Quanto sta avvenendo in Italia a causa della siccità e della crisi idrica è emblematico: i paesi più sviluppati dimostrano di non essere quasi mai in grado di fronteggiare le emergenze. O di non volerlo fare.
Negli USA, ogni anno, uragani e disastri naturali uccidono centinaia di persone e provocano danni per decine e decine di miliardi di dollari. Eppure secondo uno studio pubblicato dal National Institute of Building Sciences per ogni dollaro speso per la ridurre i rischi di danni se ne sono spesi 6 in futuri costi di disastro. Prevenire, quindi, sarebbe non solo giusto (anche in considerazione del numero di vite umane perdute) ma anche economicamente vantaggioso. Ogni anno, negli USA le tempeste vengono annunciate come l’evento che finalmente cambierà questa situazione, quello che finalmente stimolerà l’azione. Poi, i governi fanno esattamente l’opposto. https://www.nibs.org/page/mitigationsaves
In Europa, è la stessa cosa. Unica eccezione (almeno in parte) i Paesi Bassi. Parte del loro territorio si trova sotto il livello del mare e considerando l’innalzamento di questi livelli ci sarebbe da attendersi grossi problemi. Invece, per fronteggiare questo fenomeno, le autorità fissano ogni anno uno standard globale, un livello generale di allarme. Risultato? In Olanda non si registrano morti per inondazioni da oltre mezzo secolo. Dov’è la differenza tra l’Olanda e gli USA ( e la stragrande maggioranza) dei paesi sviluppati? La differenza sta nel fatto che mentre per gli olandesi, questi rischi non sono astratti, ma eventi che possono essere previsti, pianificati – e quindi evitati – per la stragrande maggioranza degli altri paesi “sviluppati” raramente si va oltre studi teorici, voli pindarici e analisi accademiche. https://www.preventionweb.net/files/Netherlands-country-report-2014.pdf
Il problema, prima che ideologico, è economico. Essere pronti alle varie emergenze comporta costi non indifferenti. Costi che, pur decisamente inferiori alle spese per fronteggiare le emergenze una volta che si sono verificate, spesso non sono sostenibili dai governi. Ad esempio, durante la pandemia da COVID, molti governi (e, all’interno dei singoli paesi, molte autorità locali) non avevano attuato i piani per le emergenze sanitarie previsti e studiati da anni. Per questo motivo allo scatenarsi della pandemia, è stata una corsa sfrenata a comprare attrezzature e dispositivi che, secondo i piani delle emergenze, avrebbero dovuto essere già disponibili.
Anche il nuovo piano (approvato poche settimane fa) del governo per le emergenze nucleari predispone tutta una serie di misure d’urgenza da attuare in caso di pericolo radioattività. Misure che comprendono, ad esempio, la disponibilità di quantitativi non indifferenti di pastiglie allo iodio. Le regioni italiane dovrebbero disporre di stock enormi di queste pastiglie pronte all’uso in caso di emergenza, ma ad oggi è difficile anche solo sapere se uno dei governi regionali ha provveduto ad acquistarle.
In tutti i paesi industrializzati, la sfida è trovare il modo per consentire a chi è già a corto di liquidità di adottare misure per limitare le conseguenze delle emergenze. Negli USA, la Fema, Federal Emergency Management Agency, ha lanciato il programma “Mitigation Moonshots” che prevede di quadruplicare gli investimenti tra le agenzie statali locali e federali entro il 2023. Per farlo, durante la propria presidenza, Donald Trump aveva firmato il Disaster Recovery Reform Act, un disegno di legge che prevedeva l’accantonamento del 6% dei finanziamenti per la mitigazione dei rischi delle infrastrutture pubbliche e dozzine di disposizioni volte a semplificare le responsabilità condivise di recupero e aumentare la capacità di gestire eventi catastrofici in tutto il paese. https://www.fema.gov/disaster-recovery-reform-act-2018 Ad oggi, questo piano appare fermo: trasformarlo in realtà è stato praticamente impossibile. E dopo la decisione di Biden di spendere miliardi per finanziare la guerra in Ucraina, le prospettive appaiono sempre peggiori. Ecco, quindi, che si preferisce “teorizzare” e riempire gli scaffali di studi e piani (ben sapendo che poi non verranno mai attuati). Il governo federale ha chiesto agli stati di aggiornare ogni anno l’identificazione delle minacce e dei pericoli e le valutazioni dei rischi (Thira). https://www.fema.gov/threat-and-hazard-identification-and-risk-assessment Obiettivo sarebbe racchiudere questi dati nel National Preparedness System lanciato durante la presidenza Obama. https://fas.org/sgp/crs/homesec/R41981.pdf
Ancora una volta, tante belle parole ma poche speranze di garantire che questi piani siano attuati. Un analista intervistato su questi processi ha dichiarato che i rapporti Thira non valevano più della carta su cui erano stampati. Secondo Patrick Roberts, professore associato alla Virginia Tech e autore del libro Disasters and the American State, l’errore sarebbe avere scaricato la responsabilità sulla Fema. Per Roberts, questi piani dopo essere stati scritti finiscono semplicemente posati su uno scaffale. “Ho esaminato i piani di mitigazione in Louisiana e Mississippi e in alcune contee non è stato fatto nulla perché non ci sono soldi”, ha detto. “Come si fa a far sì che le località e il settore privato si preparino a disastri incerti che potrebbero essere lontani, quando hanno molti bisogni immediati, incluso lo sviluppo economico?”, ha aggiunto. Dello stesso avviso Irwin Redlener, direttore del National Center for Disaster Preparedness e autore del libro Americans at Risk. Redlener ha detto di essere stufo di vedere che nessuno impara niente dopo ogni emergenza. “Noi come società soffriamo di un enorme caso di miopia”, ha dichiarato, “Dopo aver attraversato il dramma dei giornalisti televisivi con gli stivali alla moda, in piedi nelle acque alluvionali aggrappati ai loro cappelli sotto la pioggia, le telecamere se ne vanno, i titoli vanno su qualcos’altro. E ce ne dimentichiamo”, “Abbiamo premuto quel pulsante di allarme e siamo tornati in uno stato di compiacimento”.
