Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993) è il più celebre regista italiano e come tale non è inquadrabile in un genere ben definito, anche se la prima parte della sua produzione risente dell’influenza neorealista.
Fellini è un poeta visionario, gira film onirici difficili da catalogare e fa dell’autobiografismo la sua cifra stilistica più marcata. È il regista italiano più citato all’estero e la sua presenza nella storia del cinema resta fuori discussione. La sua opera è un mosaico composito che commuove, diverte, modifica il mondo, rende nostalgici, sognatori e fa spiccare voli pindarici di fantasia. Fellini è un attento osservatore della realtà, ma sa reinventarla, cambiando genere da una pellicola all’altra. Ha uno stile ben riconoscibile, conserva i suoi miti, non gira mai un film che sia la fotocopia del precedente, si mette in discussione e rinuncia a fare cinema se non ne sente l’esigenza. Nonostante tutto è così modesto da definirsi “un artigiano che non ha niente da dire ma sa come dirlo”. A volte aggiunge: “Faccio film perché mi piace raccontare bugie, inventare fiabe. E dire le cose che ho visto, le persone che ho incontrato”. La poetica felliniana vive di un contrasto, a prima vista inconciliabile, tra fantastico e realismo, due modi opposti di fare cinema che nella sua opera spesso coincidono. Fellini è regista onirico e visionario, da ogni film fa capolino la Rimini della sua infanzia, l’educazione cattolica ricevuta nel collegio di frati, la visione del provinciale che scopre Roma e il gusto per il sarcasmo.
L’importanza di Federico Fellini come antecedente colto della commedia erotica è palese sin da I vitelloni (1953), ritratto veritiero della vita in provincia attraverso le giornate di cinque fannulloni che inventano il quotidiano. L’inverno a Rimini è soltanto noia e rimpianto del tempo perduto, tra amici che si sposano, scappatelle, aspirazioni frustrate, sogni infranti. Nell’ultima scena de I vitelloni troviamo tutta l’incertezza di un giovane che comprende come la sua vita non possa finire in provincia, ma non ha certezze sull’avvenire. Federico abbandona Rimini per Roma, spinto da una voglia di fuga e dal tedio della provincia. “L’inverno è terribile. Non passa mai. E una mattina ti svegli. Eri ragazzo fino a ieri e non lo sei più…”, fa dire all’intellettuale del gruppo in una scena suggestiva de I vitelloni.
La dolce vita (1960) racconta la vita fallimentare del giornalista Marcello Rubini (Mastroianni) che ha abbandonato ogni ambizione letteraria, scrive per una rivista scandalistica e frequenta le notti romane a caccia di emozioni. Il film inizia con una visione simbolica del giornalista che sorvola la città in elicottero trasportando una gigantesca statua di Cristo. Fellini utilizza la dissolvenza per inserire nuove situazioni che presentano reporter d’assalto, tentati suicidi e un’attrice che arriva all’aeroporto. La parte interpretata da Anita Ekberg impegna buona parte del primo tempo e presenta un’attrice simbolo del modello felliniano di donna opulenta e sensuale.
“Anitona Ekberg mi ricordava le prime tedesche che arrivavano a Rimini in sidecar, già ad aprile si spogliavano sul molo e si tuffavano nell’acqua gelida, come trichechi”, commenta Fellini.
