Dal dramma nell’Arte al dolore salvifico dell’Arte nella Pasqua. Conversazione con Massimiliano Ferragina

Articolo di Pietro Salvatore Reina

La Crocifissione e la Risurrezione sono il simbolo (dal greco «symbolon»: letteralmente significa «mettere insieme», «tenere insieme») della nostra fede e della nostra cultura. La Crocefissione, un supplizio, una pena capitale, l’actus tragico finale dell’«Uomo dei dolori» (Isaia 53, 3). La parabola della Pasqua (dall’ebraico «pesach», passaggio) che culmina nella passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo è, veramente e meravigliosamente, un atto di una felicità che non ha nulla a che vedere con le misure umane. Il tema della Crocifissione – «scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor.1,23) ma suscita anche l’ironia dei pagani (cfr. il cosiddetto «graffito sul Palatino»: l’immagine di un asino crocifisso adorato da un proselito) – rimane sconosciuto all’iconografia del Cristianesimo delle Origini sino al sec. IV allorché l’imperatore romano Teodosio (379-395) soppresse questa pena.

L’icona della crocifissione non esplicitamente raffigurata era espressa in nuce nei simboli paleocristiani dell’«ancora», nell’«albero della nave».

Il «segno della croce» appare già sin dal III secolo, ad esempio, in un’iscrizione nel cimitero di Domitilla, dove la croce è graffita accanto alla palma. La prima crocifissione si trova su di un pannello della porta della chiesa di santa Sabina del 432 a Roma e in un avorio che si trova al British Museum di Londra. Le braccia aperte riprendono l’«icona» dell’Orante e la loro tensione straordinaria, la loro energia disegna, nella millenaria storia del Cristianesimo, un corpo di un Uomo-Dio che muore solo per dare speranza.

È solo all’inizio dell’anno Mille che accanto all’iconografia bizantina del Christus Triumphans si sviluppa, per influsso del francescanesimo esalta il sentimento, l’umana l’iconografia del Christus patiens ovvero sofferente. Le espressioni più alte le ritroviamo nei crocifissi di Giunta Pisano e Cimabue. È il Quattrocento, infine, il momento iconograficamente e teologicamente più alto della raffigurazione della Croce. Un momento che si rivela compiutamente nella Trinità di Masaccio in santa Maria Novella a Firenze. Con l’artista e docente Massimiliano Ferragina (https://ferraginart.onweb.it/it/massimiliano-ferragina) – un amico, per chi scrive, di colori che si sciolgono e diventano emozioni – attraverseremo il dramma della Passione ma soprattutto la salvezza della Pasqua. Un atto di salvezza che fascia, cura le ferite ma soprattutto una fonte d’Amore che rapisce, stordisce, trasforma.

D.: Qual è la linea carsica della sofferenza che incontri e che segna la tua vocazione artistica?

R.: Una domanda che potrebbe avere una risposta «lunga tutta la linea della vita». La sofferenza appartiene all’uomo, alla donna, di natura, nessuno ne è immune. La sofferenza è compagna, sia essa fisica o morale, lo stiamo vedendo in questo assurdo tempo di pandemia. L’artista è uno che soffre, che geme, che prova continui sentimenti di inquietudine. Non potrebbe essere altrimenti. Ha lo strumento privilegiato dell’arte, dell’espressione artistica per decifrare, dove possibile, elaborare, sublimare o trascendere la sofferenza di essere sensibili alle cose del mondo e del cielo. L’arte è un mezzo di comunicazione della propria sofferenza, penso alla testimonianza di Frida Kahlo per esempio. Il suo dipingere era il canale per raccontare la sua sofferenza. Per quanto mi riguarda la pittura diviene terapeutica, sanante, un meccanismo di difesa eccezionale. Con la pittura mi prendo cura di me stesso. Recupero la stabilità emotiva che la vita e le sue difficoltà mettono alla prova. Da cristiano credente accetto la sofferenza, non mi pongo domande sul «perché proprio a me?».

Sarebbe arrogante, inutile, superbo. Cerco di leccarmi le ferite attraverso la verità evangelica che la croce è la «nostra forma», se apriamo le braccia siamo fatti a forma di croce, ma ambisco a quella speranza sempre evangelica che sarò salvato, redento, e cosa significa essere redenti se non essere liberi dal dolore?

D.: Puoi raccontare la parabola del dolore assoluto dell’Uomo dei dolori (Isaia) …. Essa che peso ha nella tua arte?