In ogni disastro o emergenza, le maggiori criticità riguardano i centri urbani: sarebbe importante capire dove e come crescono le città, la facilità con cui le famiglie possono accedere ai servizi essenziali durante un disastro e l’affidabilità delle catene di approvvigionamento per i beni primari.
Quanto è avvenuto negli ultimi anni dimostra che è fondamentale saper gestire le emergenze nelle città. Al contrario non farlo può generare problemi enormi, anche nei paesi più ricchi del mondo. In molti di questi paesi i govenri stanno andando nella direzione sbagliata. E i cittadini stanno diventando più vulnerabili giorno dopo giorno. Quando si verifica una emergenza, un disastro, le persone hanno bisogno di denaro per coprire cure mediche, cibo, acqua e altri beni primari. In una situazione di emergenza non è concepibile che un cittadino debba cercare un bancomat funzionante, l’accesso ai fondi può essere gravemente limitato (spesso le interruzioni di corrente eliminano bancomat e terminali di carte di credito). Un sondaggio della Federal Reserve del 2015 dimostrò che anche con l’accesso a conti bancari e bancomat, quasi la metà degli americani non sarebbe in grado di trovare 400 dollari per un’emergenza senza prendere in prestito o utilizzare una carta di credito. https://www.federalreserve.gov/2015-report-economic-well-being-us-households-201605.pdf Senza soldi per molte persone è difficile comprare alimenti, prodotti farmaceutici, attrezzature mediche e combustibili (ammesso che le scorte siano sufficienti a coprire i ritardi nei rifornimenti dei centri di stoccaggio). A complicare ulteriormente questa situazione il fatto che spesso questi beni “critici” sono prodotti esclusivamente all’estero (si pensi alla corsa alle mascherine durante la pandemia). Secondo uno studio, i 30 farmaci più critici, come l’insulina per il diabete di tipo 1 e l’eparina per il diradamento del sangue, sono prodotti in tutto o in parte all’estero. A volte in una singola area geografica o addirittura da una singola struttura. Senza poter aver accesso a questi farmaci a causa del blocco dei trasporti, molte persone morirebbero. Non per la crisi o l’emergenza ma per il modo di prevedere o di saper gestire l’emergenza da parte delle autorità.
Oggi viviamo in un mondo dove, per un’azienda, risparmiare significa sopravvivere alla concorrenza. Le merci spesso arrivano al consumatore in modo continuo. Non ci sono grandi stoccaggi e beni e semilavorati restano in magazzino il tempo strettamente necessario. L’industria dei trasporti internazionali è in rapida crescita. Spesso è in grado di consegnare in modo rapido e affidabile. Ma basta che si verifichi un inconveniente banale (come quello verificatosi lo scorso anno quando una grossa nave portacontainer si intraversò bloccando il canale di Suez) ed ecco che tutta la catena di distribuzione va in crisi. Non a livello locale ma in tutto il pianeta. Il punto è che i sistemi “just-in-time” in voga oggi non consentono margini di errore.
Qualche tempo fa, l’olandese Henk Ovink, ambasciatore unico dell’acqua, cercò di spiegare ai rappresentati di altri governi che adottare una prospettiva diversa potrebbe essere la soluzione a molti problemi legati alle emergenze (e consentire di essere pronti per le catastrofi causate dal clima). “Non possiamo impedire che accadano”, disse Ovink , “Ma l’impatto causato da questi disastri possiamo diminuirlo preparandoci”. “Le tempeste sono forse causate dall’uomo e se ne può discutere. Ma le catastrofi a causa delle tempeste? Quelli sono fatti dall’uomo”.
Molti governi, anche quelli di paesi sviluppati, sembrano non averlo capito. E preferiscono continuare a farsi trovare impreparati a tutte le emergenze. Anche a quelle legate alla minore disponibilità di acqua dolce.
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