Antonio Pietrangeli (Roma, 1919 – Gaeta/Latina, 1968) è un regista -sceneggiatore che proviene da studi medici, ma preferisce dedicarsi al cinema dopo aver frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia. Impegnato come critico cinematografico, scrive sulle rivista Bianco & nero e Cinema pungenti articoli nei quali si batte per una nuova stagione di realismo nel cinema italiano. Pietrangeli si avvicina al cinema pratico assistendo Luchino Visconti durante le riprese di Ossessione (1943). Le sue prime sceneggiature sono scritte per Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Pietro Germi e Alberto Lattuada. Scrive il commento per il documentario La nostra guerra (1945) di Alberto Lattuada, lavora con Antonio Blasetti per la sceneggiatura di Fabiola (1947) e ancora con Visconti (La terra trema, 1948). Molto attivo come aiuto regista tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, lo troviamo sui set di pellicole come Gioventù perduta (1947) di Pietro Germi, Amanti senza amore (1947) di Gianni Fanciolini, La sposa non può attendere (1949) di Gianni Fanciolini, Ultimo incontro (1951) di Gianni Fanciolini, Due mogli sono troppe (1951) di Mario Camerini, Europa ’51 (1952) di Roberto Rossellini, La tratta delle bianche (1952) di Luigi Comencini, I sette peccati capitali (1952) – film a episodi realizzato da Georges Lacombe, Eduardo De Filippo, Claude Autent-Lara, Carlo Rim, Yves Allégret, Roberto Rossellini e Jean Dréville -, La lupa (1953) di Alberto Lattuada, Rivalità (1953) di Giuliano Biagetti e Dov’è la libertà? (1954) di Roberto Rossellini.
Pietrangeli mostra subito un tratto d’autore interessato a costruire personaggi femminili, vera e propria costante nella sua cinematografia. Il cinema di Pietrangeli mette la donna in primo piano accendendo le luci della ribalta per raccontare ragazze capricciose (Nata di marzo, 1958) e prostitute in cerca di riscatto (Adua e le compagne, 1960). La commedia all’italiana è il suo naturale approdo anche se conferisce sempre alle sue opere un inconfondibile taglio d’autore. Basti vedere un insolito Sordi che il regista tiene a bada con il serioso intreccio de Lo scapolo (1955) e gli elementi surreali di cui è intriso Il magnifico cornuto (1964). Antonio Pietrangeli resta nella storia della commedia all’italiana di contenuto erotico per aver lanciato il personaggio seducente di Catherine Spaak ne La parmigiana (1963), ma anche per la stupenda interpretazione di Sandra Milo ne La visita (1963) e di un’inquietante Stefania Sandrelli, bellissima interprete de Io la conoscevo bene (1963). I personaggi femminili di Pietrangeli non sono mai monodimensionali e fumettistici, interpretano una commedia ma non nascondono i problemi psicologici e sociali. Possono essere donne maliziose, provocanti, ingenue, persino umiliate, ma non sono mai superficiali e decorative, scelte solo per la loro bellezza. La donna di Pietrangeli è vittima e carnefice in una società contemporanea che sta cambiando rapidamente, in un’Italia che abbandona a passi rapidi il mondo contadino per industrializzarsi. Le commedie di Pietrangeli sono complesse e poco lineari, non godono di una narrazione fluida e scorrevole, ma sono frantumate e incerte come i tempi che la società italiana sta vivendo. Il regista riprende da diversi punti di vista il tema dell’emancipazione femminile per mettere in evidenza quanta strada resti ancora da fare. La sua bravura d’autore e il suo stile inconfondibile sta nella capacità di muoversi senza problemi usando registri comici, grotteschi, allegorici, parodistici e persino drammatici. I suoi personaggi femminili sembrano usciti dai romanzi di Guy de Maupassant, sono provinciali, medio borghesi, arricchiti, persone sconvolte dai nuovi modelli sociali che si adattano con difficoltà al cambiamento. Antonio Pietrangeli muore tragicamente, a soli quarantanove anni, annegando durante le riprese di Come, quando, perché (1968), terminato dal collega Valerio Zurlini.
Procediamo a una breve analisi sistematica delle pellicole di Antonio Pietrangeli, regista interessante che meriterebbe una trattazione ben più approfondita. Ci limiteremo a considerare il suo lavoro nell’ambito della protocommedia sexy e per le prime connotazioni di erotismo cinematografico.
