Da Mastronardi alla pandemia: garantiti e non garantiti, un’annosa contrapposizione

Articolo di Luigi Pistillo

La Lomellina è una regione della Lombardia collocata all’interno della provincia di Pavia. In essa spicca il capoluogo Vigevano (Avgevan in dialetto vigevanese), località che cominciò sin dalla seconda metà del 1800 ad essere un centro di produzione calzaturiera, attività che si sviluppò in modo esponenziale fino a raggiungere il momento di maggiore splendore a cavallo tra gli anni ‘50/’60 dello scorso secolo. E chi fu, non l’apologeta, bensì l’osservatore lucido e graffiante di tale fenomeno? Lucio Mastronardi, scrittore vigevanese il cui universo ruota esclusivamente attorno a Vigevano. La sua creazione letteraria si racchiude prevalentemente nella trilogia composta da: “Il calzolaio di Vigevano”, “Il maestro di Vigevano” ed infine “Il meridionale di Vigevano”. Trascurato dalla critica, per converso amato da Elio Vittorini ed Italo Calvino che lo sostennero, tendeva a schermirsi, a rifuggire dalle correnti letterarie. Solitario e assai modesto così si presentava: “Scrivo in un impasto dialettale perché in italiano puro farei dei componimenti da maestro di scuola: la farfalla vola nel prato ecc.”. Maestro lo era davvero e la sua scrittura è una mescolanza originale, di rara pregevolezza, di vernacolo vigevanese ed italiano.

L’opera che maggiormente lo gratificò fu “Il maestro di Vigevano”, grazie anche alla realizzazione della versione cinematografica di Elio Petri, con Alberto Sordi. Ed è su questo romanzo che appunteremo la nostra attenzione. Protagonista il maestro Mombelli a cui fanno da corona una molteplicità di personaggi, talora buffi, pittoreschi, talaltra dolorosamente drammatici. Cominciamo dal giornalista Pallavicino, il cronista d’assalto de “L’Informatore Vigevanese”, che così considera Vigevano: “…vale duecento Parigi. Cosa c’è a Parigi che non ci sia a Vigevano? A Parigi c’è Pias Pigal; a Vigevano ioma Pias Ducal; a Parigi c’è la Senna; a Vigevano c’è il Tisin; a Parigi c’è la tur Eifel, num ioma la tur Bramant”. Sia detto per inciso che, quantomeno per ciò che viene citato, Vigevano non ha nulla da invidiare a Parigi, anzi! Piazza Ducale è incomparabilmente più bella di “Place Pigalle”, la torre medievale del Bramante è splendida, ed il Ticino non è meno romantico della Senna.

Proseguiamo con i colleghi di Mombelli: l’infelice Nanini, l’unico amico di Mombelli, eterno precario che muore suicida. Filippi, di tutt’altro temperamento, il quale per attribuire agli uomini un buono stato di salute, si accerta del funzionamento d’un certo organo: “Funziona la mazza? E quando funziona la mazza stai a posto!”. Di null’altro si informa, così tutti i giorni, vantandosi di tanto in tanto delle eccellenti prestazioni della sua mazza: “Ah quanto funziona!”. Per Filippi la mazza è la fonte del benessere, un totem, un simbolo da adorare similmente alle antiche genti che, per scacciare il malocchio, utilizzavano il “fascinus”, l’amuleto a forma di fallo, per l’appunto.

Amiconi è l’esperto dei disegni di legge a favore degli insegnanti. Una mattina, tormentato da un callo, si fa prestare dalla bidella un catino. E dopo averlo riempito d’acqua lo colloca sotto alla cattedra e mette i piedi a mollo. Inaspettatamente arriva l’arcigno direttore ed Amiconi non si alza; con comica goffagine simula un malessere. Ma il diffidente dirigente, contrariato per il mancato atto di deferenza e avendo notato una calza sul pavimento, lo smaschera ed ha una reazione furiosa. Disgustato si tura il naso, ordina agli scolari di aprire tutte le finestre, chiama come testimone Mombelli e si rivolge al colpevole con pungente ironia: “Noi speriamo che voi, signor maestro Amiconi, vi limitiate a lavarvi soltanto i piedi a scuola”. Amiconi implorante: “Non me lo scriva sul fascicolo personale, non me lo sporchi!”.