Anita incontra Marcello davanti al panorama di San Pietro, finisce nel bel mezzo di una festa alle Terme di Caracalla, balla mambo e cha cha cha, soccorre un gattino per i vicoli di Roma, trascorre una notte brava che termina con un bagno nella Fontana di Trevi. La serata di musica frenetica mette in primo piano un giovanissimo Adriano Celentano con il suo clan, tra i protagonisti della festa. Un altro episodio polemizza con le false apparizioni mariane e la credulità popolare, ma sono sequenze che portano problemi con il Vaticano e con la stampa cattolica. Rubini passa il tempo seduto ai tavoli dei bar di via Veneto, collabora con un fotografo soprannominato Paparazzo (da questo film nasce il neologismo), si immerge in un mondo rutilante e borghese. Il giornalista incontra il padre e i due trascorrono una serata al night, dove il genitore si invaghisce di una ballerina. Marcello è fallito anche come figlio, perché ammette di non conoscere il padre, un uomo troppo impegnato per dedicargli tempo. Il dialogo padre – figlio a casa della ballerina, dopo un malore che finisce per far fallire il rapporto, è un grande pezzo di teatro. Il vecchio genitore dà le spalle al figlio, guarda fuori dalla finestra e mormora: “Bisogna che vada”. Non accetta il passare del tempo, vorrebbe essere ancora giovane, non dover giustificare un malore, soprattutto non doversi vergognare davanti al figlio. Lo scrittore fallito Steiner (Alain Cuny) afferma di essere “troppo serio per fare il dilettante e incapace di fare il professionista”, ma soprattutto non riesce a vivere distaccato dalla realtà e fuori dal tempo. Ama i suoi figli con tutto il cuore, li bacia prima di andare a dormire, li accudisce, ma finisce per ucciderli e si suicida con un colpo di pistola alla tempia. Marcello deve consolare la moglie affranta dal dolore, mentre reporter cannibali scattano foto a ripetizione. “Forse aveva paura di se stesso. Di noi tutti”, conclude Marcello. La vita di Marcello Rubini prosegue con una giornata trascorsa in un locale sul mare dove scrive un articolo, conosce una ragazzina che fa la cameriera (Valeria Ciangottini) e si lascia infastidire dalle note del juke-box. La notte romana va avanti con un festino a casa di nobili, tra prostitute che dicono di amarlo, omosessuali, spogliarelli e finte sedute spiritiche. Marcello litiga con la compagna, è insoddisfatto di tutto e non sopporta l’amore come convenzione borghese. “Non vuoi bene a nessuno. Resterai per sempre solo”, dice lei. “Non posso passare la mia vita a voler bene a te”, risponde il giornalista. Fellini ritrae Marcello come un uomo perennemente inquieto, insoddisfatto della vita, deluso da tutto, persino dall’amore. Non è un personaggio positivo, ma è soltanto un giornalista che si vende per denaro, che intervista il maggior offerente e scrive ciò che vuole il pubblico. Il film è una discesa negli inferi di una città degradata, tra nobildonne che si lasciano cavalcare, si spogliano per noia e scelgono gli eccessi per sentirsi vivi. Un barlume di speranza è racchiuso in uno splendido finale che si stempera tra il rumore del mare e gli occhi innocenti di Valeria Ciangottini, ultimo incontro di Marcello mentre sulla spiaggia sta spuntando l’alba. Il giornalista, però, non sente le parole dell’innocenza, il rumore soffoca ogni cosa, lo sguardo dolce della ragazza resterà un ricordo, perché lui seguirà i borghesi annoiati.
Gli sceneggiatori Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Ennio Flaiano e Federico Fellini descrivono incontri erotici, orge e folli avventure. Il film è un viaggio nella notte romana, all’interno di una società corrotta dove crollano miti, valori e convenzioni. La pellicola è teatrale, girata quasi tutta in teatri di posa, con pochi esterni, costruita su parti liriche e grandi prove recitative. Fellini cita il circo in un paio di sequenze al night quando presenta una sorta di clown come domatore musicale di tre donne vestite da belve. Subito dopo entra in scena un triste suonatore di tromba che fa l’incantatore di palloncini mentre intona un languido motivo.
La dolce vita fa da spartiacque della produzione felliniana e dà il via a una serie di pellicole meno legate alle tradizionali strutture narrative. È una pietra miliare della carriera di Fellini ma anche della storia del cinema, perché rompe con un vecchio modo di raccontare storie sul grande schermo. Marcello Mastroianni diventa l’alter ego del regista, che attraverso le parole dell’attore esprime la sua analisi spietata di una società borghese in disfacimento. Fellini non sarebbe d’accordo con questa considerazione perché ha sempre detto:“Marcello Mastroianni non è il mio alter ego, sono io a essere il suo alter ego!”.
