Eziologia della narrazione salgariana. Appunti su una lettera di presentazione editoriale del 1883

Articolo di Filippo Scimé

Ill. mo Signore, 


  Sapendo quanto sia diffuso il di Lei giornale La Valigia, e come vengano avidamente lette le avventure di mare e di terra…”
comincia con queste parole la lettera di presentazione che Emilio Salgàri indirizza all’editore della testata La Valigia, Ferdinando Garbini, per proporre il suo primo racconto: I selvaggi della Papuasia nel 1883 di cui altrove abbiamo già parlato (https://www.ilsaltodellaquaglia.com/i-selvaggi-della-papuasia-lavvento-di-una-nuova-era/), e per presentarsi come nuovo autore di opere consimili nel panorama letterario milanese, e quindi tout court italiano; Verona, infatti, si poteva considerare meno attraente come polo culturale e, parimenti, meno vantaggiosa dal punto di vista economico. La lettera integrale, che commentiamo, è stata trascritta da Giovanni Calenda in Tragica giungla sulle rive del Po, uno studio presente su una rivista degli anni ’50, quando ancora la letteratura poteva permettersi il lusso di agitare lettori, autori e critici attorno a un’opera o alla produzione di un autore. Il racconto verrà pubblicato nell’estate del 1883.

Senza dubbio è un documento molto interessante per capire quali sentieri narrativi percorra l’allora giovane scrittore nel mondo della carta stampata, con la pubblicazione di un racconto a puntate, e l’atteggiamento con il quale egli si pone nei confronti della carriera narrativa, nel suo passaggio da esordiente al pubblico dei grandi lettori, della letteratura, delle mode e dei costumi attorno al mondo del libro. 

Nell’esordio della missiva lo scrittore veronese evita una captatio benevolentiae e si limita assai tendenzialmente a dare un ritratto di sé stesso verosimile, presentandosi come “un giovanotto sconosciuto a Milano, ma di qualche nome a Verona, antico cadetto della marina mercantile, che ho viaggiato il mondo, assai studiato e assai provato…”. Studi recenti (cfr. Felice Pozzo, La vera storia di E. Salgari, Odoya, 2022) confermano che l’identità di uomo di mare fu dignitosamente creata ad hoc, probabilmente per autenticare la veridicità della sua narrazione. Altri tempi e altri modi? Non credo possa essere d’aiuto intraprendere tale strada. La realtà è che i temi della narrazione d’avventura, sia che fossero viaggi di mare che di terra, erano considerati verosimili se, e solo se, alle spalle c’era un humus culturale e personale comprovato, e temprato da viaggi di ogni sorta (spedizioni scientifiche, esplorazioni); anzi era proprio il viaggio, vero o presunto tale, a dare palese certificazione di verità allo scritto.

Sicuramente nella cultura occidentale la narrazione dei commentari di guerra (classici, e sei-settecenteschi) e l’esplosione della conoscenza cartografica e geografica nel XIX secolo, a partire dalle campagne napoleoniche in Europa e nel Mediterraneo, avevano giocoforza spostato il baricentro verso un processo di realtà che corrispondeva all’autenticità della narrazione, a patto che fosse vidimata dall’esperienza: ho visto, dunque, ne sono a conoscenza, secondo l’antico processo erodoteo. In questo campo l’esperienza salgariana si inserisce come un nuovo innesto di narrazione comprovata per verba non per facta. I verba salgariani sono la cieca convinzione di credere e narrare il mondo dell’avventura attraverso una conoscenza completa: etnologica, geografica, storica, profondamente umana nella modalità più comune di esperire la conoscenza come scienza dell’io. Una conoscenza che nasce da uno studio organizzato che sonda il conoscibile, unendo la capacità di formulare avventure in mondi disparati; partendo per lo più da conoscenze certe, frutto di una selezione per luoghi, che contengono determinati elementi, i quali diventano appigli per costruire storie: quante volte il Corsaro Nero e Moko hanno spremuto il succo dall’albero del latte? In questa concatenazione la trama soggiace all’ecosistema o comunque si mescola a esso diventando un tutt’uno che esiste, perché quel lembo di terra appare come è descritto all’occhio del Salgàri lettore che ne riproduce lo spirito, il volo fulmineo di un uccello piumato, l’eco del vento.

