Tra le abitudini più nefaste per l’ambiente c’è certamente il consumismo. Nato tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, venne accolto come motore della crescita economica. Mettere i consumi al centro dello sviluppo del sistema economico doveva servire per promuovere la crescita e lo sviluppo. La politica del “comprare anche se non serve” fu uno dei perni della soluzione del governo Roosvelt per salvare gli USA dalla depressione seguita alla crisi del 1929.
Col tempo, anche grazie alla spinta delle grandi multinazionali, questo modo di vivere si è diffuso sempre di più. Oggi, tra i settori che maggiormente rappresentano il consumismo c’è la cosiddetta fast fashion, letteralmente “moda veloce”. Ogni anno, in coincidenza con il cambio di stagione, le multinazionali sommergono i mercati di tutto il mondo di nuovi capi d’abbigliamento di bassa qualità ma a prezzi molto bassi. Il tutto viene supportato e accompagnato da massicce campagne di marketing per costringere gli acquirenti a comprare per “essere alla moda”. Questo, da un lato ha permesso alle imprese di raggiungere ricavi e profitti elevatissimi (visti gli elevati volumi di produzione e la bassa qualità dei prodotti, il costo unitario è ridicolmente basso). Dall’altro, però, ha portato a un aumento sconsiderato della quantità di indumenti prodotti. Nell’ultimo periodo, un’ulteriore spinta è stata data dal commercio online.
Purtroppo, la vita utile di molti di questi prodotti è limitata ad una stagione (a volte neanche quella). Spesso, sebbene poco utilizzati vengono scartati. Anche i capi non venduti finiscono nella spazzatura: le aziende devono lascare poso ai “nuovi prodotti”, quindi le giacenze di magazzino diventano un peso da smaltire il più rapidamente possibile.
L’impatto sull’ambiente della moda “usa e getta” (o “getta senza nemmeno utilizzare”) contribuisce in modo rilevante all’inquinamento ambientale. Oggi l’industria tessile è la seconda più inquinante al mondo, nonché tra le prime per consumo energetico e di risorse naturali. Negli ultimi vent’anni, i danni ambientali della fast fashion sono aumentati con l’arrivo degli acquisti online.
Agli effetti negativi per la salute (tinture dei tessuti dannose per la pelle, componenti cancerogene e altro) si aggiungono altri danni per l’ambiente dovuti al fatto di scaricare nell’ambiente materiali sintetici spesso derivati dal petrolio, quindi non biodegradabili e non riciclabili. Sostanze che finiscono per contaminare, il suolo, il mare e gli oceani. Il tutto, spesso, lontano dagli occhi (e dalla coscienza) dei consumatori. Una delle maggiori discariche di vestiti usati e invenduti del mondo (pare che sia visibile anche su alcune immagini satellitari) si trova in Cile, nel deserto di Atacama tra la catena delle Ande e la Cordigliera della Costa. Un posto disabitato e inabitabile che, proprio per questo, alcune grandi aziende hanno deciso di utilizzare come discarica. Qui sorge una delle più grandi discariche di abiti nuovi e usati. Un enorme cumulo di indumenti di ogni tipo, usati ma anche nuovi. 40.000 tonnellate di magliette, jeans e camicie che cresce giorno dopo giorno: camion carichi di abiti raggiungono indisturbati questa discarica a cielo aperto scaricano illegalmente gli scarti. Vestiti che prima di essere buttati hanno attraversato mezzo mondo. Vengono da Paesi dove sono prodotti i tessuti e dove sono lavorati. Cina, India, Pakistan, Vietnam, Bangladesh. Qui la manodopera costa quasi niente, i diritti dei lavoratori non esistono e la sicurezza per i materiali che si usano e per i lavoratori non è un “problema”. E anche quando si verifica un “incidente”, nessuno ne parla. Come quello di Rana Plaza, in Bangladesh: nel 2013, persero la vita oltre mille lavoratori. E più di 2500 rimasero feriti. Lavoravano in una fabbrica di abbigliamento in un edificio in condizioni rovinose. Molti avevano denunciato la presenza di enormi crepe nei muri, ma i dirigenti avevano detto di continuare a lavorare, minacciando il licenziamento. Il 24 aprile del 2013 la palazzina di otto piani che ospitava diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali crollò con dentro tutti gli operai. Questo non cambiò il sistema di produrre i capi della fast fashion. La moda “usa e getta”, economica e di tendenza, economicamente vantaggiosa (per pochi) ma estremamente inquinante (per tutti).
