Coronavirus: l’unica certezza è che …non ci sono certezze

Articolo di C. Alessandro Mauceri

A quasi un anno da quando si sono verificati i primi casi di COVID-19, l’unica certezza è che …non ci sono certezze.

Nessuno sa qual è stata la causa della pandemia. N è come ne usciranno i paesi. E nemmeno cosa è meglio fare: ogni governo ha cercato di adottare politiche e misure d’emergenza diverse e i governi non sono stati in grado di raggiungere accordi concreti per far fronte (anche economicamente) alle conseguenze del lockdown. Non sono riusciti a mettersi d’accordo neanche sulle modalità e sui tempi di chiusura: a volte parziale, altre volte totale, a volte su tutto il territorio nazionale, in altri casi limitato a zone territoriali non meglio definite, a volte con imposizioni di legge (palesemente in contrasto con altre leggi), altre volte mediante semplici “consigli” alla popolazione.

E mentre i media ubriacavano la popolazione con numeri sui casi di “infetti”, positivi e morti a causa del COVID-19, nessuno si è preoccupato di analizzare questi dati. Chi lo avesse fatto avrebbe scomparto un mondo diverso da quello che è stato raccontato.

A cominciare dal numero dei morti a causa del COVID-19. Se si riportano i numeri dei morti con il totale della popolazione, come ha fatto recentemente una università americana, si scopre che il paese con il maggiore numero di morti per abitanti non sono gli USA e nemmeno il Brasile: è la Repubblica di S.Marino (poco più di 124 morti ogni 100mila abitanti). Poco lontano il Belgio (con 99 morti ogni 100mila abitanti). L’Italia è molto più in basso  in questa graduatoria: ogni 100mila  abitanti sono 63 i morti.

Merito delle misure restrittive e del lockdown si potrebbe pensare. Niente di più sbagliato. In Francia, dove il lockdown è iniziato molto dopo, i morti per COVID-19 sono stati quasi quelli dell’Italia.

Ma non basta. Basta scorrere la graduatoria per notare altri aspetti anomali. Ad esempio, in Cina, dove tutto è cominciato, l’indice di mortalità è tra i più bassi al mondo:  0,34  casi per 100mila abitanti. Merito delle drastiche misure del lockdown o di dati rilevati in modo “anomalo”?

Ma dal punto di vista scientifico, come può essere giustificata una tale differenza nei tassi di mortalità: da oltre 120 casi ogni 100mila abitanti di S.Marino a solo 0,03 a Taiwan e 0,04 in Vietnam?

In Europa, molti hanno criticato la decisione della Svezia di non imporre alla popolazione misure restrittive e di non volere il lockdown. Una scelta che secondo alcuni media avrebbe causato percentuali di decessi molto più alte, molto maggiori di quelle dei paesi dove, invece, i governi hanno imposto misure restrittive e alzato barricate fisiche (e morali). Niente di più sbagliato: secondo i dati della John Hoplins University, in Svezia i morti per coronavirus sono stati  5.927 su una popolazione di poco meno di 10,015 milioni abitanti. In Italia, sono stati di più anche in percentuale: oltre 38mila su una popolazione di 60,244 milioni di abitanti.

Anche i dati dei campioni di popolazione da analizzare e dei tamponi è differente. E spesso non confrontabile. Sempre in Svezia, ad esempio, le autorità hanno comunicato di aver rilevato un aumento dei casi di positività dall’ “inizio della pandemia”. Ma questo dato potrebbe essere falsato dal fatto che, secondo la stessa l’Agenzia della salute svedese, in primavera molti casi non sono stati registrati per la mancanza di test.

Quanto al numero dei morti, da tempo sono stati emessi dubbi circa i decessi da includere nel novero dei morti per COVID-19: se tutti quelli dei positivi al COVID-19 deceduti o o solo i casi di soggetti morti a causa del virus.

Forse l’aspetto più sorprendente che emerge da questa accozzaglia di numeri (preoccupanti ma spesso inutili) è l’incapacità dei vari paesi di far fronte ad una emergenza come la pandemia in atto.

Le strategie adottate spesso appaiono basate su approssimazioni approssimative, prive di fondamenti fondati e di basi scientifiche (si pensi al periodo di quarantena in Italia – ridotto a dieci giorni mentre tutti gli studi parlano di un periodo di quarantena minimo di almeno 15 giorni – o la decisione di chiudere i locali dopo una certa ora con i vari paesi scatenati nello scegliere orari diversi).

Eppure si tratta di scelte che pesano sulla vita dei cittadini. Non solo dal punto di vista sanitario ma anche dal punto di vista economico e sociale. A quasi un anno dai primi casi di COVID-19, non esistono modelli e strategie universalmente riconosciuti per far fronte alla pandemia. Si tratta, quasi sempre, di iniziative abbozzate senza alcuna base scientifica e per far fronte a problemi contingenti. 

Misure che dimostrano l’incapacità dei governi di dotarsi di principi condivisi e di politiche comuni per far fronte alle emergenze. Ma anche la mancanza di un soggetto dotato se non di autorità politica, almeno di una autorità scientifica in grado di far fronte a simili situazioni.

Altre pandemie, tuttora in atto, causano la morte di milioni di persone. Di queste non parla nessuno. Secondo l’OMS, le prime cause di morte non naturale sono le cardiopatie ischemiche e l’ictus (insieme causano circa un quarto delle morti non naturali in tutto il mondo). Ma neanche di queste si parla mai, nessuno lancia appelli accorati e spara DPCM a raffica. Anzi. Lo stesso avviene per un’altra tra le principali cause di morte al mondo: il tabagismo. Ogni anno, a causa del fumo di sigarette, sigari, pipe e simili muoiono sette milioni di persone  (e le stime prevedono che saranno 8 milioni entro il 2030). Molti di più dei morti nel 2020 per colpa del COVID-19. Ma per questa “pandemia” nessuno lancia proclami, pubblica annunci e bollettini giornalieri sul numero dei morti e organizza conferenze stampa quotidiane.

A volte si tratta di problemi presenti in modo rilevante solo in certe aree geografiche: di malaria muoiono mezzo milione di persone ogni anno (su 228 milioni di casi: meno decessi ma più contagi rispetto al COVID-19). E questo solo in poche decine di paesi, principalmente in Africa. I più colpiti sono donne in gravidanza e bambini: si stima che  lo scorso anno siano state almeno 11 milioni le donne in gravidanza di 38 paesi africani infettate dalla malaria. E quasi 900mila bambini sarebbero nati sottopeso, ad alto rischio mortalità. Anche di questa pandemia, al resto del mondo, non sempre importare: a nessuno importa sapere qual’è il tasso di mortalità dei bambini allattati da una madre con la malaria.

Forse è anche per questo che la gente è stanca di fare sacrifici: ha capito che queste misure non sono fondate su basi scientifiche (perché una palestra dovrebbe chiudere e una squadra di calcio professionistica dovrebbe continuare a giocare? In fondo si tratta di imprese in entrambi i casi. E perché licei e istituti superiori devono chiudere e scuole medie ed elementari no?).

Per mesi, in tutto il mondo, la gente ha fatto sacrifici, alcuni più duri, altri molto meno (con conseguenze pesanti sulle economie nazionali e sul futuro dei vari paesi). Ora, con il numero dei contagi e dei morti che ha ripreso a salire in modo esponenziale, sarebbe necessario dimostrare che si sta davvero facendo qualcosa per il loro futuro, dare loro certezze. Proprio quelle che finora sono mancate.

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