto dei fantasmi che cercano il suo sangue per continuare a vivere. La donna difende Foster dagli spettri e prima di tornare nella tomba lo fa fuggire, ma il lieto fine non è assicurato perché la grata del cancello trafigge a morte il giornalista.
L’horror italiano presenta spesso questa caratteristica della mancanza di lieto fine e Antonio Margheriti non si allontana dalla lezione di Mario Bava. Danza macabra è un film horror soprannaturale, di impostazione e ambientazione gotica, pervaso di un erotismo soffuso e malsano che sfida la censura del tempo. La dimensione onirica e surreale caratterizza un film tutto giocato sul soprannaturale e lungo binari da horror fantastico.
Le atmosfere gotiche sono tutte presenti: notti nebbiose, vento che soffia, piante del giardino che diventano mani tese ad avvolgere corpi, stanze tenebrose, gatti che corrono, porte cigolanti, armature, ragnatele, finestre che si aprono e via dicendo. I passi del giornalista risuonano a lungo per stanze silenziose, una musica intensa sottolinea la tensione e apre le porte al mistero che incombe. Il film è molto teatrale, girato completamente in interni, basato su recitazione ed effetti speciali. Il luogo sinistro è reso dal regista con estrema cura, sin dal macabro giardino della villa trasformato in cimitero, ma anche con la polvere sui tavoli, il pendolo che batte le ore e anticipa le misteriose apparizioni. Alcune sequenze sono indimenticabili: la mano di Elizabeth che si posa sulla spalla del giornalista, i fantasmi che danzano, un vento innaturale che spenge il candelabro e il volto di una donna riflesso nel quadro. Margheriti cita Carmilla di Le Fanu – uno dei primi racconti vampirici a tema lesbico – riprendendo la copertina del libro in una delle scene iniziali. L’andamento della storia è da melodramma horror, con una superba Barbara Steele nella parte della defunta innamorata che vive solo quando ama. Il soprannaturale irrompe con prepotenza ma il regista lo rende credibile: la vita va oltre la morte quando il decesso avviene e una persona non è preparata. I fantasmi rivivono in eterno la scena della loro morte, ma sono dei vampiri che vivono cibandosi di sangue, perché il sangue è fonte di vita e solo il sangue fa vivere ancora i morti. Il finale è notevole. “Ora tocca a te, Foster. È giunta la tua ora”. Comincia la caccia all’uomo da parte dei fantasmi, con il tentativo di salvarlo compiuto da Elizabeth che non modifica il destino. Memorabile la trasformazione macabra di Barbara Steele nel giardino della villa che ricorda un’analoga scena de I vampiri di Riccardo Freda. Il volto della donna si fa intenso e spiritato, la carne si decompone sino a scomparire e diventa un teschio. La morte di Foster è un capolavoro di suspense. Edgard Allan Poe scriverà questa storia, ma come sempre nessuno ci crederà.
Il film non è tratto da un racconto di Poe, come la produzione tenta di far credere, ma è una storia originale scritta e sceneggiata da Gianni Grimaldi e Bruno Corbucci, che si firmano Jean Grimaud e Gordon Wiles jr.. I due sceneggiatori si prendono gioco pure della produzione presentando il soggetto come una novella scritta da una coppia di improbabili inglesi chiamati Winston e Smith. Il regista doveva essere Sergio Corbucci, ma dopo un breve periodo di riprese passò la mano a Margheriti che aveva iniziato come direttore degli effetti speciali. A Margheriti non piaceva: “Lo sento parecchio datato” disse in una vecchia intervista rilasciata a Segno Cinema. Non è vero. Per Mereghetti è uno dei migliori gotici italiani dell’epoca, dove l’eleganza classica della messa in scena (con una prodigiosa fotografia contrastata di Riccardo Pallottini e abbondanza di piani sequenza) fonde il romanticismo macabro con temi sottilmente morbosi, creando un clima sinuoso e suggestivo, senza il lieto fine d’obbligo. Notevoli le musiche di Riz Ortolani e gli effetti dello stesso Margheriti. Aiuto regista è un giovane Ruggero Deodato. Il film viene girato in due settimane e un giorno (dedicato agli effetti speciali), con tre macchine da presa usate contemporaneamente.
