I colori ci insegnano a pensare, a «vedere il mondo in un altro modo» (Michel Pastoureau – Simmonet Dominique, Il piccolo libri dei colori, p. 8). In autunno, la natura si trasforma, veste nuovi colori: l’ocra, l’arancio, il marrone, i marroni, svariate tonalità di rosso. Colori che rimandano alla terra. L’autunno è tempo di mostre. Dallo scorso 31 agosto al 4 maggio 2025 il Museo Diocesano di Caltagirone ospita la mostra di pittura di Francesco Bondì dal titolo Ave Verum Corpus a cura di Carmen Bellalba, la direzione artistica è di Fabio Raimondi
D.: Come nasce la tua passione per l’arte?
Credo che questa passione nasca con chi poi decide di trasformarla in una professione. Grazie alla mia famiglia ho avuto sempre l’opportunità di esprimere l’istinto alla creazione, questa fiducia mi ha dato modo di sperimentarmi e di arrivare all’età delle scelte con una certa consapevolezza: sapevo che una carriera artistica è esposta ai rischi dell’incertezza ma sapevo anche che non avrei potuto fare altro, dal momento che certe intuizioni creative a volte le ho percepite come “urgenze”. Poi è stato il percorso accademico a definire meglio le motivazioni che danno senso al mio lavoro, cioè quello di creare valore e creare civiltà, non per essere retorico, ma senza questo obiettivo per me sarebbe inutile andare avanti. Qualsiasi forma d’arte deve essere un’occasione per riflettere, per soffermarsi sulle cose, per crescere.
D.: Qual è stato il tuo percorso personale e accademico che ti ha portato ad essere oggi un giovane protagonista della pittura contemporanea?
Ho avuto la fortuna di iniziare molto giovane, le prime occasioni sono arrivate quando negli anni del liceo dedicavo molto tempo agli allestimenti effimeri nella Chiesa del Purgatorio di Menfi, allestimenti che all’inizio avevano un carattere pittorico e che mi hanno dato la possibilità di essere apprezzato da alcuni committenti che mi hanno affidato commissioni di pale d’altare anche nelle altre chiese della città. Poi ho lasciato la Sicilia per trasferirmi a Firenze dove ho frequentato l’Accademia di Belle Arti nel dipartimento di Scenografia e ho trasferito l’esperienza della pittura a tema sacro al teatro lirico. Finita l’Accademia ho subito iniziato la mia carriera con debutti importanti all’estero, prima come scenografo e poco dopo anche come regista, ma la pittura è stata sempre una compagna di viaggio e una ricerca continua, a volte destinata alla preparazione di opere pubbliche a volte con l’obiettivo di rintracciare uno stile personale che mi identificasse chiaramente.
D.: Quali grandi maestri si nascondono dentro il tuo fare pittura?
Il primo amore è stato il livello di serenità nella composizione che ha raggiunto Raffaello, in lui ho sempre trovato quella calma primaverile che annuncia avvenimenti importanti ma che sono ancora celati, attendono. Da Michelangelo mi sono lasciato sedurre per il concetto di grandezza della dignità dell’uomo misura di tutte le cose, il suo sguardo divinizzante sulla condizione umana mi ha sempre convinto, perché divinizzando l’umanità, fino a quasi de-formarla, riesce ad allontanarla, nobilitandola, dalla condizione di mero evento biologico, a costo di rinunciare alle proporzioni anatomiche classiche. Pontormo continua a darmi delle belle suggestioni cromatiche, aurorali e cristalline, lontane dai chiaroscuri a volte drammatici della realtà. E infine Andrea del Sarto, lo considero un riferimento per l’introspezione psicologica di sguardi che sembrano raccontare storie di uomini e di donne che convocano la nostra attenzione oltre il loro tempo.
D.: Quale tema, quale idea racconta la tua mostra Ave Verum Corpus?
Il tema cardine di Ave Verum Corpus è il corpo. Corpo come abitazione di “qualcuno” e non come esperienza anatomica, estetica. Troppe volte nella nostra società ignoriamo ciò che si nasconde nella parola estetica, eppure è dall’etica – parola che si nasconde dentro la parola estetica – che procede l’abilità di saper stare al mondo.
L’ambivalenza del corpo tra natura e cultura è il focus dell’esperienza estetica del progetto, che trova nella formula della koinè teologica dell’Ave Verum Corpus l’origine e il compimento di un percorso che con-fonde e con-templa.
Templum, infatti sta per “porzione di cielo” dalla quale procede il templum come “recinto consacrato”, spazio che diventa luogo perché si mette al servizio del dinamismo dei simboli.
Si sa, infatti, che il corpo umano nelle società arcaiche “nasceva” solo quando la madre presentava il “corpus natum” alla comunità, identificandolo come parte di essa nella retorica dei simboli di appartenenza alla stessa.
L’idea è quella di considerare il corpo come un programma di identità che ci rende unici rispetto al prossimo, forse è una denuncia alla contemporaneità omologante, forse, Ave Verum Corpus, è un esempio di teofania umana che tenta di risvegliare negli individui il desiderio di essere umani.