di Pietro Salvatore Reina e Armando Giardinetto
Il 20 luglio 1304 nasce, ad Arezzo, Francesco Petrarca, il «padre» della cultura europea moderna. Grazie al suo Canzoniere (meglio, Rerum vulgarium fragmenta) ispira tutta la lirica occidentale fino ai giorni nostri.
Infatti, già sul finire del Trecento si fa strada, non solo in Italia, una nuova concezione letteraria o, per usare un termine da letterati, un fenomeno letterario, chiamato Petrarchismo, che fu l’imitazione della poesia di Francesco Petrarca ad opera dei grandi intellettuali del Quattrocento e, soprattutto, del Cinquecento. Il cardinale e poeta Pietro Bembo (XVI sec.), per esempio, dichiara la lirica petrarchesca del Canzoniere come il modello linguistico da seguire, soprattutto per chi voleva scrivere d’amore. D’altra parte, sempre nel Cinquecento, il Petrarchismo diventa proprio un modello di vita, specialmente nella sfera sentimentale, una sorta di norme comportamentali da seguire o, per meglio dire, un vero e proprio galateo da rispettare.
Uomo irrequieto, fortemente distante dalla cultura medievale del suo tempo, Francesco Petrarca, filologo, scrittore, poeta umanista del XIV secolo, volle dirigere il suo sguardo al passato prendendo in considerazione la letteratura classica, tanto da scrivere, in alcuni casi, delle vere e proprie lettere indirizzate ai celeberrimi scrittori dell’antichità: Virgilio, Orazio, Omero, Seneca, Cicerone: «A Marco Tullio Cicerone, dal mondo dei viventi, sulla riva destra dell’Adige, nella città di Verona… il 16 di giugno dell’anno 1345 dalla nascita di quel Dio che non conoscesti. Francesco saluta il suo Cicerone. Trovate le tue lettere dopo molte lunghe ricerche… le ho lette…», pezzo tratto dalla lettera che Petrarca scrisse a Marco Tullio Cicerone, per fare un esempio, dopo aver trovato in una biblioteca delle lettere antiche scritte proprio dell’oratore romano.
Rispetto a Dante Alighieri, Francesco Petrarca incarna una religiosità̀ più intima e tormentata. Egli è un uomo, un intellettuale, un «inquieto pellegrino del mondo», contraddistinto dall’incertezza e dal dubbio, sempre alla ricerca di una verità, che sfugge, e che cela nell’intimo dell’anima. Un uomo più incline a porsi domande che a distribuire risposte.
Grande appassionato del pensiero poetico e filosofico di Sant’Agostino d’Ippona, un pensiero molto importante che vede uniti elementi come la mente, il corpo, il sentimento, lo spirito, la fede. In De secreto conflictu curarum mearum (Riguardo al segreto conflitto delle mie angosce), conosciuto più comunemente come Secretum, (1347-1343), infatti, Francesco Petrarca dialoga proprio con il vescovo d’Ippona, il quale spinge l’autore ad interrogarsi sui propri peccati, soprattutto su quello dell’accidia, intesa come una sorta di depressione: «Tu sei preda di una terribile malattia dello spirito, che i moderni chiamano accidia… Solo il nome mi spaventa. Ovvio, ne sei afflitto da tanto tempo e gravemente… Questo flagello, invece, mi ghermisce, a volte, così tenacemente da tormentarmi… per giorni e notti intere. Allora per me non è più tempo di luce e di vita, ma oscurità di inferno… e mi nutro… di lacrime e dolori… e questo si può ben definire il massimo delle miserie che me ne stacco a malincuore». Molto sentite sono, perciò, l’etica e la morale che emergono prepotentemente: lo scopo finale del Secretum è cercare di portare l’anima fuori da ogni vizio attraverso le virtù tanto che, per Petrarca, «padre e precursore dell’umanesimo, è proprio colui che non solo scrive di etica, ma la mette in pratica nella vita reale e quotidiana. Petrarca sceglie come interlocutore Agostino proprio perché ama studiare le Confessioni, in cui il Santo si interroga sulla sua condotta mondana e sulla sua conversione al Cristianesimo. Sant’Agostino, d’altra parte, è una figura topica in tutta la letteratura medievale italiana e soprattutto in Petrarca, tanto è vero che anche il vero titolo del Canzoniere, Rerum Vulgarium Fragmenta (frammenti di cose volgari), ripercorre un’idea del vescovo d’Ippona, secondo cui scrivere non è altro che mettere insieme i pezzi della propria esistenza.
A Petrarca – lo abbiamo sopra accennato – è attribuita la paternità dell’Umanesimo, avendo posto al centro di tutto l’essere umano e avendo preso in considerazione i testi classici senza l’interpretazione allegorica cristiana come, invece, avveniva in Dante, «riscoprendoli nella loro più integra originalità» (G. Ferroni). Per questo motivo viene rigettato il concetto di teocentrismo (tesi sostenuta nel medioevo), e viene adottato quello dell’antropocentrismo: l’uomo – con tutte le su caratteristiche umane più che razionali, quali l’onestà, il rispetto, la fedeltà, la solidarietà, l’amore per il sapere, che deve essere coltivato perché possa servire ad accrescere la morale negli uomini e nelle donne – viene messo al centro di tutto. In effetti, per l’Aretino, l’otium è importantissimo se non necessario: l’intellettuale, secondo Petrarca, deve ritirarsi dal mondo, senza nessuna distrazione, per studiare e maturare concetti legati alla morale e all’etica che poi vanno trasmessi per il benestare di tutta la società. Eppure Petrarca, si sa, ha girato tutta l’Italia e poi l’Europa, in lungo e in largo, ma soprattutto è stato ospite di grandi signori del suo tempo; ha vissuto in grandi palazzi signorili e si è seduto alle tavole meravigliosamente imbandite delle corti, tuttavia scriverà al suo amico Giovanni Boccaccio: «Tu rilevi che ho sprecato gran parte del mio tempo alla corte dei signori… voglio che tu sappia la verità. Sono vissuto apparentemente con i potenti, in realtà… mai intervenni ai loro consigli e molto raramente ai loro banchetti. Non mi sarei mai potuto adattare ad un sistema… che mi privasse anche un po’ della mia libertà o mi distraesse dai miei studi», volendo sottolineare che la cultura aveva bisogno, volente o dolente, di un mecenate.
Francesco Petrarca, infine, è il primo vero bibliofilo della storia. La sua biblioteca è un’eccezionale collezione di manoscritti (quasi 300!). La più importante biblioteca del suo tempo in cui raccoglie ed incastona e «mette a scaffale» i frammenti del sapere, della vita, dell’amore raccolti e trascritti sulla carta ma soprattutto nel suo corpo umano e letterario.
Francesco Petrarca muore il 19 luglio del 1374 ad Arquà, poche ore prima del suo settantesimo compleanno, mentre studiava, con amore e passione, un testo del «maestro» Virgilio.