Tra gli interpreti citiamo Silvano Tranquilli nei panni di Edgard Allan Poe, Umberto Raho e Georges Riviere (il giornalista), oltre a una splendida Barbara Steele, fresca protagonista de La maschera del demonio. Margheriti dirige un film inquietante e morboso con mano solida e ispirata, insistendo sull’atmosfera torbida caratterizzata da intrecci amorosi, ricordi del passato, antiche gelosie e rapporti lesbici. Negli USA – dove è molto amato – esce come Castle of Blood e poi come Castle of Terror. Il regista gira un remake di questa pellicola sotto il titolo di Nella stretta morsa del ragno (1971), con Klaus Kinski nei panni di Edgard Allan Poe.
La vergine di Norimberga (1964) è il secondo horror gotico di Margheriti, scritto e sceneggiato da Ernesto Gastaldi ed Edmond T. Greville sulla base del romanzo di Frank Bogart. Da notare che Gastaldi si firma con l’improbabile nome anglofono di Gastald Green. Si tratta di uno dei film più noti e celebrati di Margheriti anche se lui minimizzava non poco: “L’ho girato in due settimane, con tre camere, come si fa in televisione. Non è un buon film. L’ho fatto solo per motivi alimentari. Abbiamo scritto la sceneggiatura in dieci notti. Amo il fantastico, ma la maggior parte dei miei film sono operazioni commerciali”. Nella trama vengono inseriti elementi thriller e momenti di tensione che modificano la prospettiva horror. Il film è ambientato nel classico castello tenebroso tormentato dal vento e da notti nebbiose, ma la vicenda claustrofobica è un giallo – horror con un assassino imprendibile che uccide le sue vittime. Possiamo classificare horror La vergine di Norimberga, non solo per la presenza nel cast di un’icona del genere come Cristopher Lee, ma soprattutto per le uccisioni macabre, per il killer mostruoso simile a un fantasma e per l’utilizzo di strumenti di tortura. Protagonista del film è la giovane Mary (Rossana Podestà), un’americana sposata con il nobile Max (Georges Riviere), che appena arriva al castello vede il cadavere di una ragazza dentro una vergine di Norimberga. Tutti si affannano per farle credere che ha avuto un’allucinazione, ma il killer continua ad aggirarsi per le stanze del castello, perseguita Mary e uccide incappucciato. Mary sospetta del marito, ma si sbaglia, perché l’autore del massacro è il padre di Max, un ufficiale nazista che ha congiurato contro Hitler e che per punizione è stato sfigurato ed è impazzito dopo oscuri esperimenti. Alla fine il mostro muore in un incendio e il marito salva la giovane moglie con l’aiuto della polizia.
La vergine di Norimberga è un gotico prodotto da Marco Vicario, ricco di effettacci insoliti per il periodo storico, al punto che nella scena più sanguinosa si passa al bianco e nero per addolcirla. Non piace molto alla critica, a parte Mereghetti che concede due stelle e mezzo, afferma che Cristopher Lee è sprecato nel ruolo del servitore, la pellicola è girata in fretta, ma conserva una bella atmosfera. Giuseppe Lippi dice che la cosa migliore è la maschera mostruosa del generale pazzo. Marco Giusti definisce La vergine di Norimberga un film mediocre, allineandosi al giudizio di Italian Horror films of the 1960. Non piacque molto neppure in USA, dove uscì come Horror Castle e non fece buoni incassi. Nonostante tutto La vergine di Norimberga è un buon horror gotico soprannaturale, girato con mano sicura da Margheriti che realizza un finale a sorpresa sconvolgente e una storia macabra al punto giusto. Gli elementi gotici sono tutti presenti e il gusto visivo del regista li sa rendere al meglio con agili movimenti di macchina.