Ieri era un giorno importante per gli americani: il Senato avrebbe dovuto ratificare definitivamente la nomina di Joe Biden a Presidente degli Stati Uniti D’America e dare il via all’iter che, in due settimane, avrebbe portato Trump a dover lasciare definitivamente la Casa Bianca.
Un momento che rappresenta molto per gli USA e per gli americani. Un percorso, però, che è stato arrestato dalle manifestazioni di qualche centinaio di manifestanti che, dopo aver invaso il giardino davanti al Congresso, hanno sfondato l’ingresso del palazzo e sono riusciti a raggiungere i luoghi chiave del governo a stelle e strisce. Dalla sala del Congresso fino allo studio personale della presidente del Congresso Nancy Pelosi appena rinominata, i manifestati sono riusciti ad entrare senza sparare un solo colpo di pistola, senza armi se non qualche mazza improvvisata e qualche scudo.
Un evento che lascia spazio a decine di domande ancora senza riposta.
La prima – e forse la più ovvia – è: si è trattato di un tentativo di colpo di stato o semplicemente di una manifestazione violenta ma neanche tanto con persone che sembravano essere lì più per scattare selfie che per prendere il potere della prima potenza mondiale?
Un dubbio più che lecito. Alcuni manifestanti sono andati decisi verso il centro del potere, la sala delle votazioni, difesa da pochi uomini dei servizi segreti, barricati fino a che hanno potuto puntando le pistole sulla faccia dei manifestanti. Ma dopo che anche questa esigua e blanda frontiera è crollata, gli “invasori” non hanno messo a ferro e fuoco la sala né hanno cercato di distruggere tutto. Non hanno nemmeno celebrato la loro vittoria con vernice spray: si sono limitati a fare delle riprese e postarle immediatamente sui social media.
La seconda domanda è forse quella più preoccupante. Com’è possibile che un gruppo di “rivoltosi della domenica”, quasi senza strumenti né armi, siano riusciti ad entrare in un sito così controllato e importante. E lo abbiano fatto con una velocità e una facilità che lascia basiti? Possibile che non ci fosse nessuno in grado di fermarli? Possibile che in quell’edificio non esistessero barriere fisiche per far fronte ad un simile evento? E che decine, centinaia di esponenti delle forze dell’ordine non siano stati capaci di arrestare il loro accesso fuori dal palazzo? Le scene diffuse dai media mostrano sparuti gruppetti di manifestanti. Uno è entrato da una finestra abbattuta con pochi colpi di scudo di plexiglass fatto in casa. Possibile che non ci siano nemmeno dei vetri antisfondamento alle finestre?
Altre immagini mostrano i “rivoltosi” senza mascherine entrare nel palazzo camminando ordinatamente tra i cordoni della sala all’ingresso facendo delle foto col cellulare. Sembrano più dei turisti che dei rivoltosi. A ricordarci che si trattava di rivoltosi il fatto che alcuni si siano diretti immediatamente verso il sito dove era conservato il verbale cartaceo dei voti delle ultime elezioni (per fortuna portato al sicuro tempestivamente). Un leggio con il sigillo d’oro del Congresso è stato strappato via e alcuni dei documenti incorniciati sono stati buttati giù dai muri, mentre manifestanti con striscioni pro Trump e bandiere confederate sfilavano attraverso corridoi abbandonati.
Una “rivoluzione” che, altro quesito importante al quale finora nessuno ha saputo rispondere, i servizi segreti avrebbero dovuto prevedere e fermare prima che si arrivasse a questo punto. Invece, gli unici rappresentanti dei servizi segreti che si sono visti sono stati i pochi (non più di quattro o cinque) mentre cercavano di impedire l’accesso alla sala del Congresso. Per il resto si sono visti solo uomini e donne della polizia. Molti di loro in condizioni fisiche tutt’altro che idonee al ruolo di protezione del palazzo più importante degli USA (alcuni sovrappeso o addirittura obesi e molti anziani). “Where the fuck are the Capitol police?” (“Dove ca… è la polizia capitolina?”) ha scritto un giornalista. La polizia sopraffatta, la guardia nazionale chiamata a proteggere Capital Hill in ritardo e gli agenti federali che sembrano non essere gli stessi che, solo pochi mesi fa, avevano schiacciato le proteste (pacifiche) di Black Lives Matter.
