Piero Schivazappa(Cologno, 1935) si forma alla scuola di Valerio Zurlini (La ragazza con la valigia, 1960 e Cronaca familiare, 1962, aiuto regista), dal 1960 al 1963, quindi passa in televisione, dove si occupa di servizi giornalistici, documentari (Storia della prima guerra mondiale), sceneggiati di buon successo (L’appuntamento, 1966 – Un eroe del nostro tempo, 1982) e (dal 1983 al 1989) lungometraggi (Festa di capodanno, 1988). Per il cinema non fa molto, il suo lavoro più importante è Femina ridens, che nel 1969 sconvolge pubblico e censura. Da citare il lacrima movie Incontro (1970), Una sera c’incontrammo (1975), dal romanzo di Terzoli e Vaime, parodia dei film stile Love story, e il commerciale La signora della notte (1985), dedicato a Serena Grandi. Sposato con l’attrice Scilla Gabel (1968). (Notizie desunte da Roberto Poppi, I registi italiani).
Piero Schivazappa si ricorda soprattutto come il regista di Festa di capodanno (1988), ultimo film di Gloria Guida per il piccolo schermo prima di abbandonare le scene, ma anche per Le avventure di Ulisse del 1967 (episodio del cavallo di Troia). Femina ridens resta il suo film d’autore più compiuto, che nel 1969 viene sequestrato, massacrato in più parti, assolto in appello, quindi divulgato nei circuiti nazionali, ma ancora oggi per essere visto in versione integrale dobbiamo cercare il dvd per il mercato estero. Il film comincia con una psichedelica sigla di testa con sottofondo musicale del grande Stelvio Cipriani. Impianto molto teatrale, basato su due protagonisti eccellenti come Philippe Leroy e Dagmar Lassander, oltre a una scenografia che mostra un arredamento moderno, molto anni Sessanta. Tutto parte da un trauma infantile (la visione di una mantide religiosa che divora il compagno durante l’atto sessuale) che trasforma il dottor Sayer, direttore di un istituto filantropico, in un seviziatore seriale di donne a pagamento. Il problema nasce quando decide di sfogare le sue voglie su Mary, che sembra soltanto un’innocua segretaria. Philippe Leroy (Sayer) viene presentato come un uomo incorruttibile che licenzia un funzionario truffaldino della sua associazione di beneficienza. In realtà siamo al vecchio tema dei vizi privati e delle pubbliche virtù, perché Schivazappa (pure sceneggiatore) ci presenta il nostro uomo come adescatore di prostitute di alto bordo, che sevizia e tortura per soddisfare i suoi bassi istinti. Dagmar Lassander (Mary) è una segretaria intraprendente, molto femminista, che affronta una questione teorica con il direttore, anticipando temi come sterilizzazione e figli in provetta. Il film subisce un’imprevista virata da thriller erotico, con Leroy che catturata e sequestra la donna, incatenata e seviziata, con molte scene torbide a base di sadismo (lama sulla pelle, acqua fredda sul corpo, foto delle precedenti vittime, macchie di sangue, strumenti di tortura …). La pellicola è molto psicologica, mette in scena un rapporto intenso torturato – torturatore, con una donna che pare in balia di un sadico e prova a guarirlo, proponendo l’amore in cambio del piacere dato dal provocare dolore. La sequenza del taglio dei capelli e la successiva scena con la testa della femmina sul finto patibolo è ad alta tensione, girata con grande gusto per la suspense; pare proprio che la donna venga giustiziata, ma niente è come sembra. Il regista poco a poco cambia tono alla storia, dopo un mancato suicidio della donna ci rendiamo conto che l’uomo non ha mai ucciso nessuno, non è un diabolico killer di femmine, ma solo un sadico seviziatore di prostitute che paga per ricevere in cambio soddisfazione erotica. Vediamo uno sviluppo che pare tipico della sindrome di Stoccolma con relazione amorosa vittima – carnefice, l’uomo che spiega il trauma della mantide subito da piccolo e le conseguenze sulla sua vita da misogino. In realtà il finale è a sorpresa perché la vera mantide è la donna, la vera killer di uomini che odiano le donne, che si è prefissata il compito di liberare il mondo dai sadici e dai perversi. Interessante la metafora della enorme donna di cartapesta, ispirata alle opere di Jean Tinguély, vista come una caverna dalla porta dentata, dalla quale si esce soltanto distrutti. Ottimo anche il faccia a faccia di taglio western in piscina, scontro uomo – donna come se fosse un film di Sergio Leone e una sfida all’ultimo sangue con taglio degli occhi in primo piano. In definitiva Femina ridens è un film femminista ante litteram, più che una pellicola misogina come molti l’hanno definita. La donna gioca allo stesso gioco dell’uomo sadico e perverso ma alla fine lo uccide, vendicando tutte le donne vittime, e inserendo l’uomo nella sua particolare collezione. Fotografia luminosa, scenografie interessanti, effetti speciali del grande Rambaldi, colonna sonora di un ispirato Stelvio Cipriani. Sceneggiatura che non perde un colpo, pur con un montaggio compassato secondo il gusto del tempo, il thriller gode dei giusti tempi e della dovuta suspense.
