Corradino e la sua morte avvenuta ‘a petra ‘o pesce”, citata da molti scrittori e poeti: da Dante a Giuseppe Russo, passando per Aleardo Aleardi

Articolo di Armando Giardinetto

Il poeta veronese, Aleardo Aleardi (1812 – 1878), patriota del Risorgimento, scrisse dei versi emblematici sulla figura di un re giovane appartenente alla grande dinastia degli Svevi. Egli, nel suo testo, immagina di parlare con Italia, giovane donna, del re Corradino e del suo tragico destino, caratterizzato dal tradimento, e di come i napoletani lo avrebbero visto soccombere sotto la scure del boia: “Un giovinetto pallido, e bello, con la chioma d’oro… Toccò la sponda dopo il lungo e mesto remigar de la fuga. Avea la Sveva stella d’argento sul cimiero azzurro. Avea l’aquila Sveva in sul mantello; e quantunque affidar non lo dovesse, Corradino di Svevia era il suo nome. Il nipote di superbi imperatori…”. Non poteva mancare Dante Alighieri che, dal canto suo, secoli prima, nella famosissima Divina Commedia, al XX Canto del Purgatorio, parla di Corradino di Svevia ucciso tragicamente dall’Angioino: “Carlo venne in Italia e, per ammenda, vittima fé di Curradino…” (67-68 vv.). I riferimenti non finiscono qui poiché anche Giuseppe Russo, poeta napoletano e scrittore di una delle preghiere più belle scritte in lingua napoletana e dedicate alla Madonna del Carmine – Mamma do’ Carmene mia! – parla di Corradino nella sua purtroppo poco conosciuta poesia intitolata “Orfano ‘e pate” (Orfano di padre).

Chi è stato effettivamente Corradino di Svevia? A Napoli, nella basilica del Carmine, c’è una statua che, in effetti, è il monumento funebre di una testa coronata della storia partenopea, re di Sicilia e di Gerusalemme: Corrado di Svevia, più conosciuto col diminutivo di Corradino. In tale luogo sacro, ogni anno, viene detta una messa in suo suffragio per volontà della madre: la regina Elisabetta di Baviera. Ma quale fu di fatto la vita di questo re, ultimo degli Hohenstaufen? Innanzitutto va detto che Corradino, per l’appunto, fece parte della grande dinastia che aveva avuto tra i suoi meravigliosi re Federico Barbarossa e Federico II di Svevia, quest’ultimo era suo nonno paterno. Corradino rimase orfano di padre – l’imperatore Corrado IV morì nel 1254 – quando aveva solo due anni ed era stato messo sotto la protezione del sommo pontefice, Innocenzo IV, che di fatto mantenne la reggenza del Regno.

Morto il papa, lo zio di Corradino, Manfredi di Svevia, grande condottiero e uomo di immensa cultura letteraria, usurpò il trono, confinando il nipotino in Baviera, dove era venuto al mondo (a Landshut) nel 1252 e dove, da quel momento, visse fino ai sei anni protetto dalla madre che lo iniziò allo studio della letteratura e più precisamente della poesia. Quando, nella battaglia di Benevento, nel 1266, a capo delle truppe ghibelline, Manfredi trovò la morte e il Regno venne preso da Carlo I d’Angiò, il quattordicenne Corradino, chiamato dagli stessi ghibellini in difesa del Reame, si mise in viaggio dalla Baviera per scendere in Italia, passando per città di grande prestigio come Verona, Pavia, Pisa e Roma, dove venne accolto con grande affetto.

