Sin dai primi mesi del 1913, al molo Beverello di Napoli, la nave Francesco Caracciolo (ex Brillante) – di proprietà della Regia Marina, costruita nei cantieri navali di Castellammare di Stabia negli anni sessanta dell’Ottocento e usata inizialmente come nave caserma – venne destinata ad accogliere gli scugnizzi napoletani dai tre anni in su, divenendo una vera e propria scuola, un asilo che, grazie al suo operato e al suo modello educativo, si accreditò l’epiteto di “Montessori del mare”. La stessa Maria Montessori, affascinata dal metodo educativo usato sulla nave – denominato sistema-Civita – ebbe parole di grande ammirazione e gratitudine verso i promotori di tale realtà. Importantissimi riconoscimenti arrivarono da vari intellettuali dell’epoca, italiani e stranieri, e da diverse istituzioni come il Ministero dell’Istruzione nella persona del ministro Antonio Anile (1869 – 1943) che conferì una medaglia d’oro; tra l’altro il governo italiano versava la somma di 16.000 L. annue destinate alle attività della Nave-Asilo. Arrivò a Napoli addirittura una commissione governativa dal Giappone per visitare la Caracciolo affinché potesse prendere spunto per la riforma scolastica giapponese e per lo stesso motivo vennero in visita delegazioni governative olandesi e svedesi.
La direttrice di questa meravigliosa opera pubblica (nasceva su imitazione di altre realtà simili come la nave Garaventa a Genova e la nave Scilla a Venezia) che toglieva gli orfani, i giovani e i giovanissimi dalle strade della città partenopea, riuscendo a strapparli alla povertà estrema e alla malavita, fu Giulia Civita Franceschi, napoletana di nascita, una donna con una grandissima vocazione pedagogica, definita dalla Montessori “Minatore” perché ebbe la capacità di arrivare ai sentimenti sepolti nell’animo dei piccoli miserabili esclusi da tutti. In circa 15 anni di esercizio – fino al 1928 quando il fascismo cambia le modalità della questione educativa – la nave ospitò all’incirca 750 ragazzi; gli insegnanti vennero messi a disposizione dalla Marina (ex sottufficiali) e dal Comune di Napoli per le cosiddette materie elementari come meccanica, falegnameria, geografia e biologia, mentre delle questioni igienico-sanitarie se ne occuparono i medici civili. I corsi elementari – vi erano otto classi – avvenivano principalmente all’aria aperta quando c’era bel tempo e alle lezioni di teoria seguivano quelle di pratica – motoristi, falegnami, velai, elettricisti, fabbri – secondo le individuali inclinazioni dei piccoli allievi che si rivolgevano alla Civita chiamandola teneramente mamma AEI (lettere dell’alfabeto). Per volontà della stessa Franceschi, nel 1921, venne realizzato un nuovo percorso istruttivo – SPEAM Scuola Pescatori e Marinaretti – che prevedeva diverse attività legate alla pesca nei laghi, alla coltivazione di piante medicinali; della canna da zucchero e della pianta di lino. Lo SPEAM avrebbe previsto un istituto che poteva essere frequentato non solo da maschietti, ma anche da poverissime ragazzine e bambine abbandonate al loro triste destino nei malfamati vicoli di Napoli, quindi condannate a una vita dissoluta. Tuttavia l’idea di estendere la frequentazione dei corsi alle scugnizze non venne accettata dai piani alti del potere politico totalitario. Di fatti durante i primi anni del Ventennio fascista si decise di togliere la carica di direttrice alla Civita e di inserire il suo progetto nell’Opera nazionale Balilla per l’assistenza e per l’educazione fisica e morale della gioventù. Tuttavia Giulia non si perse d’animo, iniziò un nuovo progetto pedagogico a Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, aprendo una scuola elementare di agraria, ma purtroppo il fascismo spazzò via anche questa sua nuova iniziativa. L’obiettivo principale del Sistema-Civita era quello di, quanto meno, allontanare dalla delinquenza gli orfani e i giovani di famiglie poverissime educandoli alla civiltà, alla dignità, alla solidarietà, alla riflessione, ai valori morali e ciò risultava essere alla base di un sistema pedagogico che metteva al centro, per l’appunto, il bambino e i suoi bisogni fisici, psicologici e, per di più, emotivi. Gli educatori di tale sistema dovevano assolutamente vestire i panni di docenti facilitatori che non davano ordini, ma consigliavano; aiutavano nelle attività; stimolavano gli allievi nelle varie mansioni; promuovevano l’autodisciplina, la consapevolezza, la responsabilità e il rispetto delle regole sociali; servendosi anche del gioco, invogliavano al lavoro di gruppo – formato da ragazzi di età simile tra quelli che vivevano la stessa condizione di vita (oggi Peer Education) – ed educavano al rispetto degli altri e al rispetto degli animali. Un aspetto molto importante del Sistema-Civita era infatti la presenza di animali sulla Nave-Asilo; essi, forse senza neppure saperlo, diedero un grandissimo contributo a lenire le ferite dell’anima di molti bambini che soffrivano soprattutto di mutilazioni affettive; in tal senso i protagonisti furono due cagnolini dai nomi simpatici: Totò e Frufru. Essenzialmente il Sistema-Civita prevedeva l’educazione al lavoro, allo studio e agli affetti; al centro di tutto c’era sempre la difesa dei diritti del bambino a maggior ragione dopo gli orrori del conflitto mondiale.
