Flavio Mogherini (Arezzo, 1922 – Roma, 1994) è uno scenografo tra i più rappresentativi del cinema italiano, dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Firma oltre novanta film e la sua partecipazione al cinema peplum (Ulisse, Attila, Le fatiche di Ercole, Ercole e la regina di Lidia…) e ad alcune pellicole in costume (I tre corsari) è molto importante. Sono merito suo le minuziose ricostruzioni d’epoca e gli scenari affascinanti di opere come Era notte a Roma, La viaccia (Nastro d’Argento), Accattone, Mamma Roma, Cronaca familiare, La calda vita. Mogherini scenografo dà il meglio di sé nelle architetture fantastiche come ne Le fatiche di Ercole (1957) di Piero Francisci, ma anche nelle composizioni pop di film come Diabolik (1968) di Mario Bava.
Il debutto alla regia avviene con Anche se volessi lavorare che faccio? (1972), una commedia divertente, una sorta di guardie e ladri del passato che dirige, scrive e sceneggia. Interpreti: Enzo Cerusico, Ninetto Davoli, Giovanni Barbato, Paolo Rosani, Adriana Asti, Vittorio Caprioli, Luciano Salce, Leopoldo Trieste, Maurizio Arena, Francesca Romana Coluzzi, Giacomo Rizzo, Tiberio Murgia, Orchidea De Sanctis e Nerina Montagnani. La storia racconta le vicissitudini di quattro scalcinati tombaroli che tentano di svaligiare un museo etrusco, ma un losco individuo manda all’aria il piano avvertendo sia il maresciallo della finanza che quello dei carabinieri. Il problema – e il sale della commedia – sta nella rivalità tra forze dell’ordine, che infiltrano loro rappresentanti nella banda, si ritrovano da soli a svaligiare il museo e a contendersi la cattura. I veri rapinatori, nel frattempo, si sono defilati. Le musiche sono di Ennio Morricone. Il film è divertente, anche se discontinuo, a tratti assurdo e con pretese liriche da cinema alto. Vittorio Caprioli è il ricattatore Due Novembre, una sorta di iettatore, che recita una parte da manuale. Pure il pasoliniano Ninetto Davoli è in gran forma, ma anche il protagonista Enzo Cerusico non è da meno. Adriana Asti veste i panni di una pimpante zitella ed è insolitamente doppiata.
Flavio Mogherini si ricorda soprattutto per aver fatto debuttare nel mondo del cinema l’attore di cabaret Renato Pozzetto con gli originali Per amare Ofelia (1974) e Paolo Barca, maestro elementare praticamente nudista (1975). Per amare Ofelia riscuote un buon successo di pubblico e anche la critica non lo distrugge troppo, cosa non facile visto che parliamo di una commedia con risvolti erotici. Interpreti: Renato Pozzetto, Giovanna Ralli, Françoise Fabian, Maurizio Arena, Alberto De Mendoza, Didi Perego, Orchidea De Santis, Rossana Di Lorenzo e Jorge Rigaud. Un giovane industriale (Pozzetto) orfano di padre vive un rapporto morboso con la bella e sempre giovane madre Francesca (Fabian), ma va in crisi quando conosce una prostituta di nome Ofelia (Ralli) che lo istruisce sessualmente e spera di sposarlo. Maurizio Arena (doppiato da Ferruccio Amendola) è il protettore della prostituta e – come la madre dell’ingenuo industriale – fa di tutto per impedire il coronamento del sogno. Il ragazzo guarisce dal complesso di Edipo solo quando si rende conto che Francesca non è la sua vera madre. Molti sceneggiatori per la novità cinematografica di uno stralunato Renato Pozzetto: Flavio Mogherini, Gianfranco Clerici, Giorgio Salvioni e Jorge Krimer. Il pubblico reagisce bene alla novità di Pozzetto attore comico solista e per il regista è un successo. Al cinema il personaggio dell’eterno imbranato è una vera e propria scommessa, anche se gli spettatori sono preparati ai nonsense televisivi della coppia comica Cochi e Renato. Le intenzioni del regista sarebbero alte, quasi felliniane, il film sembra una satira nei confronti di psicanalisi e complesso di Edipo, ma è anche una commedia di costume che a tratti sconfina nella pochade. La pellicola è divertente, senza stare a fare tante sottigliezze critiche resta una commedia di gran ritmo anche se si concede qualche volgarità di troppo e spesso scade nel romanesco. I luoghi comuni di Pozzetto presentano un fascino insolito quando vengono riciclati nel suo dialetto milanese e inseriti nel contesto di un personaggio surreale. Le musiche sono di Riz Ortolani.