Il suo primo film da regista è Il sole negli occhi (1953), interpretato da Irene Galter, Gabriele Ferzetti, Paolo Stoppa e Pina Bottin. Pietrangeli racconta una storia malinconica intrisa di riferimenti neorealisti costruita attorno al personaggio femminile di Irene Galtier, una ragazza di campagna che decide di trasferirsi a Roma per fare la domestica. Il canovaccio serve al regista per mostrare una serie di tipologie umane e sociali interessanti, dalla famiglia alto borghese, agli arricchiti, per finire con i piccolo borghesi che vivono al di sopra delle loro possibilità. La giovane campagnola non resiste alle tentazioni della vita cittadina, compie le sue esperienze da donna, viene sedotta e poi abbandonata, tenta il suicidio, ma alla fine mostra grande forza d’animo e decide di andare avanti per la sua strada. Una commedia amara, ben lontana dal neorealismo rosa, irreale e sdolcinato, ma ricca di interessanti riferimenti sociali e psicologici. La sceneggiatura è del regista che collabora con Lucio Battistrada, Ugo Pirro e Suso Cecchi d’Amico. Franco Zeffirelli è aiuto regista.
Amori di mezzo secolo (1953) è un lavoro collettivo girato insieme a Glauco Pellegrini, Pietro Germi, Mario Chiari e Roberto Rossellini. L’episodio di Antonio Pietrangeli è Girandola 1910, interpretato da Lea Padovani, Andrea Checchi, Umberto Melnati e Carlo Campanini, per raccontare le gesta di un medico che combina matrimoni. Gli altri episodi sono: L’amore romantico (Pellegrini), Guerra 1915 – 1918 (Germi), Dopoguerra 1920 (Chiari), Napoli 1943 (Rossellini). Il più riuscito risulta quello girato da Germi, ma anche Rosellini rispolvera il suo miglior neorealismo. Gli altri lavori – compreso quello di Pietrangeli – non rivestono particolare interesse ma sono piatti e senza nerbo. Il sesto episodio girato da Domenico Paolella non esce al cinema perché viene soppresso dalla censura.
Lo scapolo (1955) è un film con protagonista un Alberto Sordi leggermente diverso dal solito personaggio perché Pietrangeli fa attenzione a non cadere nei soliti cliché e nel macchiettistico, senza indugiare nella caricatura, evitando farsa e grottesco. Ruoli femminili interessanti sono interpretati da Sandra Milo, Madeleine Fischer, Anna Maria Pancani, Abbe Lane, Elvira Tonelli, Pina Bottin, Maria Asquerino. Sordi è uno scapolo impenitente che seduce la hostess Sandra Milo (al debutto), la segretaria (Pancani) e molte altre donne, ma alla fine dimostra di aver paura della solitudine e riallaccia i rapporti con una vecchia fiamma (Fischer) che non si fida più di lui e non ne vuole proprio sapere. Molto bravo Sordi nella parte del mediocre, fanfarone, ipocrita e in fondo vigliacco, timoroso di invecchiare in solitudine, abbandonato da tutti. Ottima la sceneggiatura scritta dal regista con la collaborazione di Ruggero Maccari, Ettore Scola e Sandro Continenza. Molto bravi anche Nino Manfredi (l’amico che dovrebbe sposare la sorella di Sordi), Francesco Mulè, Attilio Martella (l’amico che si sposa e lascia solo lo scapolo) e Fernando Fernán Gomez.
