Giotto e Dante sono i maggiori fabbri del nostro volgare, del volgare europeo. Dante e Giotto si incontrano nella figura del Poverello d’Assisi (M. Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in dante e Giotto, Adelphi) e ne tessono un ritratto a «tinte forti» che segna assieme alla nascita e al consolidamento delle nuove città, di nuove lingue anche quello dello spirito di una nuova Europa.
Nel 2005 il Parlamento italiano ha indicato il 4 ottobre quale «solennità civile e giornata per la pace, per la fraternità e il dialogo fra le religioni». Il 4 ottobre rappresenta un’occasione per continuare a proporre, a ridestare gli ideali del Poverello d’Assisi, le sue forti scelte di vita, l’amore per il dialogo con la Natura, gli animali (uccelli, “lupo”, ecc.) e gli uomini. Ideali, virtù che il ««grande narratore» Giotto, negli anni, all’incirca, tra il 1296 e il 1300, interpetra, espone, esalta, dipinge nelle pareti della Basilica Superiore.
A leggere per e con noi i volumi, i colori di Giotto è l’artista e docente Massimiliano Ferragina (https://ferraginart.onweb.it/it). Un «sapiente erudito del colore» che nelle sue opere testimonia e dona vita a idee, identità, sentimenti umano-religiosi. La sua arte e poetica terapeutica accompagnerà i nostri occhi, le nostre anime nello spazio di opere fondamentali che ri-velano l’esistenza del Fattor che è – come canta Francesco – «Amore, il Vero, Umiltà, Sapienza, Bellezza».
D.: Nei volumi, nelle linee, nei colori della Basilica di san Francesco Giotto innalza non solo una fabbrica ma soprattutto un monumento-patrimonio di umanità, un cammino affine a quello dantesco alla ricerca della salvezza, della felicità? Quale lezione questo monumento-patrimonio offre oggi a noi in questo tempo difficile, malato, violento, di guerra?
R.: Giotto è lui stesso un monumento di umanità, patrimonio di tutti noi. Ha fatto della sua vita “strumento” citando Francesco d’Assisi, per insegnarci a cambiare visione delle cose. E lo ha fatto per immagini. E lo ha fatto con la consapevolezza che queste immagini avrebbero parlato ai posteri. Ha dato alla pittura potere simbolico tramite il colore ed allo stesso tempo ha intuito che i personaggi da lui immortalati dovevano trasmettere emozioni. Un cammino che Giotto stesso seguiva, forse inconsapevolmente, la via pulcretudinis. Una via oggi difficile da intravedere all’orizzonte. Soffriamo molto l’abbrutimento dell’essere umano, il capovolgimento dei valori fondanti, l’inneggiare alla violenza a discapito del dialogo e dell’incontro. Lo scontro, prima di tutto, in ogni ambito. Giotto, come Francesco, come Dante oggi rimangono modelli distanti ma paradossalmente attualissimi. I padri dell’Umanesimo che tornano a dirci di riporre l’uomo e la donna al centro della riflessione, riscoprendo le nostre origini culturali, storiche, artistiche. Non si tratta di “resuscitare le cose morte” come sosteneva Machiavelli nel suo Arte della guerra, ma si tratta di “suscitare cose vive”. Inneggiare alla vita, difenderla, tutelarla, restituendole il valore sacrale che ha perso. L’arte, gli artisti, gli intellettuali, i maestri dovrebbero sentirsi investiti di questa unica possibilità che abbiamo di riscatto.
D.: Qual è la stata la prima immagine di Giotto che da piccolo hai scoperto per caso, amato, disegnato e copiato? Quali affreschi delle Storie di Francesco di Giotto sono, o sono stati, la casa, l’ispirazione della tua arte?
R.: La primissima immagine di Giotto che ho scoperto davvero per caso, visitando la Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma, è stata quella che ritrae papa Bonifacio VIII nell’atto di proclamare il Giubileo del 1300. Si tratta di un affresco sconosciuto ai più, frammentario, staccato, attribuito a Giotto, si dice facesse parte di un vero e proprio ciclo collocato nella loggia papale della stessa basilica. Mi commuove ogni volta che passo davanti a questo frammento giottesco, nascosto, al buio della navata laterale di destra, quasi divorato dalla maestà della basilica, allo stesso tempo testimonianza solenne di una Chiesa antica e sempre nuova. Ho avuto desiderio di farlo conoscere, infatti porto “in pellegrinaggio” i miei studenti del liceo artistico, unica traccia di Giotto a Roma.
Degli affreschi di Giotto dedicati a San Francesco mi ha sempre ispirato e rapito particolarmente l’episodio di Francesco che dona il mantello al povero. Il mantello per un uomo medioevale rappresentava il suo status sociale ed economico, era simbolo del suo potere e della sua ricchezza. Fino a San Francesco si raccontava la storia che san Martino aveva donato metà del suo mantello al povero, quindi aveva diviso le sue ricchezze con i poveri, Francesco, come riporta Giotto a testimonianza, non dona metà del suo mantello, ma il mantello intero, dona totalmente le sue ricchezze ai poveri, superando san Martino. Francesco dona tutto il suo essere e non solo aiuta il povero, ma si fa povero! Ecco, Giotto dipinge questa scena che sintetizza la santità di Francesco e testimonia una Chiesa nuova, che si dona senza nulla per se stessa. In pratica anticipa di secoli quello che è oggi la Chiesa di papa Francesco.