Paolo Barca, maestro elementare praticamente nudista (1975) è una commedia erotica corretta secondo la comicità stralunata di Renato Pozzetto e solo per questo originale. Interpreti: Renato Pozzetto, Magalì Noël, Janet Agren, Stefano Satta Flores, Liana Troché, Miranda Martino, Paola Borboni e Valeria Fabrizi. Paolo Barca è un giovane milanese anticonformista che nel tempo libero pratica il nudismo, ma la sua vita si complica quando vince un concorso per maestro elementare e viene assegnato a una scuola di Catania. Nel nuovo ambiente non è libero come al nord, la repressione sessuale è più forte, ma anche le voglie delle colleghe zitelle sono più esplicite. Il giovane maestro viene sedotto da diverse mature insegnanti e al tempo stesso è criticato con vigore perché impartisce ai ragazzi lezioni di educazione sessuale. Non mancano i momenti erotici e le presenze femminili intriganti. Ricordiamo l’incipit con una spiaggia di nudisti, vera e propria scusa per mostrare alcuni nudi integrali, ma anche l’approccio erotico in barca tra Valeria Fabrizi e Renato Pozzetto. Paola Borboni, nei panni della nonna di Paolo Barca è molto brava, impersonando la donna forte che guida il carattere indeciso del nipote. “Fai attenzione alle donne giovani!”, ammonisce. Paolo segue il consiglio e in Sicilia cede alle lusinghe di una matura Magalì Noël che gli si concede nella carrozza di un treno fermo in stazione. La sua ultima conquista, però, è la giovanissima Janet Agren, prima coetanea con la quale riesce ad avere un rapporto completo. Ottime le parti oniriche. Tra tutte citiamo la metafora del biliardo e della stecca, con le donne della sua vita davanti alle rispettive buche, in attesa della pallina, con le gonne alzate. Molto felliniana anche la parte onirica con la Agren incita e un gigantesco cavolo sulla spiaggia che accoglie la nascita di un bambino. “Al sud non sono ancora pronti per sapere come nascono i bambini”, è la morale sussurrata da un personaggio. Il soggetto è di Ugo Pirro, sceneggiato dal regista e da Francesco Massaro, dopo il successo di Per amare Ofelia. Tullio Kezich distrugge il film: “Una barzelletta da caserma raccontata da un’esteta”. Morandini conferma il giudizio. Mereghetti non è da meno: “Gli intenti seri (denuncia del bigottismo) stridono sia con le battute un tanto al chilo di un Pozzetto che viveva già di rendita (era l’epoca in cui gli bastava dire Puttana Eva per far esplodere di risate la sala) sia con le bizzarre divagazioni oniriche e felliniane di Mogherini”. In realtà Mogherini non crede di essere un esteta, né vuole raccontare barzellette da caserma, ma si limita a sfruttare il personaggio Renato Pozzetto secondo un determinato stile comico e assecondando i gusti del pubblico. A parere di chi scrive Mogherini non vuole fustigare l’arretratezza culturale del sud né fare una commedia di costume sulla liberalizzazione sessuale. La sua intenzione è soltanto quella di far ridere e di inserire nel contesto con un pizzico di trasgressione sessuale. Il pubblico apprezza con calore, anche perché sono i tempi in cui la commedia sexy è ai massimi livelli. La bellissima Janet Agren che si concede alla visione degli occhi in alcuni plastici nudi completa l’opera. Molto bravo Stefano Satta Flores nei panni del direttore didattico che vorrebbe aprire alla modernità, ma la situazione gli impone un comportamento prudente.
