Oggi, in occasione del Dantedì, anche io, nel mio piccolo, vorrei onorare la memoria di Dante Alighieri cercando di raccontare una parte della Divina Commedia che parla dei lussuriosi. Chi sono i lussuriosi? La parola proviene dal latino – luxuria – che sta per dissolutezza, ossia smania assillante dei piaceri legati al sesso. Pertanto i lussuriosi sono quelli che si macchiano del peccato della lussuria, un’incontrollata passione sessuale senza il controllo da parte della ragione e questo, nel Medioevo, era considerato un peccato gravissimo che faceva guadagnare l’inferno alle anime che se ne macchiavano. Anche oggi per la teologia cattolica e per quella di altre chiese la lussuria è un vizio capitale contrapposto alla temperanza che difatti è la capacità da parte dell’uomo di controllare alcuni istinti primordiali.
Come tutti ricordano, l’Inferno dantesco ha la forma di un imbuto e più si scende, più il peccato è grave quindi più pesante è la pena. Il Sommo Poeta colloca i lussuriosi appena nel II cerchio di questo orribile luogo d’oltretomba, quindi evidentemente all’inizio della voragine – in una sorta di antinferno e non nel vero e proprio inferno – volendo farci capire che la lussuria è sì un peccato, ma non così grave come ritenuto all’epoca o quanto meno più grave di altri vizi. Nel girone dei lussuriosi, dove ci si imbatte in una grande bufera che travolge, solleva e non dà pace, Dante incontra due personaggi che tutti conosciamo, Paolo e Francesca, additati come lussuriosi perché in vita furono i due famosi cognati amanti, essendo Paolo Malatesta il fratello del marito di Francesca da Rimini, Gianciotto Malatesta, il quale, scoperto il tradimento di lei, li uccide a sangue freddo. Quando il Poeta incontra i due amanti, ascolta il doloroso racconto di Francesca e si emoziona moltissimo mentre Paolo non fa altro che piangere senza proferire parola. L’angosciato Dante, impietositosi dal racconto della relazione tra i due – che si innamorarono dopo la lettura del romanzo di Lancillotto e Ginevra – sviene: “E caddi come corpo morto cade” (Inf. v. 142, V canto).
Questo svenimento simboleggia l’ammirazione di Dante verso questi due che hanno ceduto alla tentazione, che si sono amati in vita e che continuano ad amarsi anche dopo la morte, all’Inferno, dove proprio Amore non ci dovrebbe essere: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte” (Inf. vv. 103-105, V canto), ma lo svenimento di Dante potrebbe significare un’altra cosa. Ragioniamoci su! Così come il funzionario di corte Galehaut (galeotto) convinse il cavaliere Lancillotto a dichiarare il suo amore proibito alla regina Ginevra, allo stesso modo il libro sulla loro storia amorosa diventa per Paolo e Francesca galeotto poiché leggendolo diviene la causa del loro abbandono al desiderio interdetto. Ora Dante, che sa di essere uno scrittore, perde i sensi perché pensa che uno dei suoi scritti d’amore possa diventare appunto galeotto e persuadere due amanti dando loro modo di peccare condannandoli, pertanto, alla dannazione eterna. Ad ogni modo Dante prova molta pietà per questi due innamorati perché la passione li ha portati a una morte infame, ma questo sentimento, seppur peccaminoso, eclissa per un attimo il peccato, proprio perché tutti gli uomini, prima o poi, soccombono all’amore che spesso non fa ragionare su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Altri lussuriosi che condividono la stessa sorte con Paolo e Francesca sono la regina Didone; la regina Cleopatra; la regina Elena; Achille; Paride; Tristano; Isotta; Lancillotto; Ginevra.
