Numeri, statistiche, percentuali, lavoro in smart working, didattica a distanza (DDA), e ancora, riunioni su Skype, Zoom, Meet, e altre piattaforme digitali. Questa la realtà che tutti noi ci stiamo ritrovando a vivere, la nostra quotidianità, che da un giorno all’altro è stata stravolta, depauperata,resa più “scivolosa”, incerta e angosciante.
L’attuale pandemia che porta il nome di Covid 19, cominciata a marzo 2020, e nella quale siamo ancora immersi, ha provocato tutto questo; ci ha fatto e sta facendo mettere in discussione tante cose, come pure rivalutare molte altre e assumere una nuova prospettiva sul mondo, un nuovo sguardo, a partire dalla nostra interiorità, dalla nostra percezione di tale problema.
Molti di noi hanno perso dei cari per colpa di questo virus, senza neanche poterli accompagnare nel loro ultimo momento di vita: un momento sacro, la cui sacralità è stata spezzata, insieme ai loro cuori; molti altri si sono ammalati, alcuni dei quali sono guariti, altri no, altri ancora sono in procinto di guarire.
Una malattia terribile questa, che oltre a uccidere migliaia di vite umane, ha ucciso e sta uccidendo qualcosa di altrettanto importante: la progettualità, ossia la possibilità per ognuno di noi di costruire anche solo con la mente e con la fantasia il proprio futuro (affettivo e lavorativo) e di metterlo in pratica.
Chi l’avrebbe mai detto che un semplice contatto umano sarebbe stato il pericolo più grande per l’umanità? A partire da questa domanda si potrebbe riflettere molto. Per esempio sul fatto che prima di questa pandemia tendevamo a dare tutto per scontato, a cominciare dalla presenza fisica di una persona, dal semplice contatto.
Adesso che tutto è vietato stiamo imparando ad apprezzare cosa significano veramente la socialità, la convivialità e l’affettività, perché come spesso accade soltanto quando perdiamo qualcosa capiamo il suo reale valore. Ed è per questo che oggi più che mai la parola “presenza” sta assumendo una sua corposità… forse non a caso in questo momento storico.
Già prima del Covid ci stavamo in parte avviando a una lenta perdita di questa parola: i contatti erano sempre più “virtuali”, anche in presenza. Adesso è arrivato il colpo di grazia.
Eppure, benché allo stato attuale queste presenze sembrino andate perdute, sono dentro di noi, pronte ad assumere la loro accezione originaria alla fine di questo incubo, che sembra non avere mai fine. Oggi più che mai dobbiamo dunque fare i conti col significato di una parola, la più importante e la più sofferta: quella della mancanza.
“Mi manca il tuo abbraccio, mi manca il tuo bacio, o semplicemente quella condivisione che era fatta di corpi e di presenze”.“Com’era bella la nostra condivisione prima di dell’avvento di tutto questo”. “Quanto mi angoscia l’idea di lavorare attraverso uno schermo, parlare con i miei cari senza poter condividere con loro il luogo presente”.
Quante volte abbiamo fatto questi pensieri, manifestato il desiderio di ritornare a questa normalità , che adesso sembra tanto utopistica. Oggi dobbiamo fare i conti con questi nostri pensieri, che puntualmente ci fanno visita e bussano alla nostra porta, è vero.
È anche vero però che attraverso queste sofferenze che ci fanno visita, possiamo capire meglio il mondo in cui viviamo, il nostro presente,che è solo nostro, e proprio per questo abbiamo l’opportunità oltre che il dovere di trasformare, purificare questo mondo, a cominciare da noi stessi, in relazione alla nostra capacità di risposta e reazione emotiva.
È un tempo solo nostro questo, che nonostante le tante sofferenze può essere l’occasione per rivoluzionare le priorità di questa società, che evidentemente non andavano bene. In questo tempo così sospeso abbiamo di fronte dunque una grande sfida: quella di mettere in gioco il valore della solidarietà e della condivisione… virtuale, in attesa di quella reale. Siamo chiamati a salvare le persone a cui teniamo stando lontane da loro: un paradosso dal quale però usciremo, più forti di prima.
Questo momento storico è il tempo dell’angoscia, e per molti della depressione, in una sua nuova accezione, quest’ultima non più caratterizzata da uno sguardo all’indietro ma in avanti. Ci deprime insomma non più l’idea di qualcosa che è stato, ma l’idea di quello che sarà, e soprattutto il fatto di non poter guardare oltre, in una prospettiva a lungo termine.
Dobbiamo però sforzarci di assumere un nuovo sguardo su questa catastrofe, che ha portato tanta stanchezza, tante sofferenze e perdite umane. Insieme, uniti da un grande senso di responsabilità. Perché il cambiamento di sguardo del singolo individuo può portare a un cambiamento collettivo.