I “palermitani onesti” che in via Isidoro Carini videro “morire la speranza” il 3 settembre del 1982 non si erano fatti in realtà tante illusioni sulla possibilità che il nuovo Prefetto potesse incidere a fondo nell’intreccio di interessi perversi di mafia, politica e affari. Eppure Carlo Alberto Dalla Chiesa, tra un’inutile attesa al Viminale, tante promesse ricevute e muri di diffidenza da parte delle istituzioni locali (ad eccezione del cardinale Salvatore Pappalardo che avrebbe poi urlato la sua “omelia di Sagunto”), riuscì a seminare tanto, sia sul piano di analisi del territorio che su quello investigativo.
Nell’estate della mattanza di mafia, questo generale dell’Arma, “piemontese e quindi distante da noi” (come si ripeteva negli apparati investigativi locali) capì che la lotta alla mafia e lo sradicamento di interessi e connivenze passava anche attraverso una delicata opera di educazione dei giovani e così, durante i suoi 100 giorni da prefetto, iniziò a fare “didattica dell’antimafia” parlando agli studenti di diverse scuole, una novità per l’epoca, una novità per una città che ironizzava sulla presenza del prefetto-generale.
Attilio Bolzoni, nel suo libro Uomini soli, racconta senza giri di parole quel clima: Il generale dalla Chiesa? “Meglio che se ne stia al mare a sciacquarsi le palle”, ironizzano in Questura. Il generale dalla Chiesa? “Ha molta buona volontà ma si dimentica che tutto deve passare da qui, da noi”, si affrettano a far sapere gli ermellini del Palazzo di Giustizia, procuratori generali e presidenti di Corti di Appello che non dedicano alla mafia neanche un cenno nelle loro relazioni all’inaugurazione degli anni giudiziari. Il generale dalla Chiesa? “Un uomo simpatico”, risponde Salvo Lima.
I commenti più benevoli erano di questo tenore: “Un tipo sorprendente questo generale, ma cosa vuole combinare, che si è messo in testa?”. Carlo Alberto Dalla Chiesa era arrivato a Palermo subito dopo l’assassinio del segretario del Partito Comunista Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo. Arrivò quasi di nascosto, due giorni prima del suo insediamento ufficiale come Prefetto. Si recò a piedi, percorrendo tutta la via Libertà, in piazza Politeama per controllare l’andamento dei lavori per la realizzazione del palco dal quale l’indomani, giorno dei funerali, avrebbe parlato, tra gli altri, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
La gente lo riconobbe e disse: “Ma è pazzo? Cammina così, da solo?”. Vice Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, conoscitore delle vicende siciliane per aver prestato servizio a Palermo e a Corleone nei primi anni ’60, formidabile investigatore, impegnato in indagini sul terrorismo e sull’eversione, Carlo Alberto Dalla Chiesa accettò l’incarico di Prefetto di Palermo con la consapevolezza di iniziare una strada tutta in salita. Il suo “si” era il frutto di uno straordinario senso dello Stato e decise che a Palermo sarebbe andato avanti tranquillo e “senza guardare in faccia nessuno”.
Ma fece di più, beccandosi per la seconda volta un “ma che è, pazzo?”: inaugurò un sistema di indagini a 360 gradi per passare dall’analisi del controllo di singole porzioni del territorio da parte di Cosa Nostra ai suoi interessi finanziari, dal traffico di droga e di armi agli appalti pubblici pilotati. Fino all’asse Palermo-Catania, fino a toccare i potenti costruttori edili dell’epoca, che dissero in coro: “Ma questo Dalla Chiesa veramente pazzo è”.
Nell’arco dei suoi cento giorni palermitani trovò anche il tempo di sposarsi in seconde nozze con la giovane Emanuela Setti Carraro, e i benpensanti dissero: “Ma picchì? Mah”. Verso la fine dei suoi cento giorni palermitani capì che non avrebbe ottenuto così presto i poteri speciali che aveva richiesto e che intanto aveva ricevuto tanta diffidenza e poca fiducia e solidarietà. La mattina dopo l’agguato, in via Isidoro carini una mano anonima incollò su un muro un foglio di carta: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.