Souvenir d’Italie (1957) è una buona commedia sentimentale interpretata da June Laverick, Isabelle Corey, Inge Schoener, Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Massimo Girotti, Gabriele Ferzetti, Mario Carotenuto, Antonio Cifariello e Dario Fo. Tre avvenenti straniere (June Laverick, Isabelle Corey e Inge Schoener) girano l’Italia in autostop, perché vogliono essere indipendenti e non desiderano chiedere soldi ai genitori. Nel loro tour incontrano diversi tipi di maschio italiano. Vediamo un conte galante che concede ospitalità nella sua residenza trasformata in albergo (De Sica), un mantenuto sbruffone che vorrebbe scappare ma non riesce a liberarsi della vecchia amante (Sordi), un compito avvocato che s’innamora della ragazza più matta del terzetto (Ferzetti), un meccanico che studia storia romana per far colpo su una delle ragazze e finisce per innamorarsi (Cifarello), un autista intraprendente che vorrebbe portarsi a letto una ragazza (Carotenuto) e un professore di storia dell’arte che è stato prigioniero in Inghilterra ai tempi della guerra (Girotti). Siamo ancora nel campo del neorealismo rosa, pura commedia scanzonata senza implicazioni sociali, ma non mancano i riferimenti erotici, perché le interpreti femminili sono autostoppiste straniere a caccia d’avventure. I tempi non sono maturi per osare molto e Pietrangeli per mostrare le grazie delle tre attrici deve ricorrere all’escamotage di un bagno in mare. Le parti romantiche risultano datate e tropo sentimentali, inclini al gusto per il fotoromanzo e per il romanzo d’appendice, ma lo spettatore deve fare lo sforzo di storicizzare la pellicola. Il regista gira una gustosa commedia che ironizza sul vitellone italiano, sceneggiata insieme a Dario Fo (pure attore), Armando Crispino, Age e Scarpelli. Molto bravo Sordi nel ruolo del mantenuto da una vecchia signora che vorrebbe scappare insieme a una giovane autostoppista. Il suo personaggio del tipico italiano medio, profittatore, intrallazzone, inaffidabile, pronto a correre dietro la prima gonna che vede, è perfetto. Suona persino il mandolino e canta canzoni d’amore per la vecchia che lo mantiene, realizzando lo stereotipo classico del maschio italiano. Non è da meno De Sica che interpreta il ruolo del nobile decaduto, galante e signorile, che non sopporta i turisti volgari ai quali è costretto ad affittare una residenza signorile. Bravi anche Ferzetti e Girotti nei panni di due innamorati compiti, per niente vicini al cliché del vitellone italico, ma sinceri nei loro sentimenti. La pellicola è un ottimo strumento di propaganda turistica per il nostro paese, perché a tratti assurge al ruolo di cartolina illustrata degli angoli più suggestivi di Venezia, Pisa, Firenze e Roma. Il lieto fine all’aeroporto non è il massimo, ma non dimentichiamo che si tratta di una commedia del neorealismo rosa. Un film da riscoprire.
Nata di marzo (1958) non è commedia di costume, ma un delicato ritratto femminile ambientato nel mondo della borghesia milanese, interpretato da Jacqueline Sassard, Gabriele Ferzetti, Mario Valdemarin, Tina De Mola, Gina Rovere ed Eraldo De Roma. Sceneggiatura di Age, Scarpelli, Scola, Maccari e Pietrangeli. Molto brava la Sassard nel ruolo di una ragazza vivace e capricciosa – come vuole la tradizione per chi nasce di marzo – che sposa un architetto quarantenne (Ferzetti), ma la coppia si separa per la differenza di età e di mentalità. Lieto fine che il regista subisce per un imput produttivo, ma che in fondo condivide, anche perché la riconciliazione avviene soltanto nell’ultima scena e il personaggio femminile, indipendente e moderno, non ne esce indebolito.
Nata di marzo è un film sull’esperienza matrimoniale raccontato per lunghi flashback, una storia d’amore mai sdolcinata e anticonvenzionale tra due persone diverse. Lo spettatore conosce la storia della giovane moglie dalle confidenze fatte dalla donna a un amico dopo la lite con il marito. Abbiamo alcune scene con la Sassard in costume da bagno – il solo modo per mostrare le gambe di un’attrice – e brevi sequenze durante le quali cambia le calze lasciando intuire qualcosa. Vediamo i comportamenti da ragazzina che la Sassard mette in scena in maniera credibile, quando si reca alla conferenza del futuro marito e lo disturba con saluti inopportuni. I ruoli sono chiari sin dalle prime scene: lei è una lolita che vorrebbe crescere in fretta, lui un serioso architetto. Il primo bacio spaventa la ragazzina ma poi tutto si risolve in un affrettato matrimonio che mostra presto la corda. Pietrangeli costruisce un ritratto proto femminista di una donna moderna che vorrebbe lavorare, rendersi utile, invece di stare in casa ad aspettare. “Le donne che lavorano non hanno sesso”, afferma il marito, che rappresenta la mentalità maschile del tempo. “Le donne intelligenti vi danno fastidio”, risponde la moglie. Jacqueline Sassard è un’ottima donna indipendente, emancipata, una che vorrebbe farcela da sola e bastare a se stessa. Importante il discorso sulla parità tra i sessi, che significa anche parità sessuale, possibilità che anche la donna possa tradire, avere momenti di sbandamento e sentirsi sola. “Non accetto la parità come la intendi tu”, dice il marito ed è un’affermazione che segue la morale corrente. Il regista imposta una critica alla borghesia, ai luoghi comuni e alle convenzioni di una società arretrata. Parla della crisi del matrimonio e di una felicità da costruire giorno dopo giorno, dividendosi i pochi spazi possibili. In definitiva la pellicola serve anche a dire che in Italia manca una legge sul divorzio per risolvere molte situazioni critiche. Pietrangeli getta uno sguardo anche sui cambiamenti economici, mostra le prime automobili per i borghesi, la radio, il giardino davanti casa. La Sassard è addirittura una donna che sa guidare un’auto e possiede la patente. Stucchevole il lieto fine imposto, perché sembra di rivedere un lavoro del neorealismo rosa e un melodramma sentimentale. La corsa di Ferzetti dietro al tram, la donna in lacrime che dichiara il suo amore, implorando perdono perché non ha tradito, ma soprattutto il bacio finale, ricordano i romanzi d’appendice e i fotoromanzi. Tutto questo non inficia il valore di un film moderno e interessante.
