Funzioni e importanza dell’oralità favolistica e fiabesca

Articolo di Filippo Scimé

La finalità della narrazione, sin dai tempi del Cantico delle Creature, è quella di attribuire significati a tutto ciò che ci circonda e alle esperienze vissute nel percorso umano lambisca il divino. Alcune discipline, come scriveva Umberto Eco, tra le quali annoveriamo epistemiologia, antropologia, storia, sociologia, neuropsichiatria, hanno provato a mettere in luce l’importanza della narrazione come strumento indispensabile per la costruzione di significati, facilitando processi di cambiamento sociale e organizzativo per l’apprendimento, perché il punto di vista narrativo è connesso al modo in cui i soggetti attribuiscono significato agli eventi e alla realtà. Nella storia evolutiva dell’uomo il narrare ha risposto – e continua a farlo – a una necessità profonda e primordiale. È un concetto trasversale all’oralità e alla scrittura.

La narrazione possiede nella sua connotazione primordiale diversi scopi “proficui” nella pratica educativa tra i quali l’analisi del mondo interiore degli individui, dato che l’essere umano in genere si racconta all’altro anche attraverso le storie personali impresse nel suo io. Narrare, infatti, consente di esplorare esperienze individuali e collettive, situazioni problematiche di difficile interpretazione permettendoci di decostruirne e ricostruirne il significato culturale e sociale. Dunque è logico che tale attività (intesa nella sua duplicità di lettura e scrittura) possa essere pienamente costruita solo ed esclusivamente nel campo scolastico (ed eventualmente rafforzata in quello interpersonale) e che si possa, al contempo, riconoscere nel genere specifico una forza inconsueta, non considerandola un semplice riempitivo della programmazione didattica, quotidiana o annuale. All’interno dell’azione scolastica credo quindi che la narrazione della fiaba aiuti a recuperare la dimensione del senso e del significato della vita nelle sue norme etiche e civili, perché l’educazione non è avulsa dal contesto sociale e culturale, anzi essa esiste, promana la sua forza ben oltre limiti visibili, e si struttura all’interno di essa; e per di più funge da comune denominatore che organizza le conoscenze (o le “coscienze” a seconda della maturità del lettore) e supporta le pratiche educative scolastiche. Infine essa oltre a favorire lo sviluppo linguistico e cognitivo, aiuta gli alunni a riconoscere e verbalizzare le emozioni vissute, aiutandoli a costruire un vocabolario di sentimenti che possono illustrare le diverse emozioni umane (ira, paura, tristezza).

Ma perché proprio la fiaba? È indubbio che le fiabe accelerino il processo di crescita che secondo Bruno Bettelheim, autore di un’opera sublime Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, è insito nel significato stesso del genere: “la fiaba ha un ruolo catartico perché è una forma di narrazione radicata nella tradizione popolare, a cui viene riconosciuto il ruolo formativo per il bambino”.  La lettura fiabesca (ma non si dispensi da tale analisi quella favolistica che raggruma la sapienza classica alla quale sarà dedicato un medesimo spazio), sprigiona la sua forza quando ha un’attuazione pratica del racconto, virando al ritorno ancestrale dell’oralità, quale modo per instaurare un rapporto sociale senza differenze o diversità, ma con forti inclusioni.

Raccontare fiabe ai bambini dovrebbe essere imprescindibile per tutti le persone che rientrano nelle categorie di educatori, non solo perché l’attitudine a leggere a scrivere favorisce una gradualità propedeutica al passaggio verso l’età evolutiva, ma soprattutto finalizzata al continuo miglioramento delle sue abilità cognitive, emotive e relazionali. Pertanto l’utilizzo “sensato” della fiaba a scuola, implementato attraverso tutte le forme garantite dalla scibile informatico (riproduzione filmati audio, video, audiolibri, libri pop art, et similia), può garantire la costruzione di un piccolo patrimonio a uso e consumo del bambino di oggi e dell’adulto di domani. Non è suddividendo il mondo in categorie che semplifichiamo i problemi, anzi perdiamo passaggi, soluzioni, alternative che possono esserci utili.

