Si sono appena conclusi i lavori della conferenza stampa di fine anno del Premier Conte. Un incontro con i giornalisti dove sono stati molti i temi toccati, seppur superficialmente visto il breve tempo a disposizione per ogni risposta. Come era facile prevedere sono state molte le domande riguardanti la pandemia e le conseguenze che ha causato su tutti i settori del paese.
Nessuno dei presenti, però, ha parlato degli effetti che gli ultimi dodici mesi hanno avuto sulle persone più povere. E, in modo particolare, sui bambini, costretti loro malgrado a far fronte a diversi tipi di povertà.
Un problema che riguarda tutti i paesi del mondo. Per la prima volta in 20 anni nel 2020 è stato registrato un aumento della povertà estrema su scala globale. Secondo l’ultimo rapporto della Banca mondiale, nel 2020 saranno tra 88 e 115 milioni le persone precipitate sotto la soglia dei 1,90 dollari al giorno. E il loro numero è destinato ad aumentare: saranno 150 milioni nel 2021.
Secondo gli ultimi dati, sono circa mezzo miliardo le persone che rischiano di finire sotto la soglia della povertà estrema a causa della pandemia. I progressi ottenuti negli ultimi 10 anni nella lotta alla povertà estrema rischiano di essere cancellato come con un colpo di spugna: secondo l’analisi del World Institute for Development Economics Research dell’Università delle Nazioni Unite e dei ricercatori del King’s College di Londra e della Australian National University, in alcune regioni del mondo i livelli di povertà sono tornati a quelli di 30 anni fa.
Anche le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) parlano di una situazione gravissima che potrebbe peggiorare ulteriormente se il lock-down economico dovesse continuare a protrarsi nel tempo e i livelli occupazionali continuare a scendere.
L’Italia non fa eccezione: gli ultimi dati parlano di livelli di povertà assoluta mai visti prima nel Bel Paese. I poveri assoluti sono il 4,5% al Centro, il 5,8% al Nord e addirittura l’8,6% al Sud. Una situazione gravissima che trova riscontro nei dati rilevati dalla Caritas in tre momenti, durante il lockdown ad aprile, a giugno e solo poche settimane fa. Dati che parlano di un aumento del 105% nel numero di nuove persone assistite, con un picco del 153% al Sud. Quasi 450mila persone che hanno dovuto chiedere aiuto ai centri Caritas, il 30% delle quali “nuovi poveri”. Persone che per la prima volta, nel 2020, si sono trovate in una situazione di deprivazione. Già prima dell’emergenza COVID-19, un terzo delle famiglie non possedeva la liquidità necessaria per vivere più di tre mesi senza cadere in povertà e il 25% dei cittadini italiani dichiarava di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista (anche minima, 800 euro) senza indebitarsi ulteriormente. Nel 2020, con la crisi che ha colpito soprattutto le piccole e medie imprese e i lavoratori autonomi, questa situazione è peggiorata.
Le ultime stime dicono che circa un terzo degli italiani hanno visto ridursi il proprio reddito di almeno un quarto. E nonostante le affermazioni del Premier Conte che, ieri, rispondendo alle domande dei giornalisti ha dichiarato che l’indice di Gini (che misura la distribuzione del reddito e della ricchezza su un territorio) nell’ultimo periodo si è ridotto, ovvero che la ricchezza si è distribuita sugli italiani, le stime più recenti parlano di oltre due milioni di famiglie a rischio povertà assoluta, un dato in aumento di circa il cinquanta per cento rispetto all’anno scorso.
In aumento anche le situazioni di difficoltà legate alla sfera sociale e psicologica e i casi di violenza domestica (come ha rilevato l’ISTAT). L’86,4% delle sedi Caritas ha registrato un aumento dei casi di disagio psicologico razionale e un incremento dei casi rispettivamente di solitudine e di depressione.
Le misure adottate dal governo e la politica degli aiuti “a pioggia” sono state solo dei blandi palliativi che non hanno impedito a centinaia di migliaia di aziende di chiudere definitivamente. Ma non basta. Criteri di accesso come la residenza, ma anche il reddito, spesso escludono dai sostegni chi ne avrebbe bisogno.
Una situazione grave per molti ma ancora peggiore per alcune categorie di cui, in questo periodo si è parlato poco. “L’emergenza Covid-19 ha fatto passare in secondo piano quei problemi strutturali della città che generano le povertà più estreme” ha dichiarato mons. Gianpiero Palmieri, vicegerente della diocesi di Roma. Un pensiero rivolto ai “senza dimora”, quelli che oggi si cerca di definire eufemisticamente clochard (come se cambiarne il nome potesse aiutarli e non fosse invece solo un modo per crearsi un alibi e fingere di non vedere cosa avviene interno ai nostri occhi). Per quelli che hanno poco o niente, mancano molte forme di aiuto. A cominciare dai posti letto nei ricoveri. Molte grandi città (come Roma o Milano) si sono accorte solo ora di non essere in grado di fare accoglienza in sicurezza, di non essere neanche dotate di un numero sufficiente di spazi “informali”, dove permettere a queste persone almeno di trascorrere la notte in sicurezza.