Adua e le compagne (1960) è interpretato da Simone Signoret, Sandra Milo, Emmanuelle Riva, Gina Rovere, Marcello Mastroianni, Claudio Gora, Ivo Garrani, Antonio Rais, Duilio D’Amore, Gianrico Tedeschi, Enzo Maggio, Domenico Modugno, Valeria Fabrizi e Gloria Gilli. La tematica è molto trasgressiva per i tempi, perché protagoniste sono quattro ex prostitute (Signoret, Milo, Riva e Rovere) che per guadagnarsi da vivere dopo la chiusura delle case di tolleranza aprono una trattoria con l’aiuto di un vecchio cliente (Gora). La nuova attività procede bene, una delle donne spera persino di sposare un geometra, ma l’ex cliente ricatta le donne e le costringe a riprendere il vecchio mestiere sotto la copertura della trattoria. Il film è un’amara riflessione sui problemi dell’Italia del dopo boom economico, scritto e sceneggiato dal regista con la collaborazione di Ruggero Maccari, Ettore Scola e Tullio Pinelli. Molto belli i ritratti femminili di donne senza speranza, così come è approfondito e implacabile lo sguardo del regista sul mondo maschile. Adua torna sul marciapiede, ubriaca e sotto la pioggia, ripetendo: “Non ce la faccio, non ce la faccio…”. Impossibile ogni speranza di redenzione. Pietrangeli possiede senso della misura e non si lascia prendere la mano da effetti facili, pure in questa commedia amara sulle conseguenze negative della Legge Merlin sulle case chiuse non eccede nel melodramma ma si dedica a una convincente caratterizzazione dei personaggi femminili.
Fantasmi a Roma (1960) è una commedia surreale interpretata da Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Tino Buazzelli, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Belinda Lee, Claudio Gora, Ida Galli, Franca Marzi, Lilla Brignone ed Enzo Cerusico. Protagonisti sono alcuni fantasmi (Mastroianni, Buazzelli, Milo) che vivono in un vecchio palazzo romano proprietà di un principe spiantato (De Filippo). A un certo punto anche il principe diventa un fantasma perché muore in maniera violenta nel tentativo di aggiustare un vecchio scaldabagno. Il nipote del principe (Mastroianni in un altro ruolo) vorrebbe vendere il palazzo per raggranellare un po’ di soldi e vivere nel lusso insieme alla sua interessata compagna (Belinda Lee). I fantasmi tentano di salvare la dimora dallo scempio edilizio che prevede la costruzione di un gigantesco supermercato, favorito da mazzette e corruzione. Gassman è il fantasma di un pittore che si presta ad affrescare una parete per creare un ostacolo insormontabile alla vendita dell’immobile. Un ridicolo critico d’arte – tra l’altro corruttibile – attribuisce il dipinto al Caravaggio scatenando l’ira del fantasma, ma impedisce comunque la vendita del palazzo. Pietrangeli scrive e sceneggia la pellicola con la collaborazione di Ennio Flaiano, Ruggero Maccari ed Ettore Scola. Ne viene fuori una sferzante critica alla borghesia italiana del dopo boom economico, una polemica contro gli arricchiti senza scrupoli, avidi e ignoranti, ma anche una filippica contro la corruzione. La musica è di Nino Rota. Il film è comico ma gode di una carica realistica notevole e fuori allegoria pare tristemente vero. Si tratta di un lavoro in cui Pietrangeli fa sentire la sua presenza di regista per mettere in campo un discorso completo contro la speculazione edilizia, lasciandosi guidare meno dalla caratterizzazione dei personaggi. Pietrangeli punta il dito anche contro i critici d’arte che sbagliano, spesso si fanno corrompere e sono pronti ad autenticare qualsiasi crosta come l’opera di un autore importante. La pellicola è girata quasi tutta in interni e risente di una recitazione teatrale curata nei minimi particolari. I fantasmi irrompono nella vita quotidiana, danno consigli, aiutano, fanno dispetti, anche se nessuno se ne rende conto. La rappresentazione dei fantasmi è credibile, vestiti con abiti d’epoca e truccati con cipria e belletto, pieni di difetti come quando erano vivi. Il principe crede ai fantasmi, parla con loro come se fossero persone vive e quando muore li raggiunge per riabbracciare il fratello scomparso da bambino. Notevoli le presenze femminili, dalla bellissima meteora Belinda Lee alla ormai consolidata Sandra Milo. Molti gli accenni di commedia sexy. Mastroianni fantasma voyeur spia dai tetti una camera dove una signora si sta spogliando; Belinda Lee fa il bagno in una vasca piena di sapone, si alza e mostra le spalle nude, mentre in altre sequenze amoreggia con Mastroianni; Sandra Milo posa da Venere per il pittore in pose sensuali, mostrando le gambe nude, ma è tutto molto castigato.