Paolo Mereghetti concede ben due stelle e mezzo a Femina ridens: “La sorpresa finale è annunciata, ma è il coronamento di una beffarda parabola quasi ferreriana sulla lotta tra i sessi, abile di volta in volta a dichiarare e negare la propria misoginia confondendo le carte in tavola”. Un film sequestrato e assolto (con tagli), che secondo il noto critico conserva “un tono gelido e divertito, tra scenografie ultramoderne ispirate a Miki de Saint-Phalle, Jean Tinguély e Giuseppe Capogrossi”. Per Mereghetti “un ambizioso e promettente esordio del regista: le idee messe in scena abbondano e gli attori non mancano di humour”. Il critico non ama le (per noi) ottime musiche di Stelvio Cipriani. Manolo Morandini conferma le due stelle e mezzo: “Insolito apologo di ironica eleganza e di sana cattiveria misogina che, senza darlo troppo a vedere, prende per i fondelli le mode sadomaso. Sequestrato, assolto in appello, ridistribuito”. Tullio Kezich: “La morale della favola è che se in particolari circostanze l’uomo può diventare un mostro, la donna lo è già per sua natura”. Vice su Il Giorno del 9 ottobre 1969 scrive: “Non sappiamo se Schivazappa sia convinto di quel che dice. Ci sembra che il tema sia visto secondo schemi che sanno di rimasticatura di trattati di divulgazione scientifica. A nostro avviso, questo è il grosso errore del giovane regista. Vogliamo essere rigorosi con lui, poiché abbiamo constatato quanto ottimo è il suo mestiere, quali possibilità per i lavori futuri si intravedono in ogni sequenza (…) sono questi, strumenti dell’artista che non devono girare a vuoto (…). Una buona pellicola per un ristretto mercato di buongustai”. Purtroppo per noi Schivazappa ha scelto il registro del cinema commerciale, che comunque ha sempre girato con diligenza e competenza.
Regia: Piero Schivazappa. Produzione: Giuseppe Zaccariello per Cemo Film. Anno: 1969. Soggetto e Sceneggiatura. Piero Schivazappa. Fotografia: Sante Achilli. Musiche: Stelvio Cipriani (Edizioni Musicali C.A.M.) con i Cantori Mosderni di A. Alessandroni (la canzone Femina ridens di Cipriani, De Mutis, Schivazappa è cantata da Olympia). Montaggio: Carlo Reali. Scenografia: Francesco Cuppini. Costumi: Enrico Sabbatini. Organizzatore Generale: Claudio Mancini. Operatore alla Macchina: Giuseppe De Biase. Effetti Speciali: Carlo Rambaldi. Fonico: Mario Bramonti. Mixage: Mario Morigi. Trucco: Franco Freda. Interpreti: Philippe Leroy (dottor Sayer), Dagmar Lassander (Mary), Lorenza Guerrieri (Gida), Varo Soleri (amministratore) Maria Cumani Quasimodo (segretaria), Mirella Pamphili (citata nei titoli ma non compare). Sculture: Claude Jaubert, Giuseppe Campobassi, Niki De Saint Phalle.