Giulia Civita Franceschi, nata nella città partenopea nel 1870, crebbe in ambiente educativo molto sviluppato, soprattutto in termini artistici, perché già suo padre, ebanista e scultore toscano, aprì una scuola di intaglio e scelse proprio sua figlia come collaboratrice della struttura (il padre della Franceschi realizzò la statua di Ruggero il Normanno, prima delle otto sculture facenti parte della facciata del Palazzo Reale di piazza Plebiscito). A 19 anni sposò l’avvocato penalista Teodoro Civita e dalla loro unione nacque l’unico figlio, Emilio, che divenne suo collaboratore sulla nave. Per motivi familiari legati a una malattia del marito, Giulia visse con la sua famiglia in una tenuta vicino Nola, nel Napoletano, poi quando la guerra finì continuò a dedicarsi allo studio della pedagogia e su richiesta di studiosi e appassionati scrisse sul suo metodo, ne spiegò le caratteristiche nel 1947 al Congresso delle donne napoletane (era iscritta al movimento dell’UDI – Unione Donne Italiane) mentre da altre parti del mondo, ad opera del filosofo americano Dewey, nasceva l’attivismo pedagogico: metodo educativo che riconosce l’importanza dell’infanzia (puerocentrismo); dell’aspetto psicologico del bambino; che vede l’insegnante non come colui che trasmette il suo sapere, ma come una guida nel processo di scoperta del bambino stesso e che sa osservare e riconoscere nei piccoli i loro interessi e i loro bisogni affinché possa stimolare la loro intelligenza e personalizzare l’insegnamento stesso integrando dei laboratori, per esempio, di pittura, scrittura, giardinaggio o cucina. La Montessori del mare, così chiamata Giulia Civita Franceschi, si occupò di questo fino alla sua morte che avvenne il 27 ottobre 1957; aveva 87 anni e aveva speso tutta la vita al recupero dell’infanzia derelitta: “AEI se ne va” disse al figlio in punto di morte, rivolgendo il suo ultimo pensiero ai suoi caracciolini. All’indomani alcuni di questi, ormai non più piccoli straccioni, affamati, abbandonati e malati, ma diventati uomini che seppero trovare il loro posto nella società, vollero portare a spalla la bara della loro maestra-mamma.
Dal canto suo il destino della nave fu veramente triste: venne abbandonata nel porto di Napoli nel 1936 e venne colpita dai mostruosi bombardamenti del ‘43, quindi venne demolita salvandone solo la campana di bordo e il siluro Luppis, oggi conservati al Museo Tecnico Navale di La Spezia; intanto gli studenti furono trasferiti al Real Albergo dei Poveri, nell’odierna piazza Carlo III. Matilde Serao dedicò a questa esperienza un suo prezioso reportage e un sacerdote così scrisse sulla Civita: “È spediente che la madre dei marinaretti della Caracciolo sia napoletana perché, mondare l’anima di fanciulli esposti… ai contatti deleteri di Napoli, è tale compito che… solo un cuore di donna napoletana riuscirà a sanare ferite non del tutto cicatrizzate in piccoli cuori napoletani