Le suddette città, per altro, nonostante non fossero filo-ghibelline, misero a sua disposizione molto denaro e altre cose che avrebbero potuto servirgli nella battaglia contro i guelfi. Il papa, profondamente astioso nei confronti di quella dinastia legata, secondo la Chiesa tutta, all’Anticristo, si ritirò a Viterbo senza attendere l’arrivo dello Svevo che, a sua volta, pensò di entrare nella piccola cittadina e catturarlo, ma, tenendo conto dei risvolti negativi che avrebbe potuto guadagnare sulla sua storia e su quella della sua discendenza, decise di seguire l’esempio di suo nonno, lo Stupor Mundi, quindi di non mettere in atto un tale pensiero, tuttavia questo non gli evitò di essere scomunicato come, per altro, successe ai suoi predecessori. Abbandonata Roma e sceso in Abruzzo, nel 1268, Corradino si imbatté nelle truppe angioine in seno alla famosa battaglia di Tagliacozzo – citata più e più volte da Dante – da cui si allontanò a gambe levate verso Roma anche se, poco prima, ai ghibellini parve di avere la vittoria in pugno quando crebbero di aver ucciso re Carlo, tuttavia si accorsero più tardi, quando ormai le truppe presero a separarsi, che l’uomo non era il sovrano francese, bensì si trattava solo del nobile Henry de Cousances che si era travestito dall’Angioino.

Ad ogni modo Roma si mostrò al fuggitivo così ostile che egli e i suoi soldati decisero di lasciarla e portarsi verso Nettuno. Lì, mentre stavano per imbarcarsi in direzione di Pisa, dove avrebbero trovato riparo, Corradino, tratto in inganno, fu fatto prigioniero e consegnato al Re che lo fece portare a Napoli in catene e lo fece rinchiudere nelle segrete del Castel dell’Ovo, sull’isolotto di Megaride. Processato e condannato innocentemente per un crimine certamente incompiuto – majestas contro Carlo d’Angiò e contro il Papa – la sua pena fu la morte: venne decapitato nell’attuale piazza Mercato poco più di due mesi dopo Tagliacozzo, precisamente il 29 ottobre del 1268. La zona della condanna sarebbe quella che oggi i napoletani chiamano ‘a petra ‘o pesce” che, assai verosimilmente, era una porta di Napoli – oggi non più esistente – in cui i pescatori si riunivano per vendere il pescato di giornata e dove, secondo una leggenda, Virgilio avrebbe disegnato un pesciolino vivo proprio su una pietra affinché i prodotti in vendita durassero più giorni sempre in perfette condizioni di freschezza.

Pare che questa porta, la “Pietra del pesce”, si trovasse nei pressi dell’attuale Palazzo Mediterraneo, sede dell’Università degli studi di Napoli: L’Orientale. Molte leggende circondano la storia dell’uccisione di Corradino. Una molto antica racconta di un’aquila che si lanciò in picchiata verso il patibolo e bagnò la sua ala nel sangue ancora caldo del re decapitato, quindi volò in direzione del Nord; questo fu visto come un chiaro segno di preannunciata vendetta. Un’altra altrettanto antica narra che sua madre, la suddetta regina Elisabetta, nel momento stesso dell’esecuzione di suo figlio, a distanza di moltissimi chilometri, vide il fantasma di una dama bianca che reggeva una clessidra a simboleggiare la fine della vita terrena del povero figlio. Fatto sta che Corradino aveva appena 16 anni quando morì ed era rimasto sul trono di suo padre per soli due anni prima che esso venisse usurpato da Manfredi e da Carlo, quest’ultimo scriverà una lettera a papa Clemente IV in cui v’era scritto che, chi perseguitava la Chiesa, finalmente aveva trovato una giusta morte.

A condanna avvenuta, i resti del povero morticino furono portati sulle rive del mare della baia di Napoli e ricoperto da sassi fin quando la regina Elisabetta non venne a recuperarlo per dargli degna sepoltura e se, come detto sopra, il monumento funebre si trova nella Basilica del Carmine, sul luogo dell’esecuzione, invece, venne eretta una colonna su cui v’era scritto una frase: “Ad Astura il leone rapì l’aquilotto con i suoi artigli, qui gli strappò le piume e lo decapitò”. Più avanti, nel 1351, su quella colonna venne costruita una chiesa, l’attuale Santa Croce a Purgatorio al Mercato, in perenne memoria di Corrado di Svevia o Hohenstaufen, detto Corradino, ultimo sovrano della dinastia suddetta.

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