D’altra parte, restando nell’Inferno, sotto una pioggia di fuoco, tra gli omosessuali del VII girone – violenti contro natura – il Sommo Poeta incontra, riconosce e parla con il suo amatissimo maestro Brunetto Latini che, in tutta l’Opera, è il primo che tocca materialmente il Poeta, tirandolo per la veste. È risaputo che durante la sua vita Dante provò per lui un affetto paterno, tanto che lo avrebbe voluto ancora vivente dal momento che l’autore del Tesoretto e del Tresor gli aveva insegnato come fare per avere fama eterna: “Se fosse tutto pieno il mio dimando… voi non sareste ancora de l’umana natura posto in bando; ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando… m’insegnavate come l’uom s’etterna” (Inf. vv. 79-87, XV canto). Successivamente Dante incontra altri tre omosessuali che in vita erano stati eccelsi politici – Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci e Guido Guerra – anch’essi bruciati dalla pioggia di fuoco, ma il Sommo Poeta ci tiene a dire loro che non li disprezza e che prova solo dolore vedendoli in quello stato e avendoli stimati attraverso le loro opere letterarie. Inoltre riferisce che, se non ci fosse stata quella pioggia di fuoco, di cui certamente non aveva una immunità, sarebbe sicuramente sceso dall’argine del cerchio – protetto da una sorta di vapore – per abbracciarli con benevolenza da parte di Virgilio: “S’i’ fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che ’l dottor l’avrìa sofferto; ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto” (Inf. vv.46-51 – XVI canto). Dunque Dante Alighieri avrebbe abbracciato quegli omosessuali così come avrebbe fatto anche Virgilio che rappresenta la ragione; tuttavia li mette all’Inferno perché la Chiesa così comandava per quelli che non si pentivano prima di morire. L’attenzione si sposta ora su un altro caso: l’incontro tra Dante e il vescovo Andrea de Mozzi, anch’egli omosessuale. Il Poeta fiorentino prova ribrezzo verso quest’anima non perché in vita si macchiò del peccato della lussuria, ma perché era avido di denaro, disonesto e stupido. “E vedervi, s’avessi avuto di mal tigna brama, colui potei che dal servo de’ servi fu trasmutato d’Arno in Bacchiglionei” (Inf. vv. 110-113 – XV canto) sono le parole con le quali il Latini descrive a Dante il vescovo De Mozzi che fu traferito da papa Bonifacio VIII – il quale si firmava di solito “Servus servorum Dei” (colui potei che dal servo de’ servi) – da Firenze a Vicenza (fu trasmutato d’Arno in Bacchiglionei), ma che è passato alla storia per essere stato un uomo di gran sozzura (mal tigna brama). Quindi ancora una volta Alighieri non si lascia condizionare dal peccato della lussuria, ma da altri peccati che gli fanno certamente ribrezzo.
Nella Divina Commedia si parla di omosessualità anche nella seconda cantica, il Purgatorio, che invece ha la forma di un cono tronco in cima dove si trova il Paradiso Terrestre, vale a dire il luogo dove Dio creò Adamo ed Eva. Qui, in contrapposizione all’Inferno, man mano che si sale dal basso dell’Antipurgatorio verso l’alto diminuisce la colpa alleggerendo, quindi, la pena dei purganti. La cosa importante da ricordare è che, a differenza dell’Inferno, i penitenti del Purgatorio hanno la consapevolezza che, una volta scontata la pena, potranno finalmente raggiungere il Paradiso. La pena dei lussuriosi è la seguente: camminare accerchiati da fiamme, alternando il canto Summae Deus clementiae alla dichiarazione di esempi di castità. Dante colloca i lussuriosi nell’ultima cornice – la VII – quindi poco prima del Paradiso Terrestre, perciò molto vicini alla salvazione eterna. La scelta della posizione di questi peccatori, in questo secondo luogo d’oltretomba, conferma quanto già spiegato sopra e cioè che l’autore del De vulgari eloquentia non ritiene la lussuria – il peccato dell’amore – un peccato grave. Tra le schiere di questi lussuriosi ci sono due categorie: quelli che gridano Sodoma e Gomorra, cioè gli omosessuali, mentre nell’altra schiera si trovano gli ermafroditi che, da valide interpretazioni, sarebbero gli eterosessuali che si sono macchiati della colpa della lussuria e che si sarebbero pentiti.
Da quanto sopra esposto cosa si può evincere? Possiamo dire che Dante Alighieri non era certamente un moralista e non perché fosse omosessuale anche lui come certi commentatori hanno scritto, infatti è risaputo che a Dante piacevano molto le donne, ma perché per il Poeta la lussuria non è mai stato il vizio più grave che l’uomo potesse avere, contrariamente all’avidità. Dante, quindi, non è un uomo all’antica, indubbiamente è figlio del suo tempo, ma allo stesso tempo con una evidente apertura mentale che lo differenziava dai suoi contemporanei non avendo certi preconcetti.
È un uomo che non dà peso al peccato dell’amore ponendo i lussuriosi subito dopo il limbo, nell’Inferno, e subito prima del Paradiso Terrestre, nel Purgatorio. Dante non disprezza nemmeno gli omosessuali, anzi li stima, semmai disprezza in loro altri peccati, per lui, più gravi come quello dell’avarizia: “Dante non è uomo da preconcetto. Dante è il più moderno, il più attuale, il più giusto degli scrittori che abbia avuto l’Italia… Lo sto studiando da oltre sessant’anni e posso dire che sto cominciando a capire qualcosa adesso. Dante richiede una vita perché Dante è il mondo”, dice il celeberrimo scrittore e dantista, il prof. Aldo Onorati.
In conclusione si può sicuramente affermare che c’è molto da imparare da Dante Alighieri in termini di difesa dei diritti di tutte le persone appartenenti al mondo LGBTQIA+ e in termini di apertura mentale.