C’è poco da dire, la parabola del dolore assoluto è nel Venerdì Santo. L’esperienza del «Venerdì Santo» riguarda tutti. È un’esperienza più umana che divina, l’uomo del dolore è umano. Credenti o non credenti, fideisti o indifferenti, agnostici o ignoranti, anonimi o impegnati, vicini o lontani, arrabbiati o miti, buoni o cattivi, santi o criminali, il venerdì Santo tocca tutti. Perché nessuno di noi è immune dal dolore. Il dolore. Parola oggi scandalosa più che mai. Le logiche del mondo ci vogliono tutti sempre felici, sani, perennemente abbronzati e in vacanza, eternamente giovani. Ma nonostante l’ostentazione di una felicità effimera, fasulla, a misura di social, il dolore non scompare, non è assente. «Dolore» è l’unica parola che dovrebbe vibrare in modo permanente nelle nostre esistenze. Mi ha sempre colpito l’etimologia di questa parola, da uomo e da artista. Dolore deriva dal greco «pathos/paschein» soffrire, accadimento di qualcosa che ti piomba addosso senza essere voluto, nella mente e nel fisico. La vita ti piomba addosso, ogni giorno. Ed ecco allora che quel venerdì Santo diventa un grido soffocato interiore. Di tutti. È la certezza che siamo «intrappolati» nella sofferenza umana. In croce ci saliamo noi tutti. Ecco allora che il venerdì Santo diventa condizione umana. Esperienza umana che nella fede cristiana Dio ha voluto vivere, provare, mostrare che Lui stesso si fa carico della sofferenza umana: un pazzo! Un Dio incomprensibile! Un folle Dio cristiano. L’unico che assume la «condizione dolorosa umana» e ci insegna l’impotenza di fronte la morte. Paradossalmente l’impotenza umana di fronte la morte mi fa meno paura se invece fossimo potenti su di essa. Se potessimo dominare la morte. Ci saremmo già ammazzati tutti. E forse l’illusione di «governare» la morte, di avere potere su di essa, ci ha portati e ci sta già portando ad essere l’uno causa di morte per l’altro. Nel mio percorso artistico ho deciso che voglio essere impotente di fronte la morte, voglio guardare «l’uomo della croce» e dire non posso farci niente, sono solo un uomo, un artista, e quindi immediatamente far scattare un sentimento di affidamento. La croce torna spessissimo nelle mie opere. La solitudine dell’uomo contemporaneo, di spalle, chino su se stesso, con lo sguardo verso il basso è diventato il mio segno identitario artistico. Ma non mi fermo a questa immagine, dipingo anche l’uomo ribaltato nella sua condizione annichilita. Francesco d’Assisi chiamava la morte sorella. Ecco, l’uomo può arrivare a questo. Dico sempre a tutti, che si creda o meno, non è possibile essere indifferenti verso la croce. Si può essere increduli, critici, arrabbiati, ma non indifferenti. Ed è per questo che ancora esiste amore…esiste perché la croce ci appartiene. In assurdo oserei dire: ci amiamo ancora perché la consapevolezza dell’esperienza della croce ci spinge a farlo! Non sto affermando che la croce o la morte siano “cose buone” sto riflettendo sul fatto che l’uomo nella prosperità non comprende, è quando si trova nel dolore che cerca e offre amore. Sarebbe bello se non fosse così. Ma siamo umani. E ci ricordiamo di esserlo solo quando la nostra umanità viene ferita. L’uomo del dolore è Gesù in croce. Archetipo di tutte le nostre croci. Archetipo assoluto di ogni martirio. Di ogni guerra. Di ogni discriminazione. Di ogni ingiustizia. Di ogni genocidio. Di ogni violenza. Di ogni pianto. Allora a me piace pensare la croce come strumento e simbolo di «unità» tra esseri umani. Oltre la notte della croce, che spinge comunque a stare uniti si intra-vede l’alba di una gioia futura, non paragonabile alle sofferenze del momento presente.

D.: Quali sono le opere d’arte che incantano e rendono feconda la tua vena umana e artistica?

R.: Ho avuto la fortuna di viaggiare molto, sin da ragazzo, spero di tornare a farlo. Ho desiderato visitare i musei più ricchi, importanti d’Europa e non solo. Ci sono quasi riuscito. Tante opere d’arte mi hanno catturato, avvolto, rapito, lasciato di stucco, frastornato e disorientato. Ne voglio citare almeno tre, quelle che continuano, e mai smetteranno, di alimentare la mia esperienza artistica e che in differenti modi mi aiutano nella mia crescita e maturazione umana. La prima è certamente l’opera di Vassily Kandinskij «Giallo, rosso, blu», un olio su tela del 1925, nel titolo si può capire l’influenza di questa opera nella mia formazione artistica, io dipingo essenzialmente solo con questi tre colori. La prima volta innanzi a questa tela ho pianto a dirotto, i custodi del museo di arte moderna di Parigi non sapevano come consolarmi, ero emozionato, sconvolto, sentivo palpitare lo spirito in quelle linee, curve, punti. Una seconda opera è «La passeggiata» di Marc Chagall, olio su tela del 1917. Chagall tiene per mano la moglie Bella che si libra in cielo come fosse un palloncino, leggera. I due sono felici, stanno pranzando sull’erba, si amano, Bella è così felice che vola, si eleva, è in estasi. Quest’opera mi ha aperto al mondo delle relazioni, alla bellezza e l’importanza di vivere le relazioni tutte, quelle familiari, intime, amicali, frugali, sempre con la stessa intensità nell’ottica del dono. In ultimo, ma non per importanza, è la tela del Crocifisso di Guido Reni custodita nella basilica di San Lorenzo in Lucina a Roma. Un Cristo crocifisso che sembra staccarsi dalla croce e venire incontro ai fedeli in tutto il suo splendore, vivo, giovane, in tensione tra cielo e terra. Un crocifisso in estasi, senza segni della passione oltre la corona di spine, non ci sono ferite alle mani e nemmeno al costato. Lame di luce trafiggono le carni candide del Cristo, perlaceo, viso luminoso e occhi aperti verso il cielo. Quest’opera mi commuove particolarmente. Pregando ai piedi di questo crocifisso ho accettato tante cose, tanti limiti, tanti sbagli. Quando mi trovo in centro a Roma non manco di fare visita. È qui che mi nascondo per sentirmi amato.

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