La pellicola suscita enorme scandalo, sia per la scena del bagno nella Fontana di Trevi, sia per l’orgia finale con spogliarello, sia per alcune scene di amori extraconiugali. Oscar Luigi Scalfaro scrive due articoli come Basta! e La sconcia vita per mettere all’indice La dolcevita su L’Osservatore Romano, proprio mentre in parlamento si discute sulla moralità dell’opera. Tra i critici cattolici il film viene difeso soltanto da padre Angelo Arpa, gesuita e filosofo amico di Fellini. Arpa intuisce il grande impatto estetico e sociale della pellicola, ma paga di persona per le sue idee liberali, visto che il Vaticano gli vieta di parlare di cinema in pubblico. Nonostante tutto il film conquista la Palma d’Oro a Cannes e Piero Gherardi vince l’Oscar per i costumi. La dolce vita è un film epocale anche perché Fellini riesce a inventare una nuova frase popolare che resta nel gergo quotidiano insieme a vitelloni, paparazzi e bidone. Non manca una satira dai toni farseschi ispirata a La dolce vita diretta nel 1961 da Sergio Corbucci, su soggetto di Steno e Lucio Fulci: Totò, Peppino ela dolce vita. Totò e Peppino De Filippo sono i mattatori di una commedia che riprende luoghi e situazioni del film originale tuffandoli nell’acido corrosivo della farsa.
La dolce vita porta a Fellini non pochi problemi dal fronte cattolico, ma pure le sinistre non si fidano di lui perché rifiuta di accettare il punto di vista marxista. Tutto questo non reca conseguenze negative al regista che viene premiato in tutto il mondo come autore geniale. Fellini va oltre le ideologie, deforma la realtà ma la racconta con poesia e libertà, miscelando neorealismo a eccessi barocchi.
Boccaccio ’70 (1962) è un film a episodi diretto da Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Mario Monicelli e Federico Fellini. De Sica racconta la storia di una donna prosperosa messa come premio di una lotteria (La riffa), Visconti narra di una donna che si fa pagare le prestazioni sessuali per punire il marito traditore (Il lavoro), Monicelli racconta il dramma di due sposi novelli che non si vedono mai per colpa del lavoro (L’avventura di due sposi). Federico Fellini scrive e sceneggia insieme a Ennio Flaiano e Tullio Pinelli Le tentazioni del dottor Antonio. L’episodio racconta la storia di un moralista che dichiara guerra a un gigantesco manifesto di Anita Ekberg che pubblicizza le qualità del latte. Il film rappresenta la prima esperienza di Fellini con il colore, trasforma in realtà gli incubi di un borghese sessuofobo e ci coinvolge in una convincente atmosfera ironico – fantastica. Le tentazioni del dottor Antonio è una breve commedia satirico – grottesca che realizza un affresco sulla Roma anni Settanta, tra balneazioni sul Tevere, preti vestiti di rosso e cinema peplum. Una vocina infantile fuori campo presenta il dottor Antonio Mazzuolo, un perbenista che passa le notti a infastidire coppiette che si appartano nei giardini. Fellini descrive con dovizia di particolari un personaggio ricalcato per eccesso sulle fattezze di Oscar Luigi Scalfaro, reo di aver chiesto il rogo per La dolce vita. La maschera clownesca di Peppino De Filippo fa il resto e dà vita a un dottor Antonio censore di oscenità a teatro, davanti alle edicole e tra i tavoli di un ristorante quando nota una donna disinibita. Fellini cita anche le comiche del cinema muto con una sequenza veloce girata in bianco e nero. Il nostro moralista è un ex boy scout, ovviamente scapolo, vive con una sorella timorata di Dio e passa il tempo insieme a un campionario di amici baciapile. La critica al mondo della Chiesa e alla religione cattolica è molto forte; il pericolo della tentazione della carne viene rappresentato come un attentato alla sanità morale dei nostri giovani. Il cartellone con Anita Ekberg in bella evidenza mette in crisi il precario equilibrio psicologico del dottor Antonio che vaneggia di immagini invitanti, oscene e voluttuose. Troveremo un personaggio simile ne L’affittacamere (1976) di Nando Cicero, interpretato da un ottimo Adolfo Celi, un caso in cui il cinema bis affronta con leggerezza le stesse tematiche del cinema alto. Un commissario di polizia disserta sul concetto di invitante, vuol sapere se è all’americana, alla francese o alla turca perché è importante ai fini della punibilità. Il moralista ribadisce che si tratta di un’offesa all’allattamento, la funzione più alta della maternità. Il motivetto pubblicitario (“Bevete più latte/ Il latte fa bene/ Il latte italiano…”) è un momento musicale che si ricorda e che inaugura la lotta felliniana ai messaggi della società dei consumi.