La parmigiana (1963) è un nuovo interessante ritratto femminile interpretato dall’affascinante Catherine Spaak, ma anche il resto del cast è di gran livello: Nino Manfredi, Didi Perego, Salvo Randone, Lando Buzzanca, Vanni De Maigret e Rosalia Maggio. Catherine Spaak è Dora, ragazza inquieta che colleziona avventure amorose ed è incapace di rinchiudersi nella monotonia del matrimonio. I suoi amori vanno da un seminarista, a un anonimo fidanzato poliziotto (Buzzanca), a un opportunista fotografo (Manfredi). Dora è un tipico personaggio femminile di Pietrangeli, una donna indipendente e moderna che decide per un futuro di solitudine prima di accontentarsi di un compagno insoddisfacente. Dora accetta soltanto compromessi erotici con il mondo maschile ma non può concepire compromessi morali. La pellicola deriva da un romanzo di Bruna Piatti ed è costruita per flashback, senza moralismi e con graffiante ironia, per criticare la provincia e il mondo meschino degli egoismi piccolo – borghesi. Dora è una femminista ante litteram, un personaggio difficile da capire nei primi anni Sessanta, ma capace di anticipare lotte e situazioni future. Catherine Spaak è una lolita orfana, allevata da uno zio prete, che torna a Parma da un’amica della madre per dimenticare un passato fatto di avventure sbagliate. Il primo amore è un seminarista che “le fa la festa” (per usare una sua espressione) in riva al fiume, scappa con lei a Riccione, poi si pente e la molla in albergo con soltanto diecimila lire. Dora si fa comprare un costume da un vecchio porco e accetta di indossarlo in una cabina mentre lui la osserva ma rischia di essere violentata. Scende a patti erotici con l’albergatore per poter mangiare e dormire, incontra un fotografo millantatore che cerca di venderla a un imprenditore per fare affari con lui, ma poi tra i due nasce una relazione che pare sincera. Dora resta sola quando il fotografo finisce in galera per truffa e deve fare la vita per potersi mantenere. La ragazza esce sempre a testa alta da ogni situazione, mentre sono gli uomini che affondano nella loro miseria. Rifiuta persino un fidanzato rispettabile, che la idealizza e resta deluso quando scopre il suo passato, ma è così innamorato che la sposerebbe comunque. Dora sente di non amarlo e preferisce la solitudine prima di condividere la vita con un uomo che non fa per lei. Il finale è pura poesia. Dora si rende conto che il suo fotografo ha scelto la via del matrimonio con una donna che non ama ma lo mantiene. Poche lacrime le rigano il volto, ma appena il tempo per asciugarle, rifarsi il trucco e gettarsi con un sorriso aperto nella solita vita. Molte e intense le parti erotiche a rischio censura: la scena d’amore in riva al fiume, lo zio che spia Dora mentre dorme ed è tentato dalla vista delle gambe nude, la sequenza con il seminarista in albergo, la scena del bikini indossato in cabina con il guardone, le gambe nude davanti allo zio e al mare in altalena, le foto in costume con Manfredi, il rapporto erotico con Lando Buzzanca. Catherine Spaak è bellissima, sensuale, affascinante, riempie lo schermo con un sorriso inquietante e malizioso, strega gli uomini, non comprende come funziona la vita ma ci si immerge senza pensare. Didi Perego è bravissima nei panni della zia, insoddisfatta del marito che pensa solo a suonare la tromba e a ubriacarsi, ma che si concede poche scappatelle quando fa l’infermiera e va a ballare insieme alla nipote. I personaggi maschili sono tutti negativi. Il seminarista è un eterno indeciso, uno che non sa prendere le proprie responsabilità. Il fotografo – interpretato da un grande Manfredi – è un cialtrone privo di qualità che vorrebbe far soldi con idee strampalate ma passa da un insuccesso all’altro. “A me il boom non mi ha toccato. Il miracolo italiano… ma io non sono stato miracolato!”, esclama. Non gli resta che truffare e farsi mantenere sfruttando le donne, tanto che alla fine sceglie un matrimonio d’interesse. Lo zio, l’albergatore, il guardone, l’industriale pieno di soldi, sono dei vecchi maiali che si porterebbero a letto la ragazzina, ma in pubblico sfoggiano comportamenti rispettabili. Lando Buzzanca, poliziotto siciliano di stanza a Parma, racchiude tutti gli stereotipi del meridionale gretto e ignorante. La moglie deve essere illibata, non può guardare gli altri, deve essere succube del marito, ma in fondo non