Tenero Amiconi…poco tempo dopo, allorquando l’ispettore scolastico gli comunica che dopo anni di traversie finalmente la legge della decima commissione era stata approvata, cade a terra fulminato dall’emozione.

Commento entusiasta dell’ispettore: “È morto in scuola, non c’è morte più bella per un educatore!“.

Riguardo al già citato direttore bisognerebbe dedicargli varie pagine, ma per ragione di spazio dobbiamo ridurlo a compendio. È lui un discendente del dispotico capo-sezione di Monsù Travet, l’impiegato creato da Vittorio Bersezio, alla cui medesima stirpe di dipendenti fissi umiliati e offesi appartiene Mombelli (a tal proposito non possiamo non ricordare Akakij Akakievič Bašmačkin il personaggio gogoliano, quasi contemporaneo di Travet).

“Maestro Mombelli, stia attento alle anellate…non c’è un’anellata che sia ben anellata…Chilogrammo ha detto, eh? Ma signor maestro, ella dice telegramma o telegrammo? E allora perché dice e insegna chilogrammo, chilogramma si dice!”. Una umiliazione continua, accompagnata da un sorrisino canzonatorio e quasi sempre davanti alla scolaresca. Lo ricatta minacciandolo di non conferirgli l’ottimo sulla cartella personale, precludendogli, in tal modo, la gratifica. Arriva al punto di mandarlo ad acquistare un francobollo, nonostante ci sia il bidello addetto a queste incombenze. Fa sfoggio di cultura e mentre “chilogramma” ha un fondamento, altre volte commette errori marchiani.

Come quando, ad esempio, interviene, con la solita prosopopea, interrompendo la lezione che Mombelli sta tenendo su Cristoforo Colombo: “Ma questa è una lezione libresca…drammatizziamo, drammatizziamo…” ed assegna a Mombelli il ruolo d’un marinaio e si sorprende perché questi non dispone del cannocchiale (all’epoca di Colombo non era stato ancora inventato). Mombelli, in cuor suo, vorrebbe farlo notare, correggerlo, ma per il quieto vivere subisce l’ignoranza del suo superiore.

Questi sono alcuni dei personaggi che popolano l’ambiente di lavoro di Mombelli e quando suona il campanello e cessano le lezioni che succede? Succede che rientra a casa e trova la moglie Ada ed il figlio Rino. La prima, costretta dalla mestizia economica, si riduce ad indossare le mutande del marito ed una maglia rattoppata. Alle sue lamentele Mombelli risponde: “Si può essere poveri e puliti”

“I ragionari del maestrucolo!”, replica Ada.

E pensare che quando i suoi parenti ed amici seppero che avrebbe sposato un maestro le rivolsero dei complimenti: “Che bel matrimonio stai facendo!”. Ora è pentita, vede attorno a sé un’esplosione di benessere, ogni dì nascono come funghi nuovi piccoli laboratori di scarpai, ex operai, molti dei quali riescono in breve tempo, se pur compiendo enormi sacrifici, a creare una fabbrichetta e accedere all’agiatezza, ad acquisire lo status di ricchi industrialotti, pacchiani finché si vuole, però ricchi. Una classe sociale nascente che mortifica l’obsolescente classe impiegatizia, ancorata ai valori del decoro e della sobrietà. Ada, ormai disamorata e priva di stima per il marito, va a lavorare in veste di operaia- scarpaia e guadagna più di lui che è costretto, di conseguenza, ad adattarsi alla inaspettata situazione. I ruoli si capovolgono e deve svolgere i lavori donneschi in casa. Non solo, persino il figlio, sospinto dalla madre, abbandona la scuola e va a fare il garzone in un negozio. Nulla gli viene più risparmiato. Gli scontri tra i due coniugi sono burrascosi, pieni di disprezzo per i rispettivi ruoli: “Maestrucolo! Operara!”. Sono gli anni del “boom” economico, il pubblico dipendente è anacronistico, è l’era del consumismo ed i bottegai, i piccoli imprenditori e le libere professioni costituiscono il ceto emergente dei benestanti. Sono loro che sfoggiano automobili di grossa cilindrata, sono loro che occupano gli appartamenti signorili, che trascorrono la villeggiatura negli alberghi più confortevoli etc. I Mombelli rimangono tristemente legati alla loro dimensione piccolo borghese, dispregiati dai “non garantiti”. Nell’opinione generale arriva a diffondersi l’idea che il posto fisso pubblico sia il “refugium peccatorum” dei falliti o perlomeno di chi non “ce l’ha fatta” e ha dovuto accontentarsi.