Il dottor Antonio controlla con il binocolo l’oscena visione e inizia la sua guerra personale, mentre – per contrasto – i bambini giocano nel parco per niente turbati. Il vizio pare radunarsi sotto l’immondo cartellone, acrobati, giochi, carrozze e mercanti che vendono di tutto, ma alla fine il dottor Antonio convince il potere a oscurare la visione erotica. Cominciano gli incubi che sono la parte migliore del film. La Ekberg prende vita, assume espressioni beffarde, scende dal cartello, si presenta in dimensioni gigantesche e raccoglie Antonio da terra come se fosse un topolino. Fellini dà vita a un momento notevole di cinema fantastico e ricostruisce a Cinecittà una Roma in miniatura per far giganteggiare la Ekberg. Il dottor Antonio è combattuto tra la bellezza della donna e l’offesa al pudore, scopre tutta la sua ipocrita mediocrità quando le supplica di restare per sempre con lui. “Una bella noia… una settimana, forse”, risponde la donna. Lo spogliarello appena accennato dalla Ekberg manda in estasi il censore che si ribella ai desideri inconsci e vorrebbe ucciderla. A questo punto arrivano i perbenisti in surreale processione e portano via il corpo della donna. Mazzuolo difende Anita, non vuole che venga sottratta al suo sguardo, si lascia tentare fino in fondo da una visione fantastica. Il mattino scopre il dottor Antonio rifugiato sul cartellone mentre giunge un’ambulanza a sirena spiegata e lo porta in ospedale. “Anita”, è il suo ultimo sussurro mentre parte la musichetta Bevete più latte… L’innocenza di un bambino vestito da angioletto chiude una pellicola piuttosto scomoda per il periodo storico.
L’idea di Boccaccio ’70 è del geniale Cesare Zavattini che convince Carlo Ponti a investire su una pungente critica del moralismo fatta con le armi della commedia popolare. Gli episodi girati da Visconti e Fellini colpiscono nel segno, soprattutto il secondo, che anticipa alcune tematiche che saranno contenute in Roma. Peppino De Filippo mette alla berlina Oscar Luigi Scalfaro, al tempo assurto alle cronache per aver fatto coprire una signora vestita con abiti tropo audaci. Fellini si vendica delle critiche sferzanti che Scalfaro aveva riversato su Ladolce vita dalle colonne dell’Osservatore romano.