Culastrisce nobile veneziano (1976) è un film con ambizioni felliniane, come molti lavori di Mogherini, che deriva da una commedia di Maurizio Costanzo (si vede per pochi minuti con parrucca e baffi), sceneggiata dal regista, Gianfranco Clerici, Amedeo Pagani e Barbara Alberti. Interpreti: Marcello Mastroianni, Lino Toffolo, Claudia Mori, Adriano Celentano, Floria Carabella, Anna Miserocchi, Silvano Bernabei, Olga Bisera e Maurizio Costanzo. Il marchese Luca Maria Sbrizon vive in una splendida villa palladiana, è rimasto vedovo per una disgrazia, ma una lucida follia gli fa credere che la moglie sia ancora viva e continua a comportarsi come se niente fosse. Per questo motivo rischia di essere interdetto dai parenti che sognano di spartirsi le sue ricchezze. Il fido quanto spiantato organista Agostino gli procura una vera compagna, la prostituta Nadia (Mori). La donna si immedesima nella parte al punto che vorrebbe fare davvero la padrona di casa e diventa sempre più invadente. Finale surreale con il marchese e l’organista che si procurano un gigantesco pallone aerostatico e la spediscono tra le nuvole. Mogherini compone l’elogio degli sconfitti in una commedia visionaria in costume ricca di inserti onirici e di spunti misogini. Molto bravo Mastroianni nei panni del triste protagonista che tutti sfottono con il nomignolo di Culastrisce. Mereghetti e Morandini stroncano le ambizioni d’autore di Mogherini rimproverandolo di “eccessi estetici” e di “cattiva organizzazione della materia narrativa”. Il pubblico apprezza e decreta un buon successo alla commedia, interpretata anche da un Celentano in gran forma che nel finale vediamo impegnato in uno strepitoso assolo.
Mogherini si ricorda per aver girato un thriller di buona fattura come La ragazza dal pigiama giallo (1977), interpretato da Ray Milland, Dalila Di Lazzaro, Michele Placido, Howard Ross (Renato Rossini), Mel Ferrer, Ramiro Oliveros ed Eugene Walter. Sceneggiatura del regista e di Rafael Sanchez Campoy, ispirata a un fatto realmente accaduto in Australia nel 1934. Il film è ambientato a Sidney. Un poliziotto in pensione (Milland) indaga sul caso del cadavere dal volto carbonizzato di una ragazza, ritrovato in un’auto sulla spiaggia. Unico indizio un pigiama giallo. Dalila Di Lazzaro (nei panni della bella Glenda) è il conturbante elemento erotico del thriller, si mostra nuda in alcune sequenze hot e divide il suo amore tra un famoso chirurgo (Ferrer), un operaio (Ross) e un cameriere italiano (Placido). La storia della donna è narrata in flashback ed è il sale del giallo che vive di momenti alternati tra passato e presente. La bella Glenda si sposa con il cameriere italiano ma non riesce a restare fedele a un solo uomo e continua a mandare avanti le altre due relazioni. A un certo punto le muore un figlio neonato che poteva rivitalizzare un matrimonio in crisi, perché il marito aveva accettato l’idea di diventare padre. Il regista mostra in rapida successione le avventure amorose di Glenda, ricorda una storia dai contorni lesbici, inserisce nudi plastici e momenti di puro erotismo. Mogherini riesce a descrivere bene il carattere libertino di Glenda, ragazza olandese abituata a divertirsi, troppo diversa dal cameriere italiano, un meridionale che perde la testa per un amore sbagliato. Il giallo ruota attorno al pigiama, a un sacco di iuta e ad alcuni chicchi di riso. Il vecchio ispettore comprende tutto e per questo motivo viene ucciso, ma riesce ad affidare a una bambina un nastro dove ha inciso la storia del delitto. Il cameriere non uccide la moglie – qui sta la sorpresa finale – ma il delitto viene commesso dall’operaio, che mette la donna nel bagagliaio della sua auto e infine la brucia. Morirà anche il marito, travolto da un autobus, in un tragico finale al cimitero, davanti alla tomba del figlio, per sfuggire alla polizia.
