Fenomenologia dei ringraziamenti alla fine di un romanzo

Articolo di Paolo Landi

Il Magnifico Rettore della Statale di Milano ha dovuto recentemente inviare una circolare ai docenti di quella università per invitarli a scoraggiare la pubblicazione dei “Ringraziamenti” nell’ultima pagina delle tesi di laurea. Gli studenti hanno preso l’abitudine di stilare questi elenchi, proprio come fanno gli scrittori nei loro libri, alla fine del testo. Il critico strutturalista Gérard Genette (1930-2018), nel suo saggio “Seuils” (Soglie, 1987) aveva messo al centro della sua analisi i così detti “paratesti”, che sempre accompagnano la ricezione di un libro: la copertina, l’epigrafe, l’introduzione, il risvolto, la quarta, la biografia dell’autore, la dedica.

Genette sosteneva che questo insieme di elementi testuali e grafici di contorno sono il luogo privilegiato dell’istanza dell’autore per attuare la sua strategia sul pubblico. E’ qui che l’autore manifesta la propria “autorità” nei confronti di ciò che ha scritto e della sua interpretazione, con il compito di far recepire al meglio il suo testo, di proporlo al lettore affinché egli possa accoglierlo più favorevolmente e in modo più pertinente. La moda dei “ringraziamenti” alla fine dei romanzi è ormai ventennale, già più volte presa di mira da scrittori e giornalisti (Sebastiano Vassalli, Antonio D’Orrico, Renato Minore) e da un libro divertente di Carolina Cutolo e Sergio Garufi Lui sa perché. Fenomenologia dei ringraziamenti letterari (Isbn, 2014).

Ma non accenna a diminuire, anzi prolifera e dilaga nelle tesi di laurea (“Grazie ai miei genitori, che mi hanno sempre sostenuto e al mio cane Ettore che mi è stato vicino”, scrive lo studente che ha provocato la censura del Rettore). Il sarcasmo di Vassalli sul “Ringrazio Tizio. Lui sa perché” in un corsivo qualche anno fa su Repubblica, quello di D’Orrico a proposito dei ringraziamenti finali in un romanzo di Michela Murgia (“‘La stesura fisica del romanzo è stata possibile grazie alla disponibilità della casa sul Lungo Tevere di Sandra Petrignani e di quella sul Lungo Po di Angela Rastelli.

Durante la fase torinese di scrittura ho abitato per un mese anche a casa di Federico Novaro in via San Massimo…’ …Vedo scarse possibilità che sulle case citate verranno mai apposte lapidi del tipo ‘ Qui M.M scrisse Chirù’ “) non fanno desistere i romanzieri, che si abbandonano a elenchi di case abitate, “conforto mai mancato”, “sostegno costante”, “ferma spinta a portare a termine il lavoro” da parte di mogli, mariti, amici, editori, cani e gatti. C’è chi teorizza addirittura libri “fatti tutti di ringraziamenti” (Luca Bianchini) “perché i ringraziamenti sono la cosa più bella di un libro” ( e i suoi sono pagine e pagine con punte di snobismo “Ringrazio Domenico e Stefano per avermi fatto incontrare Louise Veronica”).

Un’attrice nota che si è messa a scrivere romanzi dice “Ringrazio Campi Bisenzio, le mie radici, le nuvole dei miei cieli di bambina, i miei maestri delle elementari, i miei nonni e i miei prozii. Tramite i loro insegnamenti, i loro pensieri, il loro amore, tramite le loro mani forti, la loro cultura, le loro invenzioni, tramite il loro esempio, la loro normalità, il mondo antico e prezioso che mi hanno trasmesso, ho costruito il mio riparo, il mio rifugio, l’ho inserito nel profondo del mio cuore e a esso ritorno ogni volta che devo leccarmi le ferite”.

Qui, direbbe Genette, la soglia del testo letterario è scavalcata da una mancanza di limiti o da un eccesso di indicazioni paratestuali, siamo in presenza di un “epitesto confidenziale” che azzera quel che Proust credeva di aver detto in modo definitivo nella sua polemica contro Sainte-Beuve: la biografia di un autore non conta nulla, conta solo quel che scrive. Questi “ringraziamenti” alla fine della maggior parte dei romanzi che si pubblicano oggi (molti di personaggi televisivi, o di scrittori costretti a diventarlo, come Murgia o Carofiglio) svelano un tipo di letteratura di consumo che non avrebbe nulla di cui vergognarsi, poiché è sempre esistita e ha radici nobili.

Solo che la mancanza di pudore degli autori, così come si esprime nelle loro liste finali, rivela un senso latente di colpa, come se si fosse coscienti del sottoprodotto rifilato al povero lettore e si tentasse di annebbiarne la vista facendogli dare una sbirciatina “nel mito” dal buco della chiave: case, luoghi, nomi come fossero una porzione di quel sogno che loro si figurano sia “fare lo scrittore”. O, ancora peggio, se rivelasse una inconsapevolezza da parte chi “ringrazia”, che sarebbe tutt’uno con la trivialità del romanzo che ha appena dato alle stampe.

“Questo libro non sarebbe stato possibile senza l’ispirazione e l’incoraggiamento di…” lascia immaginare scenari (auspicabili) in cui allo scrittore quella ispirazione e quell’incoraggiamento fossero mancati. Perché un conto è ringraziare alla fine di un saggio, che si suppone abbia avuto bisogno di indagini e di ricerche, e dell’aiuto di molte persone. Ma perché ringraziare per un romanzo, per un’opera d’arte che si immagina concepita in solitudine? “Chissà quante contesse avrebbe dovuto ringraziare Proust” chiosava Alberto Arbasino, mettendo la pietra tombale definitiva sul “lui sa perché”.

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