Fellini Satyricon (1969) è un film ispirato all’opera di Petronio Arbitro e possiamo definirlo una Dolce vita ai tempi dell’antica Roma che racconta l’educazione sentimentale di Encolpio (Martin Potter) e Ascilto (Hiram Keller). Fellini ci trasporta nella Roma imperiale e mostra le dissolutezze di un mondo in decadenza raccontando le esperienze erotico – picaresche di due omosessuali vagabondi. Ricordiamo la memorabile cena imbandita dal liberto arricchito Trimalcione (Il Moro – Mario Romagnoli), i salotti intellettuali dove si mette in scena il niente, l’assassinio del tiranno Lica, l’incontro con l’ermafrodito e il confronto con il Minotauro. Si comincia con la lotta tra Encolpio e Ascilto per il possesso del giovane amante Gitone (Max Born) e nella scena seguente viene citato il teatro farsesco di Plauto, dove vediamo il volto lunare di Alvaro Vitali. La pellicola prevede alcune sequenze di amore omosessuale ma sono girate con molta delicatezza, il regista si limita a far intuire mostrando carezze e corpi abbracciati dopo una notte di sesso. Notiamo alcune sequenze ai limiti dello splatter con il sangue che schizza fuori da mani mozzate, teste tagliate e animali sacrificati. Tutto materiale che farà la gioia degli emuli della serie B come Joe D’Amato che porteranno all’eccesso questa poetica nei film di ispirazione romanistica. Il regista filma un delirio onirico di amore e morte in una Roma imperiale in pieno decadimento morale, tra cene infinite, sesso e misteriosi assassini.
La cena di Trimalcione è la parte che più si ispira al romanzo di Petronio Arbitro ed è una ricostruzione fedele di un’orgia romana tra eccessi di ogni tipo. Trimalcione è così rozzo da pretendere affetto dalla moglie solo perché l’ha comprata e vuole essere incoronato poeta perché offre a tutti da mangiare. Le sequenze che mostrano il rito funebre in suo onore e il monumento cimiteriale predisposto prima della morte completano la critica alla nuova borghesia priva di cultura. Fellini parla di Roma ma vuol far intendere che nella nostra società contemporanea la situazione non è molto diversa. Altre scene interessanti sono il matrimonio omosessuale sulla nave del tiranno che vede protagonista Encolpio, tra effusioni e legami di sangue santificati da sacrifici animali. La lotta nel labirinto tra Encolpio e il Minotauro – un uomo mascherato con la testa di toro – è un gioiello cinematografico e ricorda il cinema western di Sergio Leone. Il duello si svolge in un’arena polverosa, sotto un sole cocente e un vento incessante che sferza i volti dei contendenti. Luigi Montefiori è il Minotauro e inaugura la sua attitudine a futuri ruoli mostruosi sotto la guida di registi del cinema di genere (Antropophagus). Un’altra parte interessante di cinema fantastico mostra una donna condannata da un mago ad avere il fuoco tra le gambe e a soffrire ogni volta che gli uomini vengono ad accendere le loro torce. Encolpio potrebbe diventare ricco perché il poeta Eumolpo nomina erede chi si nutrirà delle sue carni, ma rifiuta di compiere un atto di cannibalismo e resta solo con il suo sconforto, dopo la morte di Ascilto. Il poetico finale è composto da una serie di dissolvenze e primi piani, ma si stempera su alcuni dipinti nella roccia che raffigurano i protagonisti della storia.
La pellicola non ha una vera e propria unità narrativa, ma è strutturata come un contenitore di avventure e storie raccontate dai protagonisti, che si caratterizza per un’atmosfera surreale e decadente. Il film è girato quasi completamente in interni e le scenografie sono ricostruite con cura nei teatri di posa, seguendo le indicazioni che fornisce lo storico Jerôme Carcopino ne La vita a quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero. Gli esterni cominciano nella seconda parte e sono girati sull’isola di Ponza, a bordo di una nave dopo la cattura del tiranno Lica, ma anche in paesaggi terrestri polverosi e ventosi che ricordano le scenografie del western all’italiana. Fellini inquadra volti umani in primo piano, particolari di occhi, mentre in sottofondo il mare rumoreggia e il vento solleva pulviscolo e sabbia. A tratti pare di vedere lo stile di Sergio Leone, come se due grandi artisti del cinema italiano si contaminassero a vicenda. Fellini confeziona paesaggi notturni con un sole rosso intenso al tramonto che costituiscono un’ulteriore nota artistica della pellicola. Molto del merito va agli scenografi Danilo Donati (anche costumi) e Luigi Scaccianoce, ma pure al direttore della fotografia Giuseppe Rotunno. Impeccabile il montaggio di Ruggero Mastroianni e ottime le musiche di Nino Rota. Il Satyricon guadagna quattro Nastri d’Argento: miglior attore non protagonista (Fanfulla), miglior fotografia a colori, miglior scenografia e migliori costumi.