Una volta confezionati, gli abiti raggiungono gli Stati Uniti d’America, l’Europa e l’Asia, dove la GDO cerca di venderli a chi li indosserà solo poche volte. Così i vestiti buttati e quelli invenduti riprendono il loro lungo viaggio. La maggior parte viene stipata a bordo di enormi navi container dirette verso il Cile, dove sbarcano al porto di Iquique, “zona franca” stabilita dal governo cileno per facilitare il trasporto internazionale delle merci e incentivare l’economia locale. Dove le aziende non pagano imposte doganali e lavorare a costi bassissimi. Ogni anno, al porto di Iquique, arrivano circa 60.000 tonnellate di vestiti usati o dismessi. Una parte viene rivenduta in altri Paesi dell’America Latina. Gli altri spesso finiscono in discariche abusive come quella nel deserto di Atacama.
Recentemente di fast fashion si è tornato a parlare anche al Parlamento europeo (se ne era parlato già nel 2020). I parlamentari hanno scoperto che per raggiungere entro il 2050 un’ “economia circolare” è necessario ridurre gli sprechi tessili, aumentando il ciclo di vita e il riciclo dei tessuti. Secondo i dati dello studio, in UE, per vestirsi ogni persona utilizza risorse pari a 9 merti cubi d’acqua virtuale e 391 kg di materi prime, avrebbe bisogno di circa 400 mq di terreno, ma soprattutto causa un’impronta di carbonio pari a ben 270kg di CO2. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, i prodotti tessili acquistati nell’UE nel 2020 avrebbero generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona. Complessivamente avrebbero prodotto emissioni di gas serra pari a 121 milioni di tonnellate.
Ma non basta. Oggi va di moda parlare di microplastiche. Ebbene, secondo gli studi dell’UE, un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700mila fibre di microplastica che finiscono nell’ambiente e nella catena alimentare. Solo il lavaggio di capi sintetici rilascia ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari.
Come se non bastasse, la produzione di fibre tessili è in aumento: 58 milioni di tonnellate del 2000 sono diventate 109 nel 2020 e le stime parlano di 145 milioni di tonnellate entro il 2030.
Sempre secondo lo studio dell’UE, il riciclaggio e il riutilizzo dei capi di abbigliamento sono praticamente inesistenti: solo l1% del totale. I cittadini europei consumano ogni anno quasi 26kg di prodotti tessili e ne smaltiscono altri 11. Gli indumenti dismessi o non venduti in genere vengono “esportati” al di fuori dell’UE o vengono inceneriti (aumentando in questo modo le emissioni di CO2) o portati in discarica. A marzo 2022 la Commissione europea ha presentato una nuova strategia per rendere questi abiti più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili (le famose 4R). A giugno 2022 il Parlamento Europeo aveva proposto di adottare misure più rigide dell’UE al fine di fermare la produzione e il consumo eccessivi di tessili. Nei giorni scorsi, il Parlamento ha presentato nuove proposte destinate proprio a modificare le norme sui rifiuti tessili. In pratica, i produttori di prodotti tessili, come abbigliamento, calzature, cappelli e accessori, così come altre aziende che immettono tali prodotti sul mercato unico europeo, dovranno coprire i costi della raccolta differenziata, dello smistamento e del riciclaggio. Anche dei cappi nuovi dismessi. I residui della fast fashion. Uno dei baluardi del consumismo moderno.