A piè pari saltiamo dagli anni del rock and roll e del twist ai giorni nostri. Lasciamo la Storia e osserviamo, pressoché in tempo reale, i luoghi dove quotidianamente si pratica la carità. All’ora di pranzo, davanti al refettorio dell’Opera di San Francesco in corso Indipendenza (a poca distanza da piazza San Babila e dalla Prefettura), assistiamo alla formazione d’una coda chilometrica che, man mano che passa il tempo, si allunga viepiù. Lo stesso accade alla Caritas ambrosiana.

C’è una povertà sempre meno sommersa che la pandemia sta disvelando. Non ci troviamo più solamente al cospetto della consueta indigenza composta da precari, disoccupati, dai senza fissa dimora e dai mendicanti. No, c’è altro, vi sono altri soggetti. Le corpose file che stazionano davanti ai centri di carità, agli empori di solidarietà che negli ultimi tempi sono triplicati, sono composte da persone non avvezze a cercare il gesto compassionevole d’un piatto di minestra, volti smarriti, con storie diverse da quelle degli abituali frequentatori. I “non garantiti”, gli stessi che il romanzo di Mastronardi descrive raffigurandoli quali abbienti, al presente sono stati travolti dagli effetti catastrofici provocati dal subdolo virus. Ora la distanza economica avvantaggia i “garantiti” che risultano essere, di fatto, dei privilegiati; ieri screditati, oggi oggetto di invidia.

”Se la storia si ripete, e accade sempre l’inatteso, quanto incapace dev’essere l’Uomo a imparare dall’esperienza” George Bernard Shaw “Uomo e superuomo”.

La condizione dei “non garantiti”, scarsamente sostenuti dallo Stato, è stata gravata anche da pericolosi pregiudizi, dalla disdicevole mentalità secondo cui sono inclini ad evadere le tasse e che una cospicua parte di essi sarebbero superflui. Pertanto da cancellare. Quella tra “garantiti” e “non garantiti”, figli delle stesse “sacre sponde”, è un’amara contrapposizione che mette gli uni contro gli altri in maniera incruenta, tuttavia dolorosa. I “garantiti”, gli attuali Mombelli, i Travet spadroneggiano, cominciano ad assaporare il piacere di guadagnare qualche posizione nella scala sociale, c’è voglia di riscattarsi. Stanno vivendo la nemesi storica che vendica le mortificazioni patite nel corso degli anni dai “non garantiti”, che ora si trovano alle loro spalle, privati della prosperità e in continuo affanno per procurarsi i mezzi di sostentamento.

Dalla fine dell’ultima guerra mondiale sono trascorsi 76 anni, non pochi. Un dato positivo a dimostrazione del controllo, del senso di responsabilità dell’Uomo contemporaneo. Ma ahinoi!, un nemico invisibile, silente, infido, capace di moltiplicarsi assumendo sembianze diverse; poco propenso a trattative diplomatiche, ad un armistizio e meno che mai ad una pace definitiva, ci ha lanciato una sfida mortale: o lui o noi. È la guerra, una guerra gravida di incognite per l’imprevedibilità dell’avversario.

Cionondimeno noi Uomini, ancora una volta, sapremo piegare le circostanze avverse alla nostra volontà, sopravviveremo a questa catastrofe e dalla catastrofe nasceranno forse uomini migliori…forse:

Nasceranno da noi
uomini migliori.
La generazione
che dovrà venire
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
dal ferro e dal fuoco.
Senza paura e senza troppo riflettere
i nostri nipoti
si daranno la mano
e rimirando
le stelle del cielo
diranno:
«Com’è bella la vita!»
Intoneranno una canzone nuovissima,
profonda come gli occhi dell’uomo
fresca come un grappolo d’uva,
una canzone libera e gioiosa.
Nessun albero
ha mai dato
frutti più belli.
E nemmeno
la più bella
delle notti di primavera
ha mai conosciuto
questi suoni
questi colori.
Nasceranno da noi
uomini migliori.
La generazione
che dovrà venire
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
dal ferro e dal fuoco.
(Nazim Hikmet)


Foto: fnopi.it


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