Il romanzo di Petronio Arbitro è soltanto la scusa di partenza per raccontare un’altra storia e per affrontare temi diversi. Nel film di Fellini non c’è traccia di ironia e non interessa mettere alla berlina la decadenza di Roma imperiale. Il regista coltiva i suoi deliri onirici di Amore e Morte, quasi compiacendosi di certe situazioni estreme. Il film fa scalpore per la grande libertà espressiva, ma rivisto oggi lascia abbastanza indifferenti e non si può classificare tra i migliori lavori di Fellini. Nonostante tutto ottiene una nomination all’Oscar. Tra gli attori sono degni di menzione anche Lucia Bosé, Salvo Randone e Magalì Noël. Il Satyricon presenta la curiosità di un debuttante come Alvaro Vitali che diventerà un’icona della commedia sexy. Il soggetto è di Brunello Rondi, mentre sono responsabili della sceneggiatura Federico Fellini e Bernardino Zapponi. Fellini definisce il Satyricon come “un saggio di fantascienza del passato”, anche se la critica contemporanea non lo esalta più di tanto, criticando un eccesivo sperimentalismo. Oggi abbiamo compreso che il film è una critica della società contemporanea e che Fellini si serve della decadenza morale di Roma imperiale per mettere all’indice la nostra decadenza. La pellicola è un contenitore di simboli onirici: un mondo di rovine, un museo con opere classiche già antiche e i personaggi che sfilano su un carrello, i cannibali che divorano il corpo del poeta. Fellini ambienta la sua storia nella Roma decadente, ma parla dei nostri incubi, delle perversioni contemporanee e di una società malata.
Non poteva mancare una satira farsesca del Fellini Satyricon come Satiricosissimo, girata nel 1970 da Mariano Laurenti e interpretata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia con la partecipazione di Edwige Fenech e Karin Schubert. Ciccio racconta il Satyricon di Petronio all’amico che si addormenta e viaggia con la fantasia nell’antico mondo romano.I nomi dei due attori sono niente meno che Cratone e Cratino e le battute si sprecano, sia su Petronio che su Fellini. Petronio: “Che ne sapete voi del mio Satyricon? Non l’ho ancora scritto”. Franco: “E non lo scriva. Pensa che fregatura per Fellini…”. Gian Luigi Polidoro, invece vuol fare un film serio e precede l’uscita del Fellini Satyricon di un anno con il suo Satyricon (1968), ma gira una sceneggiatura di Rodolfo Sonego sulla dissolutezza imperiale romana priva di inventiva e piuttosto manieristica. Don Backy (Aldo Caponi) e Franco Fabrizi sono i protagonisti in fuga dai soldati di Nerone che finiscono per incappare in una serie di mirabolanti avventure. Ugo Tognazzi, Tina Aumont, Mario Carotenuto e Francesco Pau completano il cast di una pellicola storica che inaugura la moda dei film romani, un vero e proprio sottogenere del fiorente cinema italiano di fine anni Sessanta. Il film si ricorda per le sequenze durante la cena organizzata dal ricco Trimalcione, interpretato da un Tognazzi ben calato nella parte. Mario Carotenuto è il poeta Eumolpo e Tina Aumont interpreta la ninfomane Circe.
