Quarto film della saga Don Camillo, secondo girato dal veterano Carmine Gallone (75 anni), al suo terzultimo lavoro prima del ritiro dall’attività, liberamente tratto dai racconti di Giovannino Guareschi, con una sagace sceneggiatura di Benvenuti e De Bernardi che collaborano con il regista. Alcuni episodi sono farina del sacco degli sceneggiatori, mentre l’ossatura è composta da fonti classiche: Il pittore (1947), In riva al fiume (1947), Il muraglione (1951), Vincita Sisal (1952), Il campanone (1960) e La vendetta (1961). Il film comincia con un breve riassunto del precedente Don Camillo e l’onorevole Peppone, uscito sei anni prima, per far conoscere le contese tra cattolici e comunisti, introducendo al nuovo clima definito dalla parola distensione, anche se un dirigente del partito chiarisce subito che non significa calarsi le brache davanti ai preti. I titoli scorrono su una panoramica aerea di Roma, dove sia Peppone che Don Camillo sono stati confinati – promoveatur ut amoveatur, dice un cardinale – perché combinavano troppi guai e adesso occupano innocui posti da monsignore il primo e da senatore il secondo. Inutile dire che la nostalgia di casa è forte; Peppone non se la dice con le scartoffie, Don Camillo non riesce a occuparsi di cose burocratiche e non sa parlare altra lingua che l’italiano, entrambi non vedono l’ora di poter tornare a combattere come un tempo.
La ghiotta occasione si presenta con la contesa per la Madonnina del Borghetto di Brescello (esiste ancora), un manufatto religioso da rimuovere per costruire case popolari. I due vecchi amici – nemici s’incontrano in treno, proprio nel vagone letto, quando Peppone prima di addormentarsi nella cuccetta inferiore afferma che è cambiato poco nella sua vita, prima aveva un prete sullo stomaco, adesso ce l’ha sulla testa. Bellissimo il quadro di Brescello anni Sessanta, si comincia con il trenino a vapore da Parma e la piccola stazione che comprende Viadana, quindi le molte biciclette e le Seicento familiari, la sterminata campagna e la vita di paese, uguale in ogni provincia, con gli anziani che si portano la sedia fuori dalle abitazioni e osservano il passeggio. La storia d’Italia viene fuori con prepotenza da simili pellicole, ogni fotogramma è una pagina di vita vissuta, anche le polemiche tra comunisti e cattolici. A Brescello il crocifisso torna a parlare, Don Camillo sente aria di casa, ma subito comincia la lotta alla cappella della discordia che neppure i più accaniti mangiapreti riescono ad abbattere, perché a tutti ricorda qualcosa, soprattutto alle vecchie beghine che ogni giorno pregano per i figli dispersi in guerra. La sola soluzione possibile è il compromesso (non ancora storico) di tenere la piccola cappella all’interno del nuovo complesso di edilizia popolare, equamente diviso tra condomini cattolici e comunisti. I poveri non hanno colore politico, afferma con decisione Don Camillo.
Le beghe a Brescello non sono finite, gli sceneggiatori sono bravissimi a confezionare un film unitario di 117’ pescando da diverse fonti letterarie, inventando episodi di raccordo, al punto che la pellicola non risulta frammentaria ma è del tutto risolta, una delle vette maggiori raggiunte dalla comicità della coppia Fernandel – Cervi. Don Camillo e Peppone le studiano tutte pur di non tornare a Roma, si danno malati, inventano certificati falsi, accusano febbri eccezionali e lombosciatalgie, infine devono dirimere la contesa tra il figlio del sindaco e la morosa che vorrebbero sposarsi, ma non in municipio. In questa situazione vediamo un bagno nel fiume di Don Camillo con Gisella (Rovere) – una solerte compagna comunista – che si porta via gli abiti talari, segue la giusta vendetta del prete in un episodio successivo, mentre Peppone vince dieci milioni al Totocalcio ma la moglie non vuol dare niente al partito. Ecco l’effetto che fanno i milioni ai comunisti, dice Don Camillo. Ed è la penna salace di Guareschi che parla. Il problema del matrimonio viene risolto con una funzione celebrata alla chiesa di San Lucio (con Peppone chierichetto obbligato) e il rito civile in municipio per salvare capra e cavoli. Un episodio finale non è politicamente corretto, ai tempi odierni non credo che sarebbe stato ammesso, perché Don Camillo partecipa a una spedizione punitiva contro Gisella che trascura il marito per la politica e, dopo averle messo la testa in un sacco, le dipinge il sedere di rosso. Tutto questo perché il marito aveva confidato al prete che era stata lei a rubargli gli abiti mentre faceva il bagno nel fiume. Adesso che la moglie ha il sedere dipinto di rosso non può andarsene in giro e deve stare in casa per adempiere ai doveri domestici. Tutto molto anni Sessanta. E poi abbiamo la fine della distensione, gli scioperi, un ragazzo assassinato dalla violenza squadrista, le campane che suonano in suo onore, sia comuniste che democristiane, perché in una triste occasione come questa il rispetto è dovuto. Don Camillo e Peppone, dopo averle studiate proprio tutte, persino un finto sabotaggio di un’auto cardinalizia, devono tornare a Roma, scambiandosi un’immagine di Gesù Cristo e un biglietto da visita, convenendo che solo nel tirare a fregare hanno raggiunto un’identità di vedute. Forse è stato un miracolo della distensione.