importa se la verginità manca, basta che nessuno lo sappia. Dora si concede a lui solo per convincerlo che è una donna perduta, che deve lasciarla stare, ma lui è troppo innamorato e insiste. Non è l’uomo che fa per lei, Dora se ne rende conto e decide per una vita solitaria ma indipendente. La sceneggiatura è del regista che collabora con Ettore Scola, Ruggero Maccari, Stefano Strucchi e Bruna Piatti. Ottima la colonna sonora di Piero Piccioni, basata su una serie di successi degli anni Sessanta come Guarda che luna, Renato, Cuando calienta el sol, Dimmi quando, Io che amo solo te e una serie di pezzi a ritmo di twist. Splendida la fotografia in bianco e nero con suggestive riprese che immortalano Parma, Roma e il sorriso di una bellissima Catherine Spaak.
La visita (1964) realizza un altro interessante ritratto femminile interpretato da Sandra Milo. Il resto del cast è composto da François Perrier, Mario Adorf, Didi Perego e Gastone Moschin. La trama deriva da un racconto di Carlo Cassola, sceneggiato dal regista con la collaborazione di Ettore Scola e Ruggero Maccari. Pina (Milo) è in corrispondenza epistolare con Adolfo (Périer), dopo un annuncio matrimoniale, ma quando i due si conoscono viene fuori la natura meschina ed egoista dell’uomo. Tutto finisce con una notte d’amore e un saluto pieno di imbarazzi. La visita è una commedia amara che serve a Pietrangeli per dipingere un nuovo ritratto vincente di donna che sa andare oltre la piccolezza del mondo maschile. Pina è una donna sola, ma non vuol vincere la solitudine a ogni costo, se l’uomo che incontra non si avvicina per niente al suo sogno d’amore. Sandra Milo – scoperta e lanciata da Pietrangeli ne Lo scapolo – fornisce una grane prova di attrice e accetta persino di imbruttirsi. François Perrier incarna un uomo avido, meschino, ipocrita, egoista, pieno di difetti, ma non caricaturale, un uomo realistico, come ce ne sono molti. Un personaggio nero da commedia all’italiana che trasmette momenti di fastidio e malessere nello spettatore.
Il magnifico cornuto (1964) è interpretato da Ugo Tognazzi, Claudia Cardinale, Gian Maria Volontè, Salvo Randone, Bernard Blier, José Luis de Villalonga e Lando Buzzanca. Tognazzi è un industriale bresciano così geloso della moglie (Cardinale) da sconfinare nel patologico. Finisce per indagare su una contravvenzione presa in un luogo equivoco, fa scenate davanti agli amici, finge di partire per poterla spiare, insomma rende alla moglie la vita impossibile. La donna inventa un amante per placare la follia del marito, ma complica la situazione perché l’uomo diventa ancora più intrattabile. A un certo punto Tognazzi subisce un grave incidente automobilistico e ottiene le meritate corna perché la moglie si concede al medico che lo prende in cura. Il finale mostra Ugo Tognazzi e Bernard Blier ridere insieme da veri cornuti contenti mentre si dicono che nel matrimonio la fiducia è tutto. Il soggetto del film deriva dalla pochade di Fernand Crommelynck, ma la sceneggiatura di Ettore Scola, Stefano Strucchi, Diego Fabbri e Ruggero Maccari realizza un’efficace satira sociale ricca di umorismo amaro. Il racconto viene inserito nella cornice dell’alta borghesia industriale bresciana, tra riti mondani, feste e incontri di persone che seguono ritmi e abitudini consuete. La commedia sexy è anticipata da scambi di coppie, tradimenti, piccanti elementi erotici inseriti in una cornice provinciale fatta di vizi privati e pubbliche virtù. Claudia Cardinale è bellissima, molto nuda in alcune parti oniriche che la vedono circondata da presunti amanti mentre danza intorno al letto in sottoverste di seta nera. Il ballo è sensuale, la Cardinale compie una sorta di striptease non integrale, quindi si adagia sul letto assumendo pose conturbanti. Altre sequenze mostrano la bella attrice prima in minigonna e successivamente in piscina con un bikini audace. Le cose migliori del film sono le parti oniriche, soprattutto quando il marito sogna il modo di vendicarsi dei presunti tradimenti: omicidio, polizia oppure fare l’amore con due donne davanti agli occhi della moglie. Tra gli attori troviamo anche Lando Buzzanca in una piccola parte da domestico rubacuori, presto licenziato dal geloso marito. Grande successo, ma non è uno dei film più riusciti di Antonio Pietrangeli, anche se il regista conferisce un segno d’autore e uno stile personale.