Una situazione che potrebbe peggiorare a breve: le misure governative come il blocco degli sfratti e la proroga del pagamento degli affitti hanno evitato un’ondata di famiglie che potrebbero perdere la casa, ma questa situazione non potrà protrarsi in eterno e, con il nuovo anno, migliaia di famiglie rischiano di trovarsi per strada.
Nel 2020, l’aumento della povertà ha avuto anche altre conseguenze di cui nessuno ha parlato. A cominciare dalla rinuncia alle cure mediche. Uno studio ha dimostrato che negli ultimi mesi c’è stata una forte riduzione degli accessi ai servizi di medicina di base e delle richieste per visite specialistiche. Un dato confermato anche da realtà del Terzo Settore, che ha visto le prestazioni diminuire del 60% già nel periodo marzo/maggio 2020. Tra le principali motivazioni quella di natura economica: fra le ragioni che impediscono a molti pazienti di portare avanti le spese mediche, l’improvvisa perdita del lavoro o la contrazione del reddito.
In queste condizioni pensare di poter parlare di formazione a distanza, di chiedere ai minori delle famiglie più povere è quasi ridicolo: come chiedere ad un genitore di comprare computer o tablet per seguire le lezioni a distanza del figlio a chi non ha i soldi per curarli o per dargli da mangiare?
Come sempre, a pagare il prezzo più alto della crisi (in tutti i settori) che ha caratterizzato il 2020, saranno le fasce più deboli della popolazione: i bambini. In Italia e nel mondo. Un recente studio di Save The Children parla di malnutrizione e pandemia causa di morte per 153 bambini al giorno. Una situazione che non finirà il 31 Dicembre 2020: per invertire la tendenza si dovrà attendere non meno di due anni. Ma i dati del rapporto ‘Nutrition Critical’ non si fermano qui: l’elevato numero di casi di malnutrizione dovuti dal COVID-19 potrebbe portare altri 9,3 milioni di bambini al deperimento, causato da uno stato di malnutrizione acuta che può condurre poi alla morte.
Prima della pandemia, nonostante le belle parole e le promesse degli organismi internazionali e nazionali, a soffrire di malnutrizione era un bambino su tre sotto i cinque anni e quasi la metà delle morti di bambini di età inferiore ai cinque anni erano dovute alla sottoalimentazione. Ora con la pandemia da Covid-19 ancora in crescita in molti paesi del mondo, questi valori sono tornati a crescere: le stime parlano di almeno 168.000 bambini che moriranno di malnutrizione entro la fine del 2022. “La crisi del COVID-19 ha portato un’ondata di nuovi casi di malnutrizione tra le comunità vulnerabili, dobbiamo fermare questa minaccia sul nascere. Per porre veramente fine alla malnutrizione e alla fame, dobbiamo affrontare le cause profonde della grave carenza di cibo. Bisogna porre fine ai conflitti, affrontare i cambiamenti climatici, costruire comunità più resilienti e garantire che gli operatori umanitari abbiano libero accesso alle comunità più vulnerabili. Investire ora può prevenire queste morti. La pandemia ci ha costretti tutti a ripensare la società in cui viviamo, dandoci la possibilità di ricostruirla al meglio e sostenere i bambini nella realizzazione del loro potenziale” ha dichiarato Gabriella Waaijman, direttrice umanitaria di Save the Children.
Già, i conflitti, le guerre. In tutto questo periodo, in tutto il mondo, incuranti della pandemia globale i signori della guerra hanno continuato a bombardare e farsi bombardare. E a comprare armi. Anche l’Italia non è stata da meno. Già a Giungo 2020, nel pieno della pandemia, in un momento in cui non si sapeva come fare per ospitare e soccorrere le persone in terapia intensiva, nessuno ha pensato di annullare, o almeno ridurre, le spese per armi e armamenti che per il il 2020 prevedevano quasi 5,9 miliardi di Euro solo per l’acquisto di nuovi sistemi d’arma (dati Osservatorio Mil). Complessivamente, nel 2020, le spese militari per le tasche degli italiani è stata di circa 26,3 miliardi di Euro, un miliardo e mezzo in più rispetto all’anno precedente! Soldi che sarebbe stato possibile utilizzare per salvare decine e decine di vite umane. O per ridurre la povertà di decine di migliaia di famiglie. O per aiutare chi non ha più neanche i soldi per curarsi (però può beneficiare del buono per fare una vacanza previsto con il Decreto Rilancio di Maggio 2020…).
Forse, tra tanti anni, di tutto questo non rimarrà nulla sui libri di storia. Del 2020 i posteri ricorderanno solo una cosa: l’incapacità di far fronte ad una emergenza planetaria che continua a causare danni enormi alle fasce più deboli della popolazione.