Mereghetti stronca senza pietà: “La sorpresa finale non basta a salvare un film sciatto e approssimativo, afflitto da caratterizzazioni penose, a cominciare da quella del glorioso Milland, all’epoca rimproverato per gesti e frasi volgari”. Non condividiamo. La pellicola è un giallo psicologico, molto morboso, a tratti crudo e violento, ma rientra a pieno titolo nella tradizione del thriller all’italiana. Molte scene estreme, soprattutto quella del cadavere immerso nella vasca di formaldeide, restano nell’immaginario collettivo. Problemi di censura per la sequenza girata in un motel che vede Glenda in fuga dal marito, ormai senza soldi, mentre si concede a due energumeni per cento dollari sotto gli occhi di un ragazzino. Ottime le scenografie, notevoli gli esterni australiani, tra cimiteri sul mare, gabbiani che volano sulla baia e spiagge renose. Le musiche di Riz Ortolani sono suadenti e intense, ma è ancora più importante la voce calda e sensuale di Amanda Lear che interpreta alcune canzoni della colonna sonora. Ottimi gli attori. Mel Ferrer è un impassibile amante calcolatore, Howard Ross uno spietato assassino vendicativo, Michele Placido un ingenuo cameriere italiano e Dalila Di Lazzaro una stupenda ribelle dagli occhi verdi. Ray Milland è un diligente ispettore in pensione, forse un po’ stereotipato, ma di gran classe. Regia ispirata che tiene saldamente in pugno le redini di un film girato in maniera moderna, a base di flashback, ricordi e parti oniriche.
Le braghe del padrone (1978) è una farsa abbastanza qualunquista che parte da un assunto fantastico. Interpreti: Enrico Montesano, Adolfo Celi, Milena Vukotic, Paolo Poli, Felice Andreasi ed Enrico Beruschi. La storia è narrata in flashback e prende il via dopo un fallito suicidio del protagonista. Enrico Montesano è un imbranato pulitore di finestre che si innamora di Milena Vukotic, ma non riesce a concludere perché non sa osare. In compenso incontra uno strano personaggio interpretato da Paolo Poli, un diavolo elegante vestito in frac, un personaggio fantastico che è la sua voce interiore, la sua parte cattiva. “Sei troppo buono e onesto. Fatti furbo!”, gli dice, mentre lo convince a prendersi ciò che vuole senza farsi scrupoli. Adolfo Celi è un credibile padrone di azienda, spietato e insensibile, mentre Enrico Beruschi è il classico impiegato senza personalità. Il duetto comico Celi – Montesano è da antologia, così come il test attitudinale per assumere il pulitore di vetri in azienda è puro cinema surreale. La storia è molto kafkiana, sia nel rapporto amoroso tra Montesano e la Vukotic, che sul posto di lavoro, dove il nuovo venuto è bistrattato da tutti e non sa cosa fare perché non possiede competenze specifiche. Interviene di nuovo il diavolo per convincere il protagonista che può spodestare il capo ufficio (Felice Andreasi) e prendere facilmente il suo posto. Mogherini vuol mostrare la carriera di un uomo inaffidabile e privo di scrupoli, che dopo uno sciopero della fame finisce per vendersi al padrone, tradendo compagni e ideali. La rapida scalata sociale fa impazzire Montesano che finisce in manicomio, ma quando viene dimesso vede ancora il diavolo che lo convince a recarsi a Torino per tentare la scalata della Fiat. Jimmy il Fenomeno è perfetto nella consueta parte da pazzo. Mogherini tenta una satira al potere e all’arrivismo, usando il mito del Faust che vende l’anima al diavolo. Montesano è bravissimo e regge da solo l’intero impianto comico. Al solito la critica alta stronca senza pietà le ambizioni di Mogherini, resta il solo Pino Farinotti a concedere due stelle e un giudizio di sufficienza a un prodotto di rapido consumo. Parte sexy molto modesta, limitata a un rapporto erotico appena accennato tra Montesano e la Vukotic. Il pubblico gradisce.
Per vivere meglio, divertitevi con noi (1978) è commedia composta da tre episodi dotata di buoni elementi erotici, che segna il ritorno di Mogherini a dirigere Renato Pozzetto. Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto sono anche sceneggiatori di una pellicola che si salva per una regia ispirata, ma le storie non sono molto sofisticate.
