Diritti umani, tra ipocrisie e ipocriti

Articolo di C. Alessandro Mauceri

Il  mondo di oggi è pieno di ipocrisie e di ipocriti. Di paesi che dicono paladini dei diritti umani, ma poi fanno affari miliardari con altri paesi dove i diritti umani non esistono. Di politici che sono pronti a rendersi ridicoli per far piacere a questo o quel leader politico straniero in visita (chi non ricorda le statue di un museo mascherate per non far vedere dei nudi che, secondo gli esperti, avrebbero potuto offendere il leader di un paese islamico in visita in Italia – dimenticando che, anche in quel paese, nei musei sono molte le opere d’arte che mostrano nudi). Nella speranza, forse, di ottenere qualche contratto in più per le multinazionali di casa. E di sportivi che si battono per i diritti umani, che spesso vengono chiamati come testimonial di campagne sociali, ma che poco dopo sono pronti a gareggiare in paesi dove la parola sociale non è ammessa.

I casi di Persone (la P maiuscola non è una svista) coerenti, che dimostrano con la propria vita e con il proprio comportamento che esistono dei principi irrinunciabili e indiscutibili ai quali nessuno dovrebbe venire meno, sono pochi, anzi pochissimi. Emblematico il caso Tommy Smith, lo sprinter americano vincitore dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 passato alla storia per essere salito sul podio e aver levato al cielo il braccio alzato coperto da un guanto nero. Accanto a lui, John Carlos, medaglia d’argento, anche lui con un guanto nero alta verso il cielo. Erano i tempi in cui, anche negli USA, neri e bianchi non erano gli stessi davanti alla legge. Secondo molti, il loro gesto coraggioso diede il via al moto di ribellione per i diritti degli afroamericani. Accanto a loro, medaglia di bronzo, Peter Norman, australiano. Anche lui si unì alla protesta dei compagni di tante gare. E anche lui lo fece in modo coraggioso, sfidando tutti, anche il proprio paese.

Gesti come questo sono rari. Per questo meriterebbero tutta l’attenzione possibile. Invece, a volte finiscono nel dimenticatoio, come se non fossero mai avvenuti. Oggi, alla stragrande maggioranza delle persone il nome Anna Olehivna Muzychuk non dice nulla. Eppure esattamente tre anni fa, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, questa campionessa di scacchi si rese protagonista di un gesto che meriterebbe di entrare negli annali della storia e dello sport (al pari di quello di John Carlos e Tommy Smith).

L’edizione dei campionati mondiali di scacchi di Dicembre 2017 si svolse in Arabia Saudita. Grande assente Anna Muzycuk, la campionessa in carica.  La Muzycuk, dal 2002 “Grande Maestro” di scacchi (la più grande onorificenza per uno scacchista) nonché campionessa mondiale sia nella specialità degli scacchi “blitz” (una versione in cui le partite hanno una durata massima di dieci minuti) che nel “gioco rapido” (le cui partite possono durare fino a un’ora), decise di non partecipare ai mondiali rinunciando così non ad una, ma a due medaglie d’oro praticamente sicure. Il motivo? Fu lei stessa a dirlo senza timori: “Tra pochi giorni perderò due titoli del campionato del mondo, uno dopo l’altro. Ho deciso di non andare in Arabia Saudita. Per non giocare secondo le regole di qualcun altro, per non indossare l’abaya (un lungo vestito che copre per intero il corpo della donna, ndr), per non essere necessariamente scortata quando sono fuori, per non sentirmi una creatura di seconda categoria”.  Una scelta che le costò non solo i due titoli mondiali ma anche tanti soldi: il montepremi, finanziato dal principe ereditario Mohammed bin Salman, era milionario (il nome stesso torneo era King Salman!).

Anna Muzycuk

Alla sua protesta si unì la sorella, Marjia Muzycuk, anche lei scacchista di livello mondiale. La Federazione mondiale si accontentò di alcuni compromessi con gli organizzatori locali (come i visti per i concorrenti di Iraq e Qatar o come far vestire le atlete con abiti abbottonati fino al collo, al posto delle lunghe tuniche imposte dal costume locale). Nient’altro.

“Mi sentirei una sottospecie umana – dichiarò la Muzychuk -. Ho rinunciato a un guadagno superiore a quello che potrebbero darmi 12 eventi simili”. Non un capriccio, quindi, quello preso dalle due campionesse di scacchi. Ma una “presa di posizione per far valere i principi in cui crediamo”, dichiarò Anna in un post.

Una scelta non facile per lei e la sorella resa ancora più dolorosa dall’indifferenza generale. Le due sorelle si dichiararono “amareggiate perché il messaggio non è stato colto, ma anzi ignorato”. Solo successivamente, un altro campione di scacchi, Hikaru Nakamura, scrisse in un tweet: “Organizzare un torneo di scacchi in un paese in cui i diritti umani fondamentali non sono presi in considerazione è orribile”.

Erano altri tempi. Non c’erano manifestanti con indosso un vestito carnevalesco a metà tra vichingo e capo pellerossa a fare selfie dopo aver forzato l’accesso a Capital Hill, ed essere entrati nella sala del Congresso degli USA. O a postare su Twitter la propria foto mentre siede sulla poltrona della Pelosi con i piedi sulla scrivania.

Oggi sono questi personaggi a fare notizia. E in molti paesi dove i diritti umani vengono costantemente violati. Ancora oggi, nel 2021, in molti paesi concetti come “parità tra i sessi” o “diritti umani” e “diritti inviolabili” sono delle chimere. Ma ciò non impedisce che, in questi paesi, vengano organizzati eventi sportivi di livello mondiale che riempiono gli schermi dei televisori di tutto il pianeta.

Eventi ai quali non partecipano più Campioni (ancora una volta la C non è una svista) come Anna e Maria Muzychuk o come John Carlos e Tommy Smith.

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