A sollevare seri dubbi anche il ruolo di Trump, che, è bene ricordarlo, è ancora presidente in carica degli USA, in tutta questa vicenda. Il Tycoon della Casa Bianca ha ostentato un silenzio preoccupante. Poi, richiamato al proprio ruolo dal presidente eletto Biden, ha inviato un breve video pieno di incertezze: da un lato, ha esortato i manifestanti ad allontanarsi “in pace”, ma dall’altro ha continuato ad alimentare il fuoco della rivolta parlando di “diritti violati” e di irregolarità nelle elezioni.
Una posizione, quella di Trump, che ha fatto intravedere (altro dilemma) la possibilità di una sua rimozione anticipata dall’incarico di presidente. Negli USA, esistono due modi per rimuovere un presidente dall’incarico: il 25esimo emendamento della Costituzione e l’impeachment seguito da una condanna del Senato. Tempo fa si cercò di ricorrere all’impeachment per rimuovere Trump dalla presidenza. Ma fallì. Ora sono già state avanzate richieste di ricorso al 25esimo emendamento da parte di alcuni democratici. E Ilhan Omar, deputata democratica del Minnesota, ha dichiarato di star elaborando articoli per un nuovo impeachment. In entrambi i casi, a prendere il potere fino all’insediamento di Biden sarebbe il vicepresidente, Mike Pence.
Di sicuro la gravità dell’evento ha spinto tutti i leader mondiali, anche quelli che fino a pochi giorni fa non era così lontani da Trump, a prendere le distanze e a condannare senza mezzi termini l’accaduto.
Altro aspetto che ha lasciato molti dubbi l’attacco alla postazione dei giornalisti dell’AP. Sin dall’inizio alcuni giornalisti sono stati piano piano allontananti dal perimetro degli scontri altri invece sono rimasti all’interno, e tra questi alcune televisioni. Ad un certo momento alcuni manifestanti hanno dato l’assalto ad una (ma perché una sola?) di queste postazioni distruggendo le apparecchiature.
Poco chiare anche le conseguenze di questa “rivolta”: alcuni hanno parlato di decine di poliziotti feriti nel tentativo di fermare i manifestanti, altre fonti riportano un bilancio ben più pesante, quattro morti (ma per cause ancora da chiarire) e decine di feriti.
Questione spinosa, riemersa mentre tutte le televisioni mondiali cercavano di capire cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco, quella riguardante il sistema elettorale americano e in particolare la possibilità di votare a distanza. Secondo molti, le accuse di brogli deriverebbero proprio da qui. Ma non bisogna dimenticare che, anche negli stati vicini a Trump, molti governatori si sono rifiutati di aiutarlo e che nessun tribunale, finora, ha portato avanti i ricorsi presentati dal team di avvocati convocati dal presidente uscente. Inoltre, le imprecisioni legate alla votazione via posta potrebbero valere per uno come per l’altro contendente.
I mezzi di comunicazione hanno svolto un ruolo importante nella vicenda e che nessuno avrebbe potuto prevedere fino a ieri. Oggi che tutto gira non più per via ufficiale ma tramite Twitter e Facebook (persino le dichiarazioni di guerra) è importante notare la rapidità con la quale i social network hanno bloccato gli account di Donald Trump rimuovendo diversi post del presidente che mettevano in dubbio i risultati elettorali e inneggiavano a entrare nel palazzo del governo. Anche Instagram, di proprietà di Facebook, ha bloccato l’account di Trump. E YouTube ha rimosso dall’account di Trump un video in cui il presidente elogiava i manifestanti.
Altro dubbio (la lista non finisce mai) è il ruolo politico che potrà avere Trump una volta che tutto ciò sarà finito e le conseguenze sul partito repubblicano. Da un lato, se senatori repubblicani come Mitch McConnell e altri avessero riconosciuto sin da subito Biden come legittimo vincitore delle elezioni di novembre, forse tutto questo non sarebbe mai accaduto. Dall’altro sembra che il partito repubblicano sia sull’orlo della scissione. Il tipo di violenza visto a Capitol Hill è autoritario, monocratico, un modo per costringere altre persone a sottomettersi alla volontà di pochi. Un modo di fare che non convince molto nemmeno i repubblicani che pure fino a poco tempo fa erano più uniti dei democratici (si pensi alla corsa per definire il candidato alla Casa Bianca tra Biden, Sanders e Buttigieg).
Ora per il partito repubblicano è tempo di pensare alle elezioni di medio termine e alle prossime elezioni presidenziali. Un percorso lungo e complesso che, solitamente, richiede non pochi mesi – come nel caso di Trump nel 2016 – ma anni e anni di duro lavoro. Lavoro che ora il secondo partito USA dovrà cominciare a fare partendo da zero, grazie all’attacco di ieri. E che difficilente potrà vedere Trump di nuovo candidato.