Io la conoscevo bene (1965) è interpretato da Stefania Sandrelli, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Mario Adorf, Jean-Claude Brialy, Joachim Fuchsberger, Turi Ferro, Franco Fabrizi, Robert Hoffmann, Franco Nero, Veronique Vendell, Franca Polesello, Solvi Stubing, Karin Dor e Claudio Camaso. Siamo di fronte al miglior film di Pietrangeli, magistralmente interpretato da una bellissima Stefania Sandrelli nei panni di una ragazza di campagna che lascia la famiglia per andare a vivere a Roma. L’incipit e la prima parte del film ricordano Il sole negli occhi, ma siamo su un altro livello di maturità registica. La ragazza entra in contatto con una serie di squallidi tipi maschili come un agente pubblicitario (Manfredi), un press agent (Fabrizi) e un attore (Salerno), che le fanno tante promesse ma vogliono soltanto portarsela a letto. La protagonista vive a Roma dove vorrebbe trovare la sua realizzazione e intreccia alcuni legami che non portano a niente, prima con un personaggio ambiguo (Brialy), poi con uno scrittore (Fuchsberger) e infine con uno squallido borghese (Hoffmann). Il finale è drammatico, perché la ragazza rientra a casa all’alba in preda allo sconforto, si toglie le scarpe e si suicida gettandosi dal balcone. Lo spettatore è spiazzato da un epilogo imprevisto perché i vecchi personaggi femminili di Pietrangeli trovavano sempre la forza per ricominciare, abbandonavano tutti e andavano avanti. Stefania Sandrelli, invece, interpreta da grande professionista il ruolo complesso di una ragazza ingenua che si lascia sconfiggere dalla vita. La commedia scorre rapida e incalzante con gli episodi inseriti come una sorta di mosaico fino all’imprevisto finale. Stefania Sandrelli sembra una donna capace di accettare tutto dalla vita, una persona che si lascia scivolare addosso ogni cosa senza farsi condizionare, ma non è così. L’attrice è perfetta nell’interpretare una ragazza ingenua e sprovveduta sbriciolata dagli ingranaggi di una società corrotta. Non è un personaggio positivo neppure lei, incapace di affrontare e dominare la realtà, superficiale al punto da limitarsi a cambiare pettinatura e vestito dopo un nuovo fallimento. Per la Sandrelli si tratta di uno dei ruoli più intensi della carriera e sulle sue spalle gravano molte responsabilità per la buona riuscita del film. Adriana è una ragazza ingenua ma non incolpevole, una donna che si lascia usare da personaggi meschini che incontra sul suo cammino e non concedono niente in cambio. Alla fine si arrende, dopo aver lottato per sopravvivere, ma viene fagocitata dal grande vuoto sentimentale, passionale e morale del mondo che la circonda. Pietrangeli ci lascia il suo lavoro più compiuto, il testamento spirituale di un autore capace di criticare con ferocia e sarcasmo la società in cui vive. È l’Italia degli anni Sessanta, che persone prive di memoria vagheggiano come un bel tempo andato, piena di millantatori, arrivisti, e volgari seduttori che frequentano il bel mondo del cinema e della pubblicità. Regista e sceneggiatori vincono il Nastro d’Argento, ma anche Ugo Tognazzi nei panni patetici di un vecchio attore disposto a tutto merita il premio. Da un punto di vista erotico il film è piuttosto spinto per i tempi così morigerati, soprattutto nelle sequenze iniziali. Vediamo una panoramica sulla spiaggia di Fregene con Stefania Sandrelli distesa al sole e subito dopo la sua corsa in negozio dove si adagia sul letto per riposare. Il bikini è molto audace, addirittura mostra le spalle scoperte, oltre alle gambe nude della giovane attrice. Vediamo brevi momenti di un rapporto erotico con il titolare del negozio da parrucchiera, un bagno nuda nel mare sotto la luna, un bambino che si eccita ballando con la ragazza e altre situazioni provocanti. Molto intensi alcuni flashback sul passato durante i quali Adriana rivede la sorella morta, la loro adolescenza e molti rapporti finiti male con uomini che volevano soltanto una cosa. Bellissima la colonna sonora a basa di musica anni Sessanta, pezzi cantati da Sergio Endrigo (Mani bucate, che descrive bene il personaggio femminile), Peppino di Capri (Roberta), Mina (E se domani) e molti altri (Lasciati baciare). Pietrangeli cita il neorealismo quando la ragazza decide di andare a Pistoia a far visita alla famiglia che vive in campagna, dopo aver fatto amicizia con un pugile suonato (un ottimo Mario Adorf), forse il solo personaggio positivo della pellicola. La vita dei campi è fotografata secondo la lezione neorealista, così come è notevole il bianco e nero evocativo con cui il regista realizza il film.