Amarcord (1974) è un’autobiografia lirica, il film più poetico di Fellini, un punto di arrivo difficile da eguagliare e impossibile da superare. La pellicola rappresenta il quarto Oscar ottenuto dal regista, racconta la Rimini dell’adolescenza, il periodo del liceo e soprattutto l’Italia degli anni Trenta. Protagonista di Amarcord è una città intera, trasfigurata dal ricordo, il quartiere San Giuliano di Rimini ricostruito a Cinecittà, i suoi grotteschi abitanti, le feste patronali, le adunate fasciste, la scuola, le donne facili, i giovani del paese, gli ambulanti, le prostitute e i matti. Il personaggio di Titta Biondi e la sua famiglia servono a Fellini per ricordare il passato e ricostruire gli anni della sua adolescenza, per scrivere un romanzo di formazione su pellicola che è la storia dell’incontro con la vita. Il tono della narrazione è amichevole, colloquiale, ma poetico, come se il regista raccontasse il periodo dell’adolescenza seduto a cena con vecchi amici. Il film è ambientato in una dimensione fantastica, tra mani che annunciano la primavera e nevicate che simboleggiano il grande freddo, immerso in ricordi lontani, rumori di auto che sfrecciano per le Mille Miglia, il passaggio del Rex e l’improvvisa apparizione di un pavone. Fellini racconta – come Proust – il tempo perduto ed è la cosa che sa fare meglio, sospendendo i ricordi in un’atmosfera sognante. Fellini è autore che sente più congeniale l’analisi poetica dell’intimo, del piccolo mondo antico, rispetto alla critica sociale. I suoi lavori indimenticabili si realizzano quando trova la forza di guardare al passato con malinconica nostalgia, mettendo su pellicola i sogni a occhi aperti, le ansie e i dubbi. Tra le parti migliori di Amarcord segnaliamo le scene ambientate nelle aule del liceo, una raccolta di assurde tipologie di insegnanti e di alunni, esempio da imitare per i registi che frequenteranno il sottogenere scolastico – più o meno alto – negli anni Settanta – Ottanta. Alcuni personaggi sono indimenticabili: l’Aldina (Donatella Gambini) che fa innamorare i ragazzi, la madre di Titta (Pupella Maggio, doppiata in romagnolo da Ave Ninchi) che muore in ospedale e lascia il figlio disperato, il padre anarchico (Armando Brancia), la bella Gradisca (Magali Noël), la tabaccaia (Maria Antonietta Beluzzi) che Sergio Martino citerà alcuni anni dopo in un film con Gigi e Andrea (Acapulco prima spiaggia a sinistra), Teo lo zio matto (Ciccio Ingrassia) che si mette su un albero, grida: “Voglio una donna!” e scende solo quando arrivano le infermiere.
Il cinema Fulgor e le pellicole in bianco e nero degli anni Trenta sono un altro protagonista del film, rappresentano l’adolescenza del regista segnata dall’amore per il grande schermo. Le confessioni al prete, i ragazzini che si toccano pensando alla tabaccaia, alla Gradisca o alla compagna di scuola, le suggestioni del cinema e delle prime visioni femminili, i turbamenti davanti alla vita che cambia. Fellini descrive le adunate fasciste, i discorsi retorici, le bastonate ai dissidenti e le canzoni patriottiche. Il Grand Hotel di Rimini è un altro protagonista, nei racconti impossibili della voce narrante che ricorda una notte d’amore di Gradisca con un principe e un emiro con trenta concubine. Non dimentichiamo il mare d’estate che cambia il volto di Rimini, i tramonti rosso fuoco, i ragazzi che si trasferiscono sulle spiagge e sognano incontri con ragazze. “Tu e il babbo come avete fatto a conoscervi? E il primo bacio?”, domanda Titta prima di concludere disperato che lui non combina niente. La malattia della madre di Titta è un momento di grande poesia girato ricorrendo a silenzi e a inquadrature di spalle, senza mostrare volti sofferenti. Il regista sottolinea il grande vuoto nel cuore del marito e del figlio, anche se in vita i litigi erano all’ordine del giorno. Il funerale a piedi, la tristezza del padre, la casa vuota, tutto è costruito ad arte per rappresentare il dolore. La pellicola alterna momenti leggeri a episodi drammatici, ma sa restare in equilibrio senza cadere nella farsa o nel patetico. Il matrimonio di Gradisca nel casolare di campagna è un altro momento intenso che si conclude con la corsa dei ragazzini dietro l’auto di un simbolo erotico che li abbandona. Senza Gradisca si sentiranno un poco più soli e rimpiangeranno le sfide con le palle di neve che avevano per bersaglio un invitante fondoschiena.