 La lettera procede narrando la tematica del presente racconto: “trattasi di un naufragio sulle coste della N. Guinea e di commoventi episodi, abilmente descritti per quanto compete a un uomo di mare”. Perché sottolineare nuovamente la competenza di sé come scrittore? È prassi che i canoni della produzione letteraria del tempo non accettassero un’argomentazione di fantasia (si rammenti Manzoni e l’espediente del romanzo ritrovato), o, in ogni caso, una narrazione scevra di verità (ammesso che questa verità si potesse appurare); da questo punto di vista, quindi, Salgàri è il primo narratore ad aver tracciato un sentiero che segue la verosimiglianza narrativa, fondata su uno studio accurato e un’esperienza immaginata o comunque vagheggiata (come il suo sogno di essere uomo di mare). Inoltre, fu uno dei primi a svincolare l’obbligatorietà dei facta, sostituendoli con i verba; e primo a raggiungere un risultato narrativo accattivante per la materia trattata. 

Altro aspetto interessante, come leggiamo, è la precisazione di un’avventura in Nuova Guinea e di commoventi episodi. Sui commoventi episodi, potrebbe prestare il fianco un certo manierismo letterario patetico assai in voga nell’800, ma tale stilema risulta correlato al primo: cosa, infatti, può accadere alle soglie di un mondo nuovo e poco conosciuto? Quanto di più terribile e lontano dal mondo occidentale. Per cui tutto ciò che non avviene normalmente in quello già noto, cominciava a spianare il nuovo mondo per omologarlo lentamente al primo (si veda la colonizzazione dell’India). Perché la Nuova Guinea poi? Anche la scelta di cominciare a muoversi entro un “perimetro asiatico” manifesta una scelta diversa dagli autori coevi. Rifuggendo difatti dall’euforia della prima pubblicazione verso un’utenza letteraria diversa, e maggiormente ramificata rispetto a quella iniziale, è intuibile che Salgàri abbia preferito in un primo momento della sua narrativa paesaggi del tutto ignoti allo scibile umano, giacché si prestavano a un gusto letterario diverso, di tipo geografico-naturalista, tendenzialmente rivolto a un mondo misterioso e a biomi poco conosciuti alle latitudini europee.

Scrive poi in maniera specifica al Garbini, in coda, “se incontra [il suo favore], settimanalmente mi prenderò la briga di inviargliene altri possedendo un vasto quanto svariato repertorio di simili scritti, unitamente ad alcuni romanzi sul genere dei Verne, degli Aimard e dei Cooper”. Credo che il modello Verne e l’ispirazione, dovuta al fascino di Aimard e Cooper, abbia costituito un punto di approdo e di arrivo, nella volontà di ricreare un gusto fortemente italiano; la volontà di proiettare l’avventura entro ambiti poco conosciuti è una scelta poetica e non etica, narrativamente parlando. Verrebbe da chiedersi se i lettori dell’epoca fossero amanti della natura, più di quanto lo siano oggi. Forse sì. E dalla ricchezza dei dettagli Salgàri riusciva a raggiungere una piena essenza del contesto e recuperare la bellezza della trama narrativa. 

Nelle richieste finali: “Mi affido a lei. Lo legga questo scritto, e se incontra [il suo favore], la prego di farmene noto…” troviamo la volontà di incidere sul panorama letterario, perché Salgàri è voglioso di emergere e di fare della letteratura un mezzo espressivo di guadagno -che purtroppo mancò, insieme al riconoscimento – , ma soprattutto di nuova comunicazione, e di lasciare in eredità storie che possano essere culturalmente valide, dato che esse trovano fondamento nella scienza conoscitiva del mondo e di questo gliene furono grati – e gliene sono tuttora – i lettori di molte generazioni.

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