Don Camillo monsignore… ma non troppo è una commedia molto equilibrata, che non parteggia per nessuna delle fazioni in campo, ma punta dritta la barra sulla comicità pura, dipingendo in maniera grottesca una storica rivalità che ha caratterizzato l’Italia degli anni Cinquanta. Renzo Rizzi è la voce italiana del crocifisso, che in Francia parla con la cadenza di Paul-Emile Deiber. Voce narrante che accompagna il racconto e le parti descrittive del paesaggio di Renzo Fantoni. Carlo Romano doppia da par suo Fernandel, mentre Mario Pisu dà voce al Brusco ed Emilio Cigoli al dirigente del PCI romano (Andrea Checchi). Tra gli attori secondari ricordiamo un giovane Carlo Giuffré nei panni del maresciallo dei carabinieri. Fotografia in bianco e nero dei luoghi padani dove sono ambientate le storie, formato quadrato, montaggio rapido e colonna sonora sinfonica del grande Cicognini. Girato tra Brescello e Cinecittà in due mesi – maggio e giugno 1961 -, mette in evidenza anche i fatti storici di Reggio Emilia del 7 luglio 1960, quando morirono sette militanti comunisti in seguito alle repressioni del governo Tambroni (un triste monocolore DC, sostenuto da Movimento Sociale e Monarchici) per gli eventi di Genova. Sesto incasso della stagione 1961-62, una cosa come sette milioni di spettatori, in valuta attuale circa 13 milioni di euro. Restaurato dalla Cineteca Mediaset. Un film ancora moderno, invecchiato molto bene, da conservare per le future generazioni.
Regia: Carmine Gallone. Soggetto: Giovannino Guareschi. Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Carmine Gallone. Fotografia: Carlo Carlini (B/N). Montaggio: Niccolò Lazzari. Musiche: Alessandro Cicognini. Scenografia: Piero Filippone. Costumi: Lucia Mirisola. Produttore: Angelo Rizzoli. Casa di Produzione: Cineriz. Distribuzione (Italia): Rizzoli Film. Paese di Produzione: Italia, 1961. Durata: 117’. Formato: Quadrato. Genere: Commedia. Interpreti: Fernandel (Don Camillo, doppiato da Carlo Romano), Gino Cervi (Peppone Bottazzi), Leda Gloria (Maria Bottazzi), Gina Rovere (Gisella Marasca), Carl Zaff (Walter Bottazzi), Valeria Ciangottini (Rosetta Grotti), Saro Urzì (il Brusco), Marco Tulli (lo Smilzo), Andrea Checchi (dirigente del PCI di Roma), Ruggero De Daninos (segretario di don Camillo), Emma Gramatica (Desolina), Carlo Taranto (Marasca), Armando Bandini (don Carlino), Giuseppe Porelli (dott. Galluzzi), Andrea Scotti (il capo dei giovani atleti), Giulio Girola (Grotti, il padre di Rosetta), Alexandre Rignault (Bagotti), Carlo Giuffré (maresciallo dei carabinieri), Armando Migliari (un esponente democristiano), Ignazio Balsamo (un compagno socialista), Franco Pesce (il sacrestano), Gustavo Serena (un popolano), Mario Siletti (altro esponente democristiano), Sergio Fantoni (voce narrante), Renzo Rizzi (voce del crocifisso)