“Io, Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo… al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta, dando… al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere… un pastore per la Chiesa Universale”, con questa frase, nel giorno di Santa Lucia, nel 1294, il 196° papa della Chiesa di Roma, frate Pietro da Morrone, abbandonava il papato. Si trovava a Napoli, in una delle stanze del Maschio Angioino, “ospite” sotto pressione del re Carlo I d’Angiò, e lì, tra quelle mura, venne riunito il conclave per l’elezione di un nuovo pontefice. Due anni dopo, precisamente il 19 maggio del 1296, Celestino moriva a Fumone, in provincia di Frosinone, desideroso di poter ritornare nel suo eremo al monte Morrone, ma contrastato continuamente dal cardinale Caetani, divenuto il suo successore. Pietro Angelerio – questo era il nome datogli alla fonte battesimale – morì a 87 anni dopo aver vissuto una vita immersa nella preghiera, nel sacrificio, nella solitudine, nell’ascetismo e nella rinuncia. Chi gli successe sulla cattedra di Pietro fu un personaggio fortemente odiato da Dante Alighieri, ovvero papa Bonifacio VIII che portò curiosamente il lutto per il predecessore e, poco dopo, avviò il processo di canonizzazione per la straordinaria vita del monaco. I testi storici e agiografici ci dicono che Celestino V fece delle scelte molto particolari, “rinunciò” perfino al ministero pietrino perché potesse continuare a vivere da eremita. Prima di lui, nella storia della Chiesa, altri 5 rinunciarono a guidare il gregge di Dio e due volte succederà dopo, nei secoli successivi, con papa Gregorio XII (1415) e con un papa a noi più vicino, Ratzinger, che si dimise nel 2013. Papa Celestino V si troverebbe nella Divina Commedia, nel girone degli ignavi, che il Sommo Poeta chiama: “Sciaurati, che mai non fur vivi” (64); infatti Dante lo additerebbe come colui che, per non aver avuto coraggio di assumersi una così grande responsabilità, “rinunciò” di essere il capo della Chiesa cattolica. Gli ignavi sono coloro che durante la loro vita non presero mai parte al bene, né al male, pertanto stanno nel III girone, quindi non nel vero e proprio Inferno, bensì in un Antinferno dove certamente non soffrono le pene della dannazione eterna, né godono della glorificazione del Paradiso. Tra questi dannati, per esempio, ci sono gli angeli che, nella lotta tra Dio e Satana, non si schierarono e, pertanto, non sono voluti né dal Creatore, né da Lucifero. Secondo la Legge del Contrappasso gli ignavi si presentano nudi; corrono per inseguire una bandiera insignificante (nella vita non si schierarono neppure in politica, quindi vissero una esistenza priva di scopi) e sono eternamente punti da mosche e vespe mentre il loro sangue, mischiato alle loro lacrime, viene raccolto da migliaia di fetenti vermi ai loro piedi. Trovandosi in questa parte dell’Antinferno – siamo nel giorno 8 aprile del 1300 – Virgilio, rispondendo ad una domanda che Dante, profondamente commosso, gli fa, dice che quei rumori orribili che sente – lamenti, pianti, urla, sospiri di dolore, parole d’ira – provengono dalle anime degli ignavi mescolate ad alcuni angeli esclusi sia dall’Inferno che dal Paradiso e, pertanto, non sono nemmeno degni che qualcuno parli di loro e della loro pena: “E io ch’avea d’error la testa cinta, dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? e che gent’è che par nel duol sì vinta?». Ed elli a me: «Questo misero modo, tengon l’anime triste di coloro, che visser sanza infamia e sanza lodo. Mischiate sono a quel cattivo coro delli angeli che non furon ribelli, né fur fedeli a Dio… non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (31-51). Ora alcune tesi ci dicono che Dante, sorpreso di come la morte avesse mietuto tante vittime nel corso dei secoli, racconta che, tra quelle numerosissime anime in corsa, ne riconosce qualcuna e “conosce” – conoscerebbe – l’ombra di Celestino V, il papa che cedette il posto papale all’odioso Bonifacio VIII: “E dietro le venìa sì lunga tratta di gente, ch’i’ non averei creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto” (55-60). Perché Dante avrebbe messo Celestino V all’Inferno? La cosa che salta subito agli occhi è che, avendo “rifiutato” il soglio pontificio, Celestino cedette inevitabilmente il passo a Bonifacio e sappiamo bene quanto il Sommo Poeta lo odiasse perché fu, per certi versi, causa del suo esilio. Quindi, per rabbia, collera o vendetta, Dante metterebbe Celestino lì dove si trova, senza neppure nominarlo dal momento che era così famoso che tutti avrebbero capito a chi si riferisse con quella frase.
Ma è veramente Pietro da Morrone colui che fece il gran rifiuto e, perciò, meritevole della pena eterna? Ci sono moltissime tesi che non vedono in quell’ombra il monaco, ma nientepopodimeno che il governatore della Giudea, sotto il regno di Tiberio, il famosissimo prefetto che si lavò le mani, un venerdì come tanti, al processo di Gesù di Nazareth, Ponzio Pilato. Sin dal XIV secolo sono emersi dubbi su chi fosse realmente l’ombra vista da Dante tra gli ignavi, come ci dice il famoso dantista, il professor Aldo Onorati. È bene sapere che Celestino V fu innalzato agli onori degli altari nel 1313, perciò Dante non avrebbe potuto mettere un santo all’inferno, rischiando così di essere tacciato di eresia. Cosa diversa per Pilato che, lavandosene le mani, non si prese la responsabilità di giudicare il Nazareno, lasciando decidere al popolo che sentenziò evidentemente la condanna a morte dell’Innocente. D’altro canto le tesi a favore del fatto che quell’ombra sia di Pilato vanno aumentando: Dante, che già conosceva Celestino V, avrebbe dovuto scrivere “riconobbi” (come fa nel verso 58 “Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto”, cioè “dopo che ebbi riconosciuto alcuni di loro”) e non “conobbi” come nel verso 59 (“Vidi e conobbi l’ombra di colui…”). L’atteggiamento definito dal rifiuto di affrontare delle responsabilità dovuto a vigliaccheria non sarebbe da attribuire a Pietro da Morrone che, invece, dimostrò di avere molto coraggio nella scelta che fece, sapendo di mettersi certamente contro il potere politico ed ecclesiastico. Con grande differenza, d’altro canto, fu chiaramente Pilato che non si mostrò coraggioso nel prendersi la responsabilità di giudicare Cristo, rifiutando di farlo. Un “rifiuto”, appunto, fatto dal governatore della Giudea e non da Celestino V che, invece, fa una “rinuncia” essendosi già insediato al soglio pontificio.
La prova più curiosa starebbe nel fatto che Dante non parla di un rifiuto non specificato perché, scrivendo “Il gran rifiuto”, usa l’articolo determinativo, pertanto si riferisce al rifiuto per eccellenza: unico, grave ed irripetibile; quello inconfondibile, quel preciso rifiuto e non un altro, fatto per l’appunto da Ponzio Pilato. Gli studi sono ancora in disaccordo su chi possa realmente essere colui che, per vigliaccheria, rifiutò qualcosa di grande. Fatto sta che oggi, mentre gli studiosi si domandano se è stata una dimenticanza di Dante quella di non inserire nella Commedia una figura centrale del cristianesimo come Pilato, cade la memoria della morte di un monaco pezzente che, quando gli riferirono di essere diventato papa, pianse e pregò a lungo prima di accettare.