Un incontro molto ravvicinato (Monica Vitti) racconta le vicissitudini di una contessa violentata per settantaquattro giorni da sette sherpa dell’Himalaya, ammalata di fallofobia, che guarisce dal trauma dopo l’incontro con un affascinante extraterrestre. Il tono è comico – fantastico, ma la recitazione sopra le righe di un’ottima Monica Vitti rende credibile una storia assurda. L’uomo venuto dallo spazio vuol sapere come si riproducono i terrestri, rifiuta proposte alternative e finisce nel letto della contessa, che non solo si sblocca dal trauma ma ci prende gusto. A questo punto veniamo a sapere che non si è trattato di un vero incontro ravvicinato ma era un trucco organizzato dal marito per far guarire la moglie. Il problema è che la contessa, innamorata persa del fascinoso extraterrestre, continua a non volerne sapere di far l’amore con il marito. Preferisce attendere un improbabile ritorno del marziano per rivederlo ancora.
Il teorema gregoriano (Johnny Dorelli e Catherine Spaak) affronta il tema della gelosia e presenta il personaggio di un marito spinto dagli amici a mettere alla prova la fedeltà della bella moglie. L’ambientazione è provinciale, siamo in un imprecisato paese sul lago, scenario tipico di un romanzo di Piero Chiara. Dorelli è un assicuratore che ascolta i discorsi qualunquisti di un collega sul conto delle donne e comincia a tormentare sessualmente la moglie (Spaak) fingendosi un misterioso innamorato. Il marito tende diverse trappole alla donna, fa telefonate erotiche notturne, le regala una spilla di valore (che lei butta nel secchio), infine la ricatta con la finta storia del marito corrotto e la spinge ad accettare un appuntamento in albergo. La moglie acconsente, ma solo per far fuori definitivamente il persecutore a colpi di pistola. Il marito non muore, ma si ritrova all’ospedale a dover giustificare i suoi comportamenti dettati dalla gelosia, mentre la moglie finisce sotto processo e viene difesa da un bel legale che potrebbe concretizzare gli incubi del marito. Il tono della pellicola è da commedia degli equivoci, recitata con bravura dai protagonisti e girata con stile raffinato. Una stupenda Catherine Spaak garantisce un minimo di situazione erotica e si ricorda per uno strip al contrario in una bella mise composta da candida lingerie. Johnny Dorelli realizza una versione in salsa erotica del mito del dottor Jekill e Mister Hyde, perché finisce per vivere uno sdoppiamento della personalità.
Non si può spiegare bisogna vederlo (Renato Pozzetto, Milena Vukotic) racconta la storia di uno scommettitore che compra un cavallo con cui spera di fare soldi a palate. Il tono è surreale sin dalle prime sequenze quando vediamo un uomo salire le scale di un condominio con una sedia in mano per mettersi a vedere il film che il regista sta girando. Renato Pozzetto porta ancora una volta al cinema il suo personaggio da milanese ingenuo e spiantato, questa volta fissato con l’ippica e con le corse dei cavalli.
I primi due episodi sono puracommedia sexy di serie B, salvati in ogni caso da una regia raffinata, da attori di buona levatura e da storie che garantiscono un puro divertimento. Il terzo segmento è cabaret, commedia surreale, comicità alla Renato Pozzetto, originale e composta di momenti che sembrano pura improvvisazione.
Per favore, occupati di Amelia! (1981) è ancora commedia sexy molto commerciale, liberamente tratta dalla nota pochade Belle Époque di Georges Feydeau, nella versione di Noël Coward, e sceneggiata dal regista con la collaborazione di Luis Castro e Marcello Coscia. Interpreti: Barbara Bouchet, Renzo Montagnani, Gianni Cavina, Leopoldo Mastelloni, Mario Carotenuto,Toni Ucci, Aldo Giuffrè, Enzo Cannavale e Africa Prat. La bella Barbara Bouchet è una prostituta d’alto bordo (oggi si chiamerebbe escort), mantenuta da un palazzinaro romano (il tema è modernissimo!), suo padre traffica con gli arabi e il fratello è un travestito. Per una serie di equivoci, Amelia viene ritenuta da un vescovo e da un emiro arabo, la moglie del migliore amico del suo amante. Pura pochade a base di equivoci, scambi di coppie, fughe negli armadi e sotto i letti, doppi sensi, volgarità gratuite, ma divertenti. Mereghetti stronca senza pietà: “Solo scempiaggini e doppi sensi”. Il pubblico apprezza la comicità irriverente ed eccessiva di Renzo Montagnani, ma anche le grazie di Barbara Bouchet che vengono esposte con generosità.