Fellini racconta la vita quotidiana, senza seguire un filo logico, ma lasciandosi condurre dalla magia del ricordo e dai sogni che popolano la sua fantasia. Amarcord è un film così noto che il titolo viene citato in lingua italiana in tutto il mondo e non è un risultato scontato per un lavoro nostrano. La pellicola segna l’inizio di una parabola decadente della carriera di un regista geniale che dopo un capolavoro così sentito pare non trovare un’ispirazione altrettanto forte.
Fellini scrive Amarcord con la collaborazione di Tonino Guerra, ripensa alle proprie origini e mette in scena i ricordi della Romagna al tempo del fascismo in una struggente saga da strapaese. Il film miscela bene amore, odio e nostalgia, rilegge il passato fascista in modo acuto, mostra la mediocrità del regime ma anche del popolo che l’ha accettato. Vediamo i fascisti con l’olio di ricino, ma anche i maschi che insidiano donne, inventano balle e fanno scherzi stupidi. Tutto è vissuto attraverso la storia dell’adolescenza di Titta (Bruno Zanin) in una cittadina romagnola degli anni Trenta. Non c’è un vero filo conduttore, ma il racconto scorre secondo il dialettale A m’arcord (mi ricordo), con i maschi che spiano le ragazzine e raccontano finte avventure erotiche. Il film è girato completamente a Cinecittà, persino le sequenze del passaggio notturno del transatlantico Rex.
Amarcord è un lavoro riuscito, a metà strada tra nostalgia per il passato, complicità con i personaggi e racconto obiettivo della nostra storia. Fellini ricorda il fascismo e lo descrive smontando il mito, mostrando la mediocrità del regime, ma anche di un popolo che l’ha accettato, perché il fascismo è una stagione storica della nostra vita, il blocco dell’uomo alla fase adolescenziale (Fofi). Fellini riesce nello stratagemma simbolico mostrando Titta che non cresce, ma resta in calzoncini corti per tutto il film. Le musiche di Nino Rota e la fotografia di Giuseppe Rotunno perfezionano una pellicola che si guadagna l’Oscar come miglior film straniero. Fellini riceve la notizia del premio da Alberto Sordi che al telefono scherza: “Federico, non t’hanno premiato, questa volta è toccato a Tanio Boccia!”.
Amarcord non manca di suscitare polemiche da parte dei perbenisti che lo giudicano zeppo di parolacce e di situazioni spiacevoli. Le femministe criticano il personaggio interpretato da Magalì Noël (Gradisca) senza storicizzarlo, mentre i cattolici si scandalizzano per il seno florido di Maria Antonietta Beluzzi. Segnaliamo una grande interpretazione drammatica di Ciccio Ingrassia nei panni del matto e il volto stralunato di Alvaro Vitali tra i compagni di liceo. Amarcord sbanca il botteghino e fa record di incassi anche negli Stati Uniti.
Quando si assiste a un’opera così ben riuscita come Amarcord risulta difficile credere alle parole di Fellini: “Non ho una ricetta, un sistema, non m’impongo dei traguardi. I film si presentano come fossero già fatti. Mi pare di essere un trenino che sta percorrendo una strada ferrata ai lati della quale ci sono le stazioni, i film in questo caso. Io devo soltanto scendere, avere un po’ di curiosità e vedere cosa c’è aldilà di quella stazione, se c’è la piazza… Quindi ho l’impressione, facendo questo itinerario, realizzando film, che tutto quanto fosse già predisposto”. Forse è la genialità che fa sembrare tutto già fatto, forse è proprio la grandezza del regista che riesce a trasportare le storie dalla dimensione in cui si trovano sino ai nostri occhi.