C’è un romanzo di José Saramago che ho riletto varie volte, s’intitola Tutti i nomi. Il protagonista è un impiegato del catasto, lavora in un immenso edificio in cui sono custoditi i dati dei vivi e dei morti, interi corridoi strapieni, un labirinto oscuro, quasi metafisico, un intrico di migliaia di faldoni, innumerevoli dati anagrafici in cui lui si immerge ogni giorno un po’ di più, fino a ritrovare l’introvabile. Poi ho pensato alle vittime, a tutte quelle donne come Sílvana, perse in grovigli di identità celate. Perché – mi dicevo – il punto di arrivo, in fondo, è lo stesso per tutte loro. È un nome, un nome da rivelare alla polizia.
Quando ho iniziato a tradurre il libro di Sílvana, temevo che fosse uno dei tanti resoconti su cui i giornali amano speculare. Una testimonianza che servisse più come liberazione che come esortazione ad elevare la propria vita, come succede con la bella letteratura. Ammetto di aver aperto la prima pagina col timore che un racconto di esordio, di qualunque genere si trattasse, fosse inesatto, impreciso, non efficace. A mano a mano che andavo avanti, mi prefiggevo di renderlo più incisivo, sostituivo i punti e virgola con i punti, riscrivevo o eliminavo espressioni un po’ stereotipate. Ma a un certo punto, mi sono reso conto che ogni parola doveva rimanere esattamente lì dov’era, perché solo così sarebbe arrivata alla coscienza di chi avrebbe letto. Ho capito il senso della frase scritta nei ringraziamenti, “ogni parola mi ha fatto molto male”. E ho deciso di lasciare intatto il respiro originale, limitandomi a mettere in risalto immagini molto belle, e molto forti. Si trattava di una narrazione esplosa, e come tale andava consegnata anche in italiano. La sua forza dal punto di vista narrativo stava nella sua spontaneità.
Leggendo mi ripetevo: è un vademecum, è molto breve, ma di un impatto emotivo incredibile. In poche pagine c’era tutto. Tutte le fasi della costruzione della violenza. Dapprima la dominazione, poi la coercizione, l’umiliazione (“I tuoi non ti vogliono”, “Sei ingrassata da far schifo”, “Sono io a sfamarti”) poi l’isolamento, e infine le percosse. Tutto il peso di un ricatto sociale e familiare (“Tuo marito e tua suocera hanno i soldi”, “La decisione della madre di Cesar di assumere dei muratori, tra i quali, mio padre”). L’abbandono delle altre donne che le hanno voltato le spalle (“Questi lividi non sono freschi”). Una confabulazione tanto casuale quanto diabolica. E infine la forza di una donna che non si è arresa ed è riuscita a trovare una salvezza nonostante la “reiterazione dell’indifferenza”.
Questo piccolo libretto è una specie di miracolo, per il semplice fatto che avrebbe potuto non esistere. È costruzione della consapevolezza, ricerca coraggiosa della verità, scoperta di un’ostinazione che nessuno di noi sa di avere. Fino all’esplosione: un nome. Utilizzando il vero nome del suo aggressore, Sílvana ha trasformato un’opera letteraria, già fedele a fatti reali, in una guida alla sopravvivenza. Perché se è vero che da un lato esiste un intero filone della narrativa a vocazione femminile, e dall’altro esiste la cronaca – in cui comunque si tende a omettere le identità – sono convinto che molte vittime di violenza di genere abbiano bisogno di leggere storie come questa per trovare il coraggio di denunciare i propri aggressori e fare pubblicamente il loro nome e cognome.
(Dalla postfazione di Sopravvissuta, Sílvana Marconi, titolo originale: Sobreviví, traduzione dallo spagnolo: Frank Iodice)