I camionisti (1982) è un film scritto da Vincenzo Mannino e Gianfranco Clerici che lo sceneggiano insieme allo spagnolo José Vincente Puente. Ci sono le suggestive musiche di Riz Ortolani ma non bastano a rivitalizzare la prima deludente interpretazione di Gigi Sammarchi e Andrea Roncato, bravi comici televisivi ma inefficaci sul grande schermo. Daniela Poggi è la benzinaia Ofelia, che fa innamorare Andrea e mostra le sue abbondanti grazie con leggerezza, conferendo elementi sexy a una pellicola strampalata. Il rapporto tra la Poggi e il camionista Andrea genera una serie infinita di gelosie e ripicche con Gigi, perché la ragazza è bella e desiderabile. Gigi è un nobiluomo che per corteggiare la ragazza si trasforma in un borgataro e le fa una corte serrata. Per Mereghetti siamo in presenza dei “soliti doppi sensi e trivialità di quart’ordine caratteristici della comicità di Gigi e Andrea”. Farinotti rincara: “Scempiaggine volgarotta e neanche divertente”. Non possiamo dargli torto, però Daniela Poggi è credibile e ben calata nella parte, oltre al fatto che vederla seminuda è una gioia per gli occhi. Fanno parte del cast pure Luciana Turina e Giorgio Bracardi. Flavio Mogherini ha comunque il merito, dopo aver portato al cinema la comicità surreale di Renato Pozzetto, di tenere a battesimo la coppia Andrea Roncato e Gigi Sammarchi, altrettanto poco cinematografica. Il pubblico assolve la pochezza della storia e si concentra sul divertimento puro – che rivisto oggi rasenta il trash – assicurato dal duo comico romagnolo. Siamo nel periodo decadente della commedia sexy, la televisione impera, il cinema popolare sta chiudendo i battenti. Non si può pretendere troppo.
Sbirulino (1982) è un film sul personaggio televisivo creato da Sandra Mondaini che riscuote un grande successo tra i bambini. Niente di più lontano dal cinema erotico e dalla vecchie ambizioni felliniane di Mogherini. Interpreti: Sandra Mondaini, Gianni Agus e Sergio Leonardi. Sbirulino, il bambino – clown che vive nel paese immaginario di Sottocielo, lascia la sua campagna per andare a vivere a Roma. La pellicola – dedicata a un pubblico infantile – è la narrazione delle disavventure fanciullesche del piccolo clown, che in ogni caso rimedierà alla serie infinita di pasticci e tornerà a vivere nella sua adorata campagna. Mereghetti si rifiuta persino di parlare del film, mentre Farinotti e Morandini concedono appena una stella.
La ragazza dei lillà (1986) è una modesta pellicola avventurosa interpretata da Laurent Terzieff, Mimsy Farmer, Mario Adorf e Britt Bergman. Mogherini affronta una tematica nuova e poco nelle sue corde con una storia di tombaroli e di archeologici idealisti alla ricerca di una necropoli etrusca. Ci sono pure elementi fantastici costituiti dagli spiriti dei sovrani etruschi, ma niente di erotico.
Flavio Mogherini conclude la carriera con Com’è dura l’avventura (1987), una deludente farsa interpretata da Lino Banfi, Gastone Moschin e Paolo Villaggio. Il cast sarebbe buono, ma Villaggio è ormai spremuto come un limone e il suo personaggio risulta miseramente ripetitivo. Lino Banfi recita con poca verve, sembra volersi allontanare dalla farsa e dalla pochade. Gastone Moschin è il migliore, ma la storia non lo aiuta, anche se nei panni del cattivo conferma grande classe. Moschin è un perfido industriale che vuol affondare una vecchia nave per riscuotere l’indennizzo assicurativo, ma i malcapitati che dovranno andare in Africa a compiere la maldestra azione sono Villaggio e Banfi. Ci sono anche Flavio Bucci e Alessandro Haber per un film dai tempi dilatati che vorrebbe essere una satira del cinema avventuroso. Poco successo di pubblico e critica indifferente. Mereghetti trascura la pellicola, mentre Morandini e Farinotti concedono due stelle.