«Misi me per l’alto mare aperto» non «come altrui piacque»
Ogni essere umano possiede una vocazione intrinseca alla prodezza: c’è un bene grande che ciascuno di noi è chiamato a realizzare per rendere la propria esistenza prolifica. Tuttavia, troppo spesso smarriamo questo ardimento e sacrifichiamo la nostra audacia in nome del timore o della noia, perché riteniamo che l’eroismo ormai sia proprio soltanto dei protagonisti di qualche film della Marvel o di qualche serie mitologica su Netflix. Ancora una volta è Dante, col suo estro poetico e con le sue intuizioni immortali, a donarci dei preziosi spunti di riflessione che ci consentono di riscoprire la nostra eroica elezione. Pertanto, cogliamo l’occasione della quarta edizione del Dantedì per lasciarci condurre dal Poeta “per l’alto mare aperto” (Inferno, XXVI, v. 100), ma non su quella “piccioletta barca” (Paradiso, II, v. 1) che sembra richiamare la “compagna / picciola” (Inferno, XXVI, vv. 101-102), la “picciola vigilia” (Inferno, XXVI, v. 114) e la “orazion picciola” (Inferno, XXVI, v. 122) del folle volo di Ulisse, bensì ristorati dal “pan de li angeli” (Paradiso, II, v. 11) e fedeli seguaci del “solco / dinanzi a l’acqua che ritorna equale” (Paradiso, II, vv. 14-15) del dantesco “legno che cantando varca” (Paradiso, II, v. 3).
Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante incontra Ulisse nell’ottavo cerchio, nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, dove l’eroe omerico viene punito per l’ingegnosità che ha utilizzato per ingannare il prossimo, in particolare per aver escogitato l’espediente del cavallo di Troia insieme a Diomede, l’altro dannato che con lui condivide la stessa pena nella medesima fiamma. Le anime peccatrici di questa bolgia sono avvolte in delle lingue di fuoco che sembrano rievocare le malelingue che essi stessi in vita hanno utilizzato per arrecare danno agli altri: Ulisse e Diomede si trovano nello stesso fuoco, anche se si ergono in due “corni” differenti. Virgilio, sollecitato da Dante, si rivolge all’eroe omerico e gli chiede di narrare come sia avvenuta la sua morte terrena. Ulisse racconta come, dopo essere tornato ad Itaca ed aver ristabilito l’ordine nella sua patria, un irrefrenabile brama di avventura e di nuove scoperte lo abbia assalito e l’abbia spinto a rimettersi in mare per un altro viaggio: contro il suo ardore nulla poterono “né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘l debito amore” di Penelope (Inferno, XXVI, vv. 94-96). Il figlio, il padre, la moglie e tutti gli itacesi non rappresentano altro che le vittime sacrificali che l’idolo della sete di conoscenza a tutti i costi richiedeva ad Ulisse di immolare. Il superamento delle Colonne d’Ercole pretendeva che Telemaco (ri)perdesse un padre, che Laerte (ri)perdesse un figlio, che Penelope (ri)perdesse un marito, che Itaca (ri)perdesse il suo re. Ma questa volta per sempre. Infatti, dopo cinque mesi di navigazione oltre “l’alto passo” (Inferno, XXVI, v. 132), narra l’eroe, alla vista di un’alta “montagna, bruna / per la distanza” (Inferno, XXVI, v. 133), una tempesta si scagliò contro l’imbarcazione, la rivoltò per tre volte e alla quarta la fece divorare dal mare, causando la morte di Ulisse e dei suoi compagni “come altrui piacque” (Inferno, XXVI, v. 141).
È proprio da quest’ultima espressione che vogliamo partire per comprendere quali caratteristiche debba possedere l’eroismo per Dante: la frase “come altrui piacque” viene interpretata dalla maggior parte dei critici come un riferimento alla volontà di Dio. Ulisse ammette che, nonostante il suo desiderio di scoprire ciò che si trovava oltre l’orizzonte, la sua impresa si è rivelata un fallimento ed ha portato alla morte non soltanto lui ma anche i suoi amici. In altre parole, Ulisse riconosce come la sua avventura non sia stata conforme alla volontà di Dio e per questa ragione alla fine è stato punito. Ai vv. 130-133 del I canto del Purgatorio, quando Dante descrive il suo arrivo sulla spiaggia ai piedi del Purgatorio, che è proprio l’alto monte bruno che vede in lontananza Ulisse prima di trovare la morte, leggiamo: “Venimmo poi in sul lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto. / Quivi mi cinse sì com’altrui piacque”. L’espressione “come altrui piacque”, seppure nel caso specifico del riferimento può ricondursi alla raccomandazione che Catone aveva rivolto a Virgilio di cingere Dante con il giunco, anche in questo caso può riferirsi più in generale alla volontà di Dio. Non è un caso che Dante utilizzi la medesima frase nella circostanza in cui raggiunge la spiaggia dell’antipurgatorio, come se ci tenesse a suggellare che lui è arrivato “come altrui piacque” là dove Ulisse non è riuscito ad arrivare.
