Le “quote rosa” sono l’unica possibilità accettabile di fare un passo avanti nell’emancipazione femminile, ancora spaventosamente indietro in Italia e nel mondo, perché sono “matematica” e, fondandosi su regole certe, evitano l’ideologia che, quando si parla di parità di genere, avvelena ogni migliore intenzione. Mi rendo conto di pattinare su un ghiaccio molto sottile e procederò quindi con cautela, usando l’artificio retorico delle domande, perché soltanto interrogandoci possiamo cercare di dare risposte non ovvie. Recentemente ho assistito in televisione a una conversazione tra la scrittrice Michela Murgia e il giornalista Alessandro Sallusti. Poiché a lui, a volte, sfuggiva “Come dice la Murgia”, l’ottima Michela rispondeva, per esempio, “Ha ragione il Sallusti”. “Quando mi chiamano laMurgia – ha detto la scrittrice – ribadisco sempre che la Murgia è un altopiano della Puglia”.
Una delle sue battaglie è infatti quella di togliere l’articolo determinativo davanti al cognome delle donne, perché “la cancellazione delle donne e della loro professionalità passa anche e soprattutto attraverso il linguaggio che finisce per condizionare i ruoli sociali”. Davvero “applicare a un cognome di donna l’articolo determinativo significa comportarsi con un nome di persona come ci si comporterebbe con un nome di cosa”? Nel 1967 (secoli fa) Dino Provenzal scriveva: “L’uso di chiamare le donne senza articolo è sgarbato, è sguaiato: uno dei tanti modi che vogliono mascolinizzare la donna credendo di mostrarla più seria col toglierle la femminilità”. Qualche anno dopo il settimanale Panorama, nel recensire un’opera di Lalla Romano, aveva costantemente eluso l’articolo davanti al cognome.
Alberto Arbasino era insorto dalle pagine di Repubblica, stigmatizzando la moda di abolire l’articolo determinativo davanti ai nomi di scrittori e scrittrici (“Chi era questo Romano? L’ambasciatore Sergio? Il politico Prodi? Il pittore Giulio? Macché…era la Lalla!”). Lalla Romano, chiamata in causa, rispose: “Il mio cognome è diffusissimo, ma si può rimediare semplicemente scrivendo il nome di battesimo al posto dello sconveniente articolo”. Il Manzoni si sarebbe offeso a leggersi con l’articolo davanti, negli innumerevoli temi che liceali di ogni epoca gli hanno dedicato? E la Duse? La Callas? Un articolo determinativo può essere “sconveniente”? Non sarebbe la sua funzione appunto quella di “determinare”, dire cioè con precisione? C’è una pornografia della grammatica? Dire Renzi e la Boschi, Salvini e la Meloni è sconveniente oppure è semplicemente più chiaro?
Non potrebbe essere che, al contrario di quanto sostengono Lalla Romano e Michela Murgia, mettere l’articolo davanti ai loro cognomi significasse evitare di appiattirli sulla presunta predominanza del sesso maschile? Perché spesso le donne rivendicano, giustamente, la peculiarità della loro femminilità, la “differenza”: e come si concilia questo conformarsi a una regola che vale per gli uomini? Essere uguali agli uomini vuol dire essere come loro? In che senso? Perché dire, o scrivere “il bellissimo romanzo della Yourcenar” dovrebbe trasformare quella sublime scrittrice in una “cosa”? D’altra parte: gli animali di cui ci interessa il sesso sono molto pochi, per loro abbiamo spesso una parola diversa che indica il maschio e la femmina (il toro e la mucca, il gallo e la gallina), perché sarebbe quindi così dannoso definire attraverso un articolo il sesso di qualcuno?
Togliere l’articolo davanti ai cognomi femminili vorrebbe forse dire non dare più importanza al sesso? Significherebbe porre più attenzione sui meriti e sulle azioni della persona che le compie? Murgia senza il “la” diventerebbe un “ibrido”, inorridendo tuttavia all’idea di essere comunque chiamata “scrittore”? La differenza non sta più nella parola “scrittrice” che nell’articolo “la” anteposto al cognome? Sarà l’abolizione di un articolo determinativo a cancellare secoli di discriminazioni? “Da qualche parte si dovrà pur cominciare” si sente dire: siamo sicuri che l’irrilevanza di una battaglia non serva piuttosto a distogliere l’attenzione dalla gravità di un’altra che, per complessità, si preferisce lasciare indietro?
