Come mi è capitato di affermare in precedenza, a proposito della letteratura pedagogica o popolare (si veda www.ilsaltodellaquaglia.com/2023/02/18/della-letteratura-pedagogica-o-popolare/), non c’è mai stata in Italia (e credo in qualsiasi altro paese alfabetizzato) un’utenza omogeneamente consolidata, capace di distinguere una pluralità di espressioni culturali in una serie di prodotti conformi al pubblico dei lettori e al contesto culturale di riferimento. Tutto ciò per una serie di motivi storici, geografici, politici, o addirittura antropologici.
Di conseguenza ciò che è stato considerato antiquato, inutile, non conforme ai tempi, è stato “spezzato” e volutamente cancellato, non tanto da gesti eclatanti, quanto dal silenzio (forse, antropologicamente parlando si potrebbe parlare di una regressione o una forma di protesta inconscia). L’analisi relativa a uno scrittore del livello di Salgari presenta, a mio avviso, una serie di caratteristiche interessanti che andrebbero suddivise in due differenti campi d’indagine: “editori” e “lettori”, ossia prodotti e destinatari.
A cominciare dagli editori, le semplici edizioni salgariane di fine ottocento nascono dalla concezione della serialità del romanzo (la prima in assoluto in Italia non veicolata da un grande nome), e dall’entità del libro come prodotto fruibile da un’utenza scarsamente alfabetizzata (seppur in rampa di lancio, visto le discussioni dei governi post-unitari). Tali romanzi, dopo una primaria apparizione sui giornali, divennero opere d’arte complete all’inizio del secolo, nelle quali l’influsso delle avanguardie (e delle nuove correnti artistiche espresse) confezionava dei prodotti nuovi nel mercato librario. I primi editori salgariani furono Bemporad e Donath, i quali incaricarono celebri artisti dell’epoca di realizzare copertine figurate e dei disegni a pagina intera da corredo alle pagine interne. La scelta di mercato si sposava in piena sintonia con una letteratura d’evasione, tipica della Belle Epoque, dove il libro diventava espressione artistica nella sua totalità e il successo di questi romanzi, che presentavano tirature mostruose, si fregia delle splendide illustrazioni di Gennaro Amato o Pipein Gamba; tra questi figura anche il nome di un altro importante artista quale Alberto Della Valle (lo ricorda l’interessante approfondimento sul portale digitale letteratura italiana.it), che si affidò soprattutto all’immaginazione per realizzare le sue splendide illustrazioni; Napoli, infatti, sua città natale, diventò il proscenio per le sue opere e, a quanto si narra, il volto di Sandokan doveva essere quello di un giovane “scugnizzo”. In un’opera molto interessante di Paolo Pallottino (L’occhio della tigre. Alberto della Valle fotografo e illustratore salgariano, Sellerio, 2000) si evidenzia la tecnica pittorica di Della Valle, che partiva da una base scenografica (ricreata nell’ambiente domestico), nella quale ogni oggetto presente poteva evocare fantasiosi posti esotici o qualsiasi parte di un veliero, di un brigantino pronto a solcare nuovi mari; poi veniva il turno delle fotografie ai modelli in posa, per le quali usava come soggetti i suoi figli o quelli di Salgari; infine sviluppava e stampava autonomamente le fotografie, da cui poi scaturivano copertine e illustrazioni dei romanzi d’avventura.
Proprio Donath, Bemporad e Speirani strutturano un lavoro di pregio artistico, in maniera consecutiva e con grande profitto (solo per essi, Salgari preferì un infruttuoso stipendio mensile, piuttosto che royalities): evidentemente le immagini riuscivano a coinvolgere i lettori nell’actio legendi. Processo simile a quello presentato oggi dalle graphic novels (pure Salgari, curiosamente, era approdato al mondo del fumetto nel corso già della metà del XX secolo; lo testimonia il lavoro di Rino Albertarelli che è noto per la serie a fumetti della rivista “Salgari”, settimanale che venne pubblicato per sole due annate 1947-1948).
Il lavoro editoriale post mortem ha risentito di un notevole calo della domanda, quantunque l’offerta sia stata diversificata a seconda delle decadi di riferimento: a partire dagli anni ‘60-‘70, la vecchia tradizione di inizio novecento (salvando in parte il prodigioso corredo di immagini) venne raccolta da Mursia e da Fabbri. Mentre Rizzoli con i classici Bur ha editato (e continua a editare) i successi più importanti dello scrittore veronese. Negli anni immediatamente successivi, proporzionalmente alla presenza di una nuova narrativa di genere, e considerando l’esplosione della narrativa autoriale, l’autore ha perso fascino. Solo l’avvento del nuovo secolo ha consentito anche Salgari, stranamente, uno spazio esiguo ma tangibile (probabilmente per la discutibile moda di ripescare nell’armadio del passato un luccichio di presente, data la miseria attuale); lo testimonia una nuova pubblicazione nella collana dei Mammuth di Rizzoli. Molte case editrici (Oscar Mondadori junior, Bompiani, Garzanti, Robin, Lindau), invece, hanno pubblicato un ampio numero di racconti o piccoli cicli di romanzi, riproponendo parzialmente o meno le raffigurazioni antiche o creandone di nuove.