C’è un “lito deserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo”, c’è un Mistero che per l’uomo deve restare mistero, un Mistero dall’incontro con il quale l’uomo non può tornare “poscia esperto”. Gli esseri umani possiedono dei limiti fisici e mentali oltre i quali possono spingersi solo ed esclusivamente ad una condizione: se “altrui piacque”! È questo placet di Dio che da un lato scioglie ed esaurisce l’eroismo di Ulisse, dall’altro edifica ed esalta la prodezza di Dante.
Anche Dante, dunque, è un eroe ed è un eroe assai diverso da Ulisse, forse addirittura un eroe più forte di Ulisse, più forte perché alleato con il Forte, da cui è ispirato, guidato e assistito.
Dante è un eroe perché compie un viaggio alla ricerca della verità e della salvezza, ma allo stesso tempo, il Poeta rappresenta ogni uomo e la sua lotta contro le forze del male. Il viaggio di Dante rappresenta la lotta dell’uomo contro le tentazioni del peccato, contro la disperazione e la solitudine. Dante, attraverso il personaggio di Ulisse, rappresenta un tipo di eroismo diverso dal suo, un eroismo che si basa sulla sfida al destino e sull’ambizione: Ulisse si rimette in viaggio per esplorare ancora il mondo, superando tutti i limiti imposti dalla natura e dagli dei, ma tralascia che la conoscenza – dinanzi ad un atteggiamento di ricerca – è pur sempre un dono e mai il frutto di una pretesa. Il desiderio di per sé è buono, purché non diventi brama smaniosa, la sete di conoscenza di per sé è santa, purché non divenga una sfida ai limiti umani, la tenacia di per sé è una virtù indispensabile se si vogliono raggiungere grandi obiettivi, purché non si trasformi in cieca e sorda caparbietà.
Ma l’eroismo di Dante non è più grande di quello di Ulisse soltanto perché è la risposta ad una Chiamata, è più grande perché il viaggio di Dante rappresenta un sentiero eroico accessibile a tutti gli uomini: come Dante, ogni uomo può diventare un eroe se affronta con coraggio e determinazione il viaggio della vita. L’eroismo dantesco è quindi anche un invito eroico rivolto a tutti gli uomini: è un eroe chi nella vita viaggia sui propri binari senza deragliare, corre dritto verso la sua meta e alla fine, dopo aver superato tante prove, la raggiunge.
Ma c’è dell’altro. Se quello di Ulisse è un viaggio eroico fine a sé stesso, finalizzato al soddisfacimento di un desiderio personale, quello del Poeta al contrario è un prode viaggio finalizzato al bene e alla salvezza altrui (“finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis”, Epistola XIII a Can Grande, X, 39, 15). Anche gli eroi moderni, da Iron Man a Capitan America, da Batman a Superman, lottano contro il male per salvare l’umanità, rischiano la vita perché hanno a cuore il mondo in cui vivono, le persone che lo abitano e non la propria gloria o la propria ambizione personale. Anche il protagonista de “Il Signore degli Anelli”, Frodo Baggins, agisce con il medesimo spirito: intraprende un lungo e pericoloso viaggio per distruggere l’anello del potere con l’obiettivo di salvare il mondo e non per assecondare la brama di affermazione.
Per concludere, possiamo quindi sostenere – sulla scorta di quanto ci suggerisce Dante – che non soltanto ogni uomo possiede una vocazione eroica, ma soprattutto che valorizza davvero la propria esistenza solamente chi a questa chiamata riesce a rispondere. La risposta a questa vocazione prende le mosse dal nostro desiderio, ma nessuno come Ulisse può dire con tracotanza “misi me per l’alto mare aperto” (Inferno, XXVI, v. 100), perché la nostra iniziativa – se vuole andar lontano – richiede sempre il placet e l’assistenza di Dio (“come altrui piacque”). Per essere grandi eroi non serve oltrepassare le Colonne d’Ercole, non è necessario varcare i propri limiti o compiere necessariamente gesti straordinari, basta vivere in modo straordinario il proprio ordinario e avere a cuore il bene degli altri più del proprio, perché in fondo qual è la più grande virtù eroica se non la disponibilità al sacrificio? Cos’altro è la vocazione all’eroismo di cui parla Dante se non la chiamata cristiana di ogni uomo alla santità?