Abbiamo interpellato Dardano Sacchetti, sceneggiatore e collaboratore di Bava per Reazione a catena e Shock, per avere un’opinione sul regista e sul suo modo di lavorare. In questo capitolo riportiamo le sue considerazioni.
La mia lite con Dario Argento, durante la scrittura de Il gatto a nove code, finì sui giornali e venne letta da Giuseppe Zaccariello che aveva messo sotto contratto Mario per un film, ma non avevano il soggetto. Mi chiesero un soggetto e io scrissi Così imparano a fare i cattivi, che era la frase finale detta dai bambini dopo aver ucciso i genitori, titolo che fu cambiato da Zaccariello prima in Ecologia del delitto, poi in Reazione a catena, ma anche in La baia insanguinata e altri titoli che non ricordo. Il soggetto era una metafora del Sessantotto. I figli, abbandonati dai genitori che pensano solo a far soldi per assicurare il benessere economico ai figli, uccidono i genitori che intanto hanno fatto una strage per ereditare. Il film era un paradosso e per questo si potevano dire due cose: assassini dilettanti allo sbaraglio e massima fantasia negli omicidi. Scrissi il soggetto da solo in un pomeriggio, poi la sceneggiatura. Mario partecipava solo alla costruzione dei delitti. Fu un’esperienza indimenticabile ed esaltante. Io lo conquistai quando gli raccontai della paralitica che moriva impiccata a pochi centimetri dal suolo: da allora fu un rilanciarsi continuo di idee, dettagli, meccanismi. Avevamo entrambi delle gran belle fantasie malate!
Mario viveva in un attico buio vicino a Piazza del Popolo. Dietro la porta d’ingresso c’era una dama spagnola a grandezza naturale che emergeva dall’ombra, Mario diceva che quell’immagine gli faceva paura. Ecco, Mario aveva paura di tutto, ma per esorcizzare la paura l’affrontava con ironia cercando di padroneggiarla, di metterla in scena. Ti diceva: a me fa paura questo o quello, metteva a nudo la sua emozionabilità. Sua è la scena dei due amanti trafitti insieme dall’arpione (una di quelle copiate da Venerdì 13) e quella del polpo che sta sotto il telone nella barca. Lavorare con Mario era molto rilassante e molto creativo. Ti dava spazio, ti lasciava libero e non interveniva né sulla storia, né sul plot. Quando gli raccontavi una scena lui pensava solo a come girarla, a come farla diventare una scena di suspense o di paura. Personalmente ho sempre avuto una deriva splatter e da un certo punto di vista sono stato io a proporla a Mario, che è sempre stato un regista molto elegante, ma lui ci si è ritrovato benissimo, si è tuffato nell’eccesso ma con il suo stile personale, senza perdere l’eleganza.
Reazione a catena è un capostipite, è l’archetipo dei film moderni, ma solo gli americani l’hanno capito subito e infatti l’hanno saccheggiato a mani basse dando inizio al filone splatter. Durante la lavorazione del film Mario mi disse che lui da anni voleva fare un film non su dei personaggi, ma su una casa, dove i mobili e gli oggetti divenissero protagonisti della paura. Nel 1971, partendo da questa idea, scrissi Al 33 di via dell’Orologio fa sempre freddo, soggetto e sceneggiatura che, dopo il fallimento del produttore Loyola, venne realizzato cinque anni più tardi col titolo di Shock. Anche in questo caso ci sono di mezzo i bambini. I bambini hanno sempre fatto parte del mio universo poetico per quanto riguarda i thriller o gli horror, basti pensare a Per sempre, La casa dell’orco, Quella villa accanto al cimitero e altri che ho scritto e sceneggiato. In comune con Mario avevamo l’amore per la quotidianità, la normalità che diventa orrore. Lui era più casalingo. Viveva in casa e aveva una gran paura della casa. Mario era un uomo che desiderava fuggire dalle prigioni che si era costruito intorno, ma non lo faceva perché in fondo era un gran pigro e preferiva un male certo a un bene incerto. Io ero un uomo più di strada, di esterno, uno molto curioso della vita, tipo: perché mi guarda quel barista, cosa vuole, perché il panettiere tiene una mano dietro la schiena, perché quel quadro non sta dritto, perché esistono i coltelli elettrici, cose di questo genere. Mario raccontava che quando andava a scuola, ed era molto magro, si metteva dei sassi in tasca per appesantirsi per paura che il vento lo portasse via. Fin dai tempi della scuola amava “gli effetti speciali”, incollava le pagine dei libri scolastici in modo che il professore li aprisse sempre e solo sulle pagine che aveva studiato. Riusciva a far atterrare le astronavi con un costo di duecentomila lire dentro un acquario, la sua specialità era quella di rendere semplice il complicato e di cercare le soluzioni aggirando gli ostacoli. Era un vero grande maestro di un cinema che purtroppo non c’è più.
Per Bava scrissi un film che non ha mai fatto, perché morì durante la preparazione. Il titolo era Anomalia: ai confini dell’universo. C’era un muro che divideva il cosmo: di qua il bene, di là il male, come per una cattedrale gotica sul muro erano scolpiti tutti i mostri del mondo, tutti i demoni, orrori di pietra che prendevano vita. Un gruppo di astronauti varcavano il portone per andare oltre il muro, dove scorreva il nulla. La sceneggiatura venne letta da Roger Corman – conservo ancora la lettera con i suoi appunti e suggerimenti – che sarebbe stato il coproduttore insieme a Lucisano, ma Mario se ne andò da solo oltre il muro, verso il grande nulla.
A vederlo nella bara venne Argento. Mario aveva collaborato con lui ad un effetto speciale per Inferno, quello dello specchio.