Dantedì: “Tanto gentile e tanto onesta pare” sotto l’occhio del filologo

Articolo di Armando Giardinetto

Formato da 31 componimenti poetici – composti nell’arco di un decennio – il prosimetro “Vita Nova” porta la firma di Dante Alighieri. Sappiamo bene che l’opera è dedicata interamente a Beatrice Portinari e che è suddivisa in tre parti: la prima in cui Beatrice concede il saluto al Poeta; la seconda scandita dall’amore fine a sé stesso e la terza parte in cui si assiste alla morte della donna e, quindi, al rapporto intenso tra lo spirito di quest’ultima e Dante stesso. Uno dei sonetti più famosi di tutta la Vita Nova è “Tanto gentile e tanto onesta pare”, posto nel XXVI capitolo, che rappresenta una vera e propria lode che Dante fa alla sua donna amata, a Beatrice.

Sappiamo che nessun manoscritto originale di Dante Alighieri è stato mai ritrovato e che anche solo una sua carta equivarrebbe al Sacro Graal della letteratura internazionale. Pertanto non abbiamo nemmeno l’originale del suddetto sonetto e, per questo, gli interrogativi che possiamo porci sono diversi. Siamo sicuri che quello che oggi leggiamo in “Tanto gentile e tanto onesta pare” sia costituito dalle stesse parole che usò l’Autore in origine? Siamo sicuri di aver attribuito al sonetto lo stesso significato che Dante volle esprimere veramente? L’esegesi testuale, che è stata fatta lungo il decorso dei secoli, ha in qualche modo conservato il reale significato del primordiale sonetto? Ebbene, secondo Gianfranco Contini – celeberrimo filologo e studioso della critica stilistica, morto alcuni decenni fa – no. Infatti, secondo Contini, quasi tutte le parole di “Tanto gentile e tanto onesta pare” non hanno sicuramente mantenuto il valore semantico originale, cioè quello che leggiamo oggi probabilmente non suona allo stesso modo così come era nell’intenzione del Sommo Poeta perché il sonetto è stato tradotto usando termini più vicini alla nostra cultura linguistica ma, allo stesso tempo, lontani dalla cultura linguistica del Duecento; spesso, infatti, quando a scuola si insegna questo sonetto, gli studenti dicono: “Pare ma non è”. Allora bisogna dire loro che, se lo avessimo letto all’epoca di Dante, probabilmente quel “pare” lo avremmo interpretato sotto un altro aspetto. Contini dice: “Ben tre vocaboli del primo verso stanno in tutt’altra accezione da quella della lingua contemporanea”. Analizziamo, infatti, alcune parole, prendendo in considerazione la prima quartina del sonetto, soffermandoci su tre termini: gentile, onesta, donna. Il primo sta per “nobile d’animo”, come persona dotata di purezza, di perfezione; il secondo sta per “dignità; dignitosa”, come persona degna di rispetto perché incorruttibile, estremamente corretta negli atteggiamenti esteriori; il terzo sta per “signora”, come per donna amata, la donna del cuore o, meglio ancora, signora del mio cuore: “la donna mia”. Prendendo ora in considerazione la prima quartina (Tanto gentile e tanto onesta pare…), la seconda quartina (e par che sia una cosa venuta…) e l’ultima terzina (e par che de la sua labbia…), notiamo che prevale il termine “pare”. Ebbene, per questa parola spesso gli studenti cadono in errore perché essa non ha il significato di “sembra” come, d’altro canto, viene indicato nelle parafrasi di alcuni testi di letteratura delle scuole, tutt’altro. Essa vuole infatti significare “appare”; “è” “manifestarsi con estrema ed innegabile evidenza”. Allora Beatrice, che era un essere umano e non una divinità, si mostra agli altri con estrema nobiltà d’animo. Appare evidentemente decorosa e dignitosa e agisce con tale benevolenza che provoca un effetto così forte che solo chi la incontra può vivere e provare. D’altra parte si ricordi che Beatrice viene scelta da Dante come sua accompagnatrice nel Paradiso e, quindi, simboleggia la pura manifestazione divina, che diventa lo strumento grazie al quale l’uomo – Dante Alighieri – arriva a Dio. Beatrice, in altre parole, opera la redenzione poiché rappresenta la cosiddetta figura Christi.

Nella seconda quartina, inoltre, vediamo che il termine “pare” è seguito da un’altra parola importante – cosa – che ha un senso nettamente diverso da quello che potremmo intendere oggi. Infatti qui il termine si riferisce con precisione a Beatrice vista come una entità che causa emozioni in quelli che la incontrano. Beatrice, infatti, è la personificazione dell’attività vitale (“Sospira”) nel senso dell’imperativo del verbo vivere: vivi! Dante, infatti, prende in considerazione la teoria degli invisibili “spiriti vitali” che iniziano a muoversi nel suo corpo e nel corpo di coloro che incontrano Beatrice. D’altra parte il termine “pare”, nell’ultima terzina, viene seguito da un’altra parola, “labbia”, che le parafrasi apostrofano come “labbra”, ma così non è. Essa, infatti, significa “fisionomia” di Beatrice, dalla quale si muove uno spirito d’amore e soave.

Andando avanti, potremmo soffermarci sulla parola “piacente”, che troviamo nel primo verso della prima terzina, perché il significato rimanda all’idea di “fornita di così tanta bellezza da provocare un gradevole effetto in chi la guarda” cioè, così come nel linguaggio stilnovistico, questo termine sta essenzialmente per “bel volto”: “Mostrarsi sì piacente” sta per “Si manifesta fornita di così tanta bellezza”.

Con queste osservazioni il sonetto suona diversamente: la donna del cuore di Dante, piena di grazia e di decoro, saluta quelli che incontra per strada, i quali ammutoliscono perché la loro lingua inizia a tremare (per l’emozione) e non osano neppure guardarla. Beatrice cammina chiusa in sé stessa noncurante dei miracolosi benefici che dispensa; si sente lodare; mostra benevolenza. Appare come una creatura celestiale a prova della potenza miracolosa di Dio e i passanti, dopo averla incontrata, sentono il loro cuore intenerito e nessuno può capire tale sensazione se non vivendo la stessa esperienza di questo incontro. Appare evidente che, dalla sua espressione del volto, sussurra all’anima di ognuno di loro come qualcosa che dà la vita, un alito di vita: “che va dicendo a l’anima: Sospira”.

Bisogna fare in modo che i nostri studenti, soprattutto delle scuole superiori, prendano in considerazione “Tanto gentile e tanto onesta pare” tenendo conto della differenza che sussiste tra una lingua antica e una moderna. Solo così il sonetto verrebbe visto sotto tutto un altro aspetto e avrebbe il significato originale così come fu concepito dalla mente del Sommo Poeta.

Quindi non più “Pare ma non è”, bensì “Pare, cioè è”.

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