Le battaglie si combattono tutte insieme, quelle più frivole e quelle più serie – sento già controbattere – non c’è un tempo per una e un tempo per un’altra. Bene, allora proviamo a rispondere a questa domanda, piuttosto difficile: una donna che viene insultata da un uomo perché, essendo una politica di professione, non ha mai preso le distanze dai molti altri che insultano in suo nome, o in nome del partito che rappresenta, deve ricevere solidarietà “senza se e senza ma” da tutti indiscriminatamente, oppure si dovrebbe prendere l’occasione, nel solidarizzare, di rinfacciarle le innumerevoli volte che l’hanno vista girare la testa da un’altra parte, quando i suoi sodali o appartenenti al suo stesso partito, usavano rivolgere ad altri gli stessi insulti che ora bruciano a lei?
Cioè: una donna smette magicamente di essere un individuo deplorevole nel momento in cui viene insultata da un uomo? E diventa un’entità astratta da proteggere contro la violenza di chi insulta? Ma se questa donna non fa che predicare una cultura patriarcale, dove il maschilismo è non solo tollerato ma incoraggiato, dove la parità di genere è vista come il fumo negli occhi e i valori rimandano a schemi discriminatori che hanno provocato addirittura tragedie, razzista senza ammettere di esserlo, bigotta senza essere cattolica, come può, questa donna, reclamare per sé la solidarietà soprattutto delle altre donne, che l’hanno vista combattere con la forza cieca dell’accanimento ideologico, i tanti diritti conquistati da loro faticosamente, pagando a volte prezzi altissimi, e avendola sempre contro, pur lottando anche per la sua, di emancipazione?
Con quale coraggio questa donna dice “ora basta” quando ogni santo giorno agisce perpetuando quegli schemi che conducono all’odio, anche se ora è toccato a lei esserne vittima? La sua falsa coscienza è così potente da non aprirle gli occhi? E invece del coro melenso delle solidarietà bipartisan non ci sarebbe stato bisogno di qualche “distinguo”? “Nessuno tocchi Caino” ci ha insegnato il migliore pensiero radicale: se ha diritto ad essere difesa lei, che usufruisce ipocritamente di un diritto che calpesta ogni giorno, che dire dell’uomo che l’ha insultata e che, al contrario, ha speso una vita a combattere le ingiustizie, cadendo nella trappola che il destino riserva a chi non ce la fa più ad ascoltare, ogni giorno, le menzogne travestite da carità pelosa, la manipolazione del popolo spacciata per vicinanza, l’odio per i “diversi” chiunque essi siano contrabbandato per la difesa dell’idea di Nazione, di Famiglia e di Religione e alla fine sbotta?
Ovviamente non c’è stata una donna che abbia avuto il coraggio di difendere quest’uomo e, se lo ha fatto qualche uomo, è stato subito accusato di far parte di un’accademia “protetta da un muro di cravatte”. Troppo difficile difendere la ragione, vero? Più facile l’emozione terzista, il farisaico trincerarsi dietro il “non si insulta nessuno” (verissimo, per carità, ma dovrebbe valere per tutti) contrapposta al “la violenza va sempre combattuta, da qualunque parte essa provenga” frase inutile, che si sente sempre in bocca a quegli istigatori d’odio, che non sanno come togliersi dall’imbarazzo, quando quello preso con le mani nel sacco appartiene al loro credo politico.
Ecco perché le quote rosa sono l’ultima speranza di non perdere più tempo dietro agli articoli davanti al cognome, ecco perché chiediamo alla matematica di sollevarci dal ridicolo di credere che tutte le donne sono uguali quando sono insultate: l’insulto, anche il più violento, non azzera agli occhi degli altri le diversità né degli uomini né delle donne che restano colpevoli o innocenti, in mala fede o in buona fede, carnefici o vittime. Sarà semmai un problema di educazione, non di differenza di genere. Tornare al “Lei è un gran maleducato” servirebbe forse a riposizionare nel giusto contesto episodi ingigantiti e resi abnormi dal politically correct? E la smetteremmo finalmente con questo conformismo che ci fa perdere di vista le battaglie che varrebbe davvero la pena di combattere?