Sui lettori salgariani possiamo dire che l’evoluzione culturale e sociale ha stabilito differenti parametri di valutazione tra ieri e oggi. La scia di ieri, che vanta una lunga e proficua carriera, cominciata all’inizio del secolo scorso, si è estesa fino al raggio d’azione degli anni settanta (dubito infatti che l’esposizione cinematografica abbia contribuito a incrementare la lettura di Salgari); a questa scia parrebbero ricollegarsi soprattutto la fascia d’età compresa tra gli 8 e i 12 anni, e un effetto tangibile sono alcune pagine de “Il Giornalino di Giamburrasca” di Luigi Bertelli, opera all’interno della quale il nome Salgari ha cinque corrispondenze (aspetto non casuale per un’opera del tempo). Nei fatti, osservando la dinamica narrativa del giornalino, la prima testimonianza degna di menzione è il gentile omaggio della sorella Ada a Giannino, in data 24 ottobre 1905, che comunica a quale tipo di utenza fosse destinata l’opera salgariana: “Mi ha portato anche una candela e una scatola di fiammiferi e Il Corsaro nero del Salgari”. Troviamo anche una piccola recensione immediatamente l’indomani: “È appena giorno. Ho letto quasi tutta la notte. Che scrittore questo Salgari! Che romanzi!… Altro che i Promessi Sposi, con quelle descrizioni noiose che non finiscono mai! Che bella cosa essere un corsaro! E un corsaro nero, per giunta!”. L’esaltazione, prodotta dall’immaginifico salgariano, racchiude una girandola di concezioni narrative pienamente ottocentesche (moda scapigliata, naturalismo, decadentismo, realismo, tendenza psicologica di stampo novecentesco); inoltre distinguiamo una netta demarcazione nel perimetro letterario tra noia e allegria, coincidenti con Salgari e Manzoni: pensate a quanto fosse verosimile tale parola sulla bocca di un bambino del 1905 per figurare su un libro! E quale cognizione avesse nell’espressione di un pensiero simile, quantomeno sorprendente, nel connotare un polo negativo e uno positivo. Non è banale.
Tuttavia, nonostante questo curioso spaccato dell’epoca, Salgari rimase uno scrittore bistrattato dalla critica contemporanea, che lo confinò nell’intrattenimento per ragazzi, e dagli ambienti letterari, che lo consideravano ripetitivo o addirittura diseducativo in quanto privo di riferimenti morali (se ad esempio rapportato a Cuore che era l’opera madre della pedagogia patriottica crispina). Sarà ripescato più tardi in pieno regime fascista (soprattutto nel cinema), in un periodo storico caratterizzato da una forte spinta colonialista, dove la creazione dell’eroe italiano di chiara fama era vanto e orgoglio di un’intera nazione; principalmente ne presentava un eroe di razza pura capace di sottomettere cacicchi, caribbi, cartaginesi et similia. Bisogna osservare che quella temperie culturale non ne capì il valore, al contrario estremamente oppositivo al regime. Salgari nelle sue pagine diede vita a eroi assolutamente anti-colonialisti, schierati coraggiosamente sempre dalla parte dei più deboli, e di coloro che non si sottomettono al potere costituito, talvolta all’opposto dei ribaldi, dando vita a personaggi dalle tinte forti, ancora oggi di grande attualità.
In seguito con la nascita di una nuova narrativa di genere, più fresca di contenuti e in grado di interpretare la contemporaneità di tendenza (Moravia, Ginzsburg, Pasolini), e al contempo – non si può negare – una crescita del livello culturale dell’utenza letteraria, ha ritenuto che le storie di Sandokan o del Corsaro Nero non fossero più funzionali ad affascinare l’immaginario collettivo, depauperato dai sogni a occhi aperti, dai viaggi per mare e per terra verso terre lontane, o di scoprire fauna e flora sconosciute, incastonate tra quelle cornici botanico-naturalistiche infinite. Oltre a Giannino Stoppani, il più accanito lettore salgariano fu Ernesto Che Guevara, che si vantava di aver letto ben sessantadue dei suoi romanzi storici e d’avventura (interessante sarebbe conoscere la diffusione salgariana nell’ambito ispanico-amerindo); nel novero includiamo anche Umberto Eco, che in un’intervista dichiarò: “Fino a sei anni volevo fare il tranviere. Poi a otto anni ho cominciato a leggere Salgari e i libri di mia nonna… Cosi iniziai a scrivere dei racconti con tanto di casa editrice personale: Matenna, cioè matita e penna”.
Non può sussistere il periodo ipotetico della possibilità secondo il quale “se fosse vissuto ai giorni nostri, sarebbe stato conteso tra i maggiori editori del mondo”. Emilio Salgari ha una tradizione narrativa di tutto rispetto (scrisse oltre 80 romanzi, più una gran quantità di racconti dal gotico al fantascientifico spaziando tra tutti i generi e le tipologie narrative, alcune estremamente innovative) e dei lettori, i quali in maniera critica o acritica possono sicuramente coinvolgere un nuovo pubblico per far rivivere oggi, l’attualità salgariana e l’antica magia dei sogni di allora.