D.: Davvero il nostro Rinascimento è iniziato con il binomio Giotto-Assisi. Forse questo inizio si potrebbe localizzare nell’affresco Francesco benedice gli uccelli. In Assisi, canta Dante, nasce un sole. Quanto di questo sole oggi abbiamo bisogno in ogni ambito della nostra esistenza?
R.: In un tweet di papa Francesco si legge: “Gesù è il sole, Maria è l’aurora che preannuncia il suo sorgere”. Credo che se Giotto avesse letto queste parole sarebbero nati affreschi incantevoli. Abbiamo bisogno, a mio parere, di riscoprire quanto bella e luminosa sia la fede cristiana, che libera, che risolve, che pacifica, che azzera, che educa ad amare gratuitamente, che rifugge il male, che accoglie e accudisce, che scalda, che accompagna, che perdona. La fede cristiana è fondante un’etica nuova, concreta e non formale. Ed abbiamo un bisogno urgente di bene concreto, di amore concreto, di mani che stringono mani, e non di ideologie. L’imperativo etico che genera la fede nel “sole” Gesù Cristo è amare gli altri come noi stessi, ed amare gli altri per amare Dio ed essere ri-amati, in una splendida locuzione latina per ipsum et in ipso, cum ipso.
D.: Giotto, è tra i primi o forse il primo, che dipinge e colora le rughe sui visi degli uomini e delle donne delle città. Gli occhi negli affreschi di Giotto sono occhi vivi che guardano, sono gli occhi di quella stessa umanità che ritroviamo sia Commedia, nel Decameron. Occhi che scoprono la verità dell’esistenza umana del dolore, del dono, ecc. Gli affreschi di Giotto sono un miracolo del patrimonio artistico italiano ed internazionale e non solamente figure di miracoli?
R.: Gli occhi delle figure di Giotto sono tagli. I tagli di Lucio Fontana mi verrebbe da dire, anticipato di mille anni. Tagli che superano l’immagine o l’opera e colpiscono direttamente la pancia. Sono rughe, sono segni del tempo, solchi, sono piaghe, sono cicatrici, sono fessure, sono ferite nelle quali infilare le dita dell’incredulo. Gli occhi disegnati da Giotto, dolorosi e sottili quasi come fossero incisi da un bisturi, sono luoghi. In essi si cammina dal buio alla luce. Sono luoghi di passaggio. Si supera la superfice scura per entrare nella luce e riscoprirsi vivi. Forse dovremmo guardare il mondo con questi occhi e vederne veramente tutto il dolore, per essere consapevoli che il dolore non è solo un film in TV o un reportage al telegiornale, ma è verità. Con una vera consapevolezza forse gli stessi occhi drammaticamente segnati come tagli potrebbero diventare “porte” per una nuova speranza di vita.
D.: Gli affreschi di Giotto e della sua scuola sono ventotto riquadri compiuti in solo duecentosettantadue giorni. Un lavoro della durata di meno un anno per colorare la vita di un Uomo che sfugge a qualsiasi definizione. L’arte contemporanea è capace di dare colore alla nostra Vita? O quanto colore l’Uomo di oggi sta perdendo nella sua vertiginosa e velocissima esistenza?
R.: L’arte contemporanea è capace di tutto. E’ un’arte che ha infiniti strumenti ed infiniti linguaggi. Il vero problema sono gli artisti contemporanei! Lo dico con tono provocatorio. Gli artisti contemporanei che si destreggiano tra “fenomeno” e “talento”. Artisti ingabbiati in logiche propagandistiche e capitaliste. Artisti provocatori senza pro-vocazione. Artisti svenduti al mercato. E tante, tante altre dinamiche anche complesse da descrivere. L’artista contemporaneo dovrebbe avere una sola mission, profetizzare il Buono, il Bello, il Vero. Quando uso il verbo “profetizzare” lo uso come se dicessi “educare”. L’educatore artista, profeta di valori. Valori che non sono mai separati, ma intrecciati, e che sostengono le azioni umane. Gli artisti hanno sempre avuto un ruolo centrale nella storia dell’umanità, oggi tanto quanto ieri, se non forse di più. Dovrebbero avere una nuova visione, invece viviamo una crisi d’identità e di valori che trascinano l’agire in un buco nero di inconsistenza e non sense. Ovviamente questa riflessione è assolutamente personale ed esclude una minoranza di artisti impegnati e seriamente partecipi e protagonisti nell’educare alla bellezza. Pio XII aveva già intuito questo ruolo dell’artista contemporaneo e ripropongo delle sue parole illuminanti, per me come per molti, immagino. Pio XII diceva così: avete compreso il dovere che v’incombe, e avete voluto di fronte ad una cultura senza speranza, considerare l’arte come sorgente di una speranza nuova, specie in ordine alla funzione dell’arte nell’opera di pace. Ecco! La parola che chiude ed apre tutta la questione: pace. Per colorare la vita odierna, vertiginosa e velocissima, basterebbe un progetto comune di pace, artisti che agiscono in nome della pace, i frutti di questo progetto li lascio alla vostra immaginazione.