Testimonianza lapalissiana delle mie riflessioni è senz’altro l’opera di Carlo Collodi, della quale credo non si possa ignorare la valenza pedagogica ed educativa. Sto parlando di un’opera (le cui accezioni di romanzo, fiaba, favola non sarebbe del tutto inesatte) in grado di lasciare un segno evidente nella storia, nel costume e nelle tradizioni del popolo italiano: Le Avventure di Pinocchio. Storia di un Burattino. Nonostante la pubblicazione rimandi al 1883, quindi al ventennio successivo l’unità d’Italia, il pregio che quest’opera, travalicando i tempi, racchiude è la capacità di essere attuale, innovativa, sia come opera di intrattenimento puro, che come strumento puramente pedagogico e finemente educativo per la cifra stilistica modellata interamente sul macrocosmo umano. Pinocchio, da lungo tempo, è entrato a far parte dell’immaginario collettivo; fa parte delle nostra cultura educativa ed è parte integrante anche nell’uso linguistico basti pensare alle comuni espressioni: “se dici le bugie ti cresce il naso”, che detto dai nostri genitori era il rimprovero per eccellenza, o ancora “paese dei balocchi” allegoria del divertimento che sottende amare conseguenze, o essere “come il gatto e la volpe” alludendo al binomio di due persone inseparabili e poco raccomandabili. Pinocchio rappresenta il personaggio della letteratura italiana che in maniera più netta è uscito dalla pagina scritta per abbracciare la quotidianità, anche quella odierna fatta di webeti.

Se pensiamo alla percezione infantile dello svolgersi delle avventure di Pinocchio, cioè agli aspetti più “crudeli” innestati tra le pagine, che rimestano un indefinito senso di maturità ancora in boccia, constatiamo che l’umana genie di lettori abbia ereditato la cattiveria, il senso di paura, che ovviamente agli occhi di un bambino risulta essere più macabra di quello che in realtà è. Il processo di trasformazione da pezzo di legno a burattino, è la scintilla che dà avvio alla narrazione, ma in fondo, psicologicamente, non è altro che la brillante constatazione delle unicità dell’alunno. È proprio quel senso di autonomia, di libertà che lo farà accedere allo studio in maniera libera, sconsiderata, senza metodo (un Pinocchio in mille disavventure, e noi con lui).

La riflessione che si pone in merito all’opera è speculare a una metodologia didattica ai fini di un’inclusione, perché l’opera conosce diversi linguaggi, diverse trasformazioni, diversi appigli per garantire un insegnamento trasversale di tutti i tipi, di tutte le forme, in tutte le lingue. Senza dimenticare, tuttavia, il percorso pedagogico dei personaggi che si avvicendano di pagina in pagina lasciando qualcosa a Pinocchio, e di conseguenza al lettore, una lezione da imparare, un errore da non rifare. Agli occhi immaturi di un bambino (e di un adulto di qualsiasi età), l’opera appare assai superficiale, ma pur sempre una “fiaba”, un motivo per ingannare i giorni e null’altro. È solo crescendo che si apprende l’importanza di questo libro, e il ruolo che ha all’interno della letteratura.

Con l’ingenuità di un fanciullo, Pinocchio, rispecchia esattamente la volontà di autonomia e la voglia di divertirsi di tutti i bambini, quella voglia di fuggire dagli impegni e dai doveri, gli obblighi sociali (i rapporti con gli amici), didattici (la scuola, i doveri, le scadenze), a costo di ritrovarsi in situazioni critiche. L’insegnamento che ci trasmette Pinocchio ha dietro una filosofia molto semplice; il legno, diceva Benedetto Croce, in cui è tagliato Pinocchio è l’umanità. Attraverso le avventure del burattino e i suoi sbagli capiamo quali errori sono da non ripetere, cosa che invece Pinocchio farà svariate volte, spesso scatenando un sentimento di odio o incredulità: e Pinocchio è anche questo; è efferato, crudele, e privo di creanza nei confronti di una paternità che non ha scelto, non ha voluto, ma per la quale è stato educato e costretto a ricordare che, inevitabilmente, la maturità è fugace e si riacquista solo dopo tanto esercizio, tanta fatica, tanto dolore, tante lacrime: è catarsi dunque, redenzione del male che conduce al bene. Ogni ostacolo a cui andrà incontro Pinocchio avrà un premio se superato, o una punizione, se ignorato. Insomma Collodi ha creato un prototipo capace di rappresentare il bambino che tutti noi, da piccoli, avremmo voluto essere ma che, grazie a lui, abbiamo vissuto (e quasi già preventivato le nostre cadute), senza andare incontro a tutte quelle disavventure a mente leggera. O forse no?

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