Le fate (1966) è un film collettivo girato da Luciano Salce, Mario Monicelli, Mauro Bolognini e Antonio Pietrangeli. Fata Marta è l’episodio realizzato da Pietrangeli, interpretato da Alberto Sordi, Capucine, Olga Villi, Gigi Ballista e Anthony Steel. Niente di eccezionale, come non è un capolavoro l’intero film, composto da storielle boccaccesche, avventure di corna, tradimenti e amanti. Fata Marta è uno degli episodi meglio riusciti, sceneggiato da Sonego e interpretato con la solita comicità esilarante da Sordi, racconta l’avventura erotica della moglie di un chirurgo con il suo autista dopo essersi ubriacata. Per fortuna che smaltita la sbornia dimentica tutto. Il tenore degli altri episodi vira verso la nascente commedia sexy, anche se va citato l’ottimo Fata Sabina di Luciano Salce, sceneggiato da Ruggero Maccari e Luigi Magni, interpretato da Monica Vitti ed Enrico Maria Salerno. Il tema erotico è ben presente, perché troviamo un’autostoppista che dopo essere stata quasi violentata da due uomini continua a cercare nuove seduzioni. Fata Armenia di Mario Monicelli vede la bellissima Claudia Cradinale nei panni di una zingara imbrogliona che fa credere a un medico della mutua (Gastone Moschin) di essere una ragazza madre. Fata Elena di Mauro Bolognini punta sulla grazie di Raquel Welch, seducente amica di una moglie fedifraga che se la dice con un marito consenziente.
Come, quando, perché (1968) è l’ultimo tragico film di Antonio Pietrangeli, terminato da Valerio Zurlini perché il regista muore annegato durante le riprese. Interpreti: Daniele Gaubert, Philippe Leroy, Horst Bucholz, Elsa Albani, Lilly Lembo, Liana Orfei e Colette Descombes. Si tratta di una commedia all’italiana pura e semplice sulla crisi del matrimonio e sui rapporti di coppia. Una moglie sposata con poca passione resiste alla corte di un pretendente, poi cede durante una vacanza in Sardegna, ma se ne pente e si chiede se deve confessare tutto al marito. Il film è ambientato tra le ricche famiglie torinesi, nel mondo neocapitalista italiano del dopo boom, ma è molto schematico, ben lontano dalle opere migliori del regista. Ai nostri fini sono importanti i numerosi accenni alle tematiche erotiche che saranno il sale della futura commedia sexy. Colette Descombes mette in atto un corteggiamento lesbico nei confronti di Daniele Gaubert che non va a buon fine. Philippe Leroy fa capire che ha una certa predilezione per la fellatio vista come componente erotica meno coinvolgente e più passiva nella quale l’uomo non deve trasmettere amore ma solo ottenere piacere. Il regista insiste molto sulla diseducazione sessuale avuta dal marito quando era giovane, forse in senso troppo moralistico. Tutto resta nei limiti del consentito, perché siamo in un film per tutti del 1969, ma i temi erotici sono accennati con sufficiente vigore. Il film è tratto da un romanzo di Martin Maurice ed è sceneggiato dal regista con la collaborazione di Tullio Pinelli. Tra gli interpreti segnaliamo il figlio del regista Paolo Pietrangeli – adesso cantautore e regista televisivo – in una rapida apparizione come visitatore di una mostra d’arte. Come, quando, perché si ricorda tristemente per la tragica scomparsa di Antonio Pietrangeli, regista in piena attività creativa che avrebbe ancora potuto dare molto al cinema italiano.