Nei giorni scorsi la Germania ha riconsegnato due bronzi del Benin (e ha promesso che farà la stessa cosa con più di 1.000 altri oggetti dalle collezioni dei suoi musei nella proprietà della Nigeria, oggetti portati, via (ma il termine più corretto sarebbe rubati) decenni fa durante i saccheggi dei soldati britannici. Il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, e il ministro della Cultura, Claudia Roth e le rispettive controparti nigeriane, Zubairu Dada e Lai Mohammed, hanno firmato un accordo che prevede la restituzione. “Il ritorno è una pietra miliare nel processo di rivalutazione dell’ingiustizia coloniale nel campo delle collezioni museali”, ha affermato Hermann Parzinger, capo della Fondazione per il patrimonio culturale prussiano, un’autorità che sovrintende a molti dei musei di Berlino. “Trasferendo completamente la proprietà di tutti i nostri manufatti del Benin in Nigeria, stiamo compiendo un passo significativo”. Alcuni temono che possa trattarsi solo di una “mezza” restituzione. Solo una parte tornerà in Nigeria. La gran parte di queste opere d’arte dovrebbero rimanere esposti in Germania (in base ad accordi di “custodia”).
Mohammed ha parlato dell’accordo come del “più grande rimpatrio conosciuto di manufatti al mondo” e ha esortato altre istituzioni in tutto il mondo a prendere spunto dalla mossa della Germania. Dada ha parlato di “uno dei giorni più importanti nella storia della celebrazione del patrimonio africano”.
“Oggi abbiamo motivo di festeggiare perché abbiamo raggiunto un accordo sui bronzi del Benin”, ha detto Baerbock, del partito dei Verdi tedeschi alla firma. “È stato sbagliato prendere i bronzi ed è stato sbagliato tenerli. Questo è l’inizio per correggere i torti”.
Ma quanti sono questi “torti” e soprattutto quali sono i paesi che hanno subito i danni maggiori?
L’accordo che prevederebbe la restituzione ai nigeriani 1.100 reperti conservati presso Museo Linden di Stoccarda, il Forum Humboldt di Berlino, il Museo Rautenstrauch-Joest di Colonia, il Museo delle Culture del Mondo di Amburgo e quello delle Collezioni etnografiche statali della Sassonia, potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Dalla Gran Bretagna, solo due bronzi del Benin sono stati finora restituiti alla Nigeria, su iniziativa delle università che li avevano (una scultura di galletto del Jesus College di Cambridge e la testa di un oba dell’Università di Aberdeen). A Washington, lo Smithsonian Institution ha promesso che restituirà la maggior parte dei bronzi del Benin in suo possesso. Ma non pare che lo abbia ancora fatto. Al contrario, il British Museum, che detiene la più grande collezione al mondo di bronzi del Benin, ha detto che non rinuncerà agli oltre 900 oggetti in suo possesso, sostenendo che gli è impedito di restituire permanentemente gli oggetti in base al British Museum Act del 1963 e all’Heritage Act del 1983.
L’Italia è certamente tra i paesi al mondo ad avere il maggior numero di opere d’arte all’estero. Nel corso dei secoli, tra saccheggi, furti, esportazioni durante le guerre e vendite discutibili, decine di migliaia di quadri, sculture e arazzi sono finiti oltre confine. Molte di queste in modo tutt’altro che legale. Il problema delle opere d’arte rubate o saccheggiate e portate oltre confine non è nuovo. Circa metà delle opere razziate da Napoleone non è più tornata in Italia. Opere d’arte importanti sono rimaste in Francia e sono oggi orgogliosamente esposte al Louvre (o in altri musei). Se ne parlò addirittura anche al Congresso di Vienna, nel 1815. Ma senza ottenere molto. Ancora meno si ottenne con le opere sparite durante la Seconda Guerra Mondiale: tra i piani di Hitler la realizzazione a Linz del più grande museo del mondo. Prima ancora era stato lo Zar di Russia a godere del privilegio di scegliersi alcuni pezzi prima delle aste. Aste dove erano messe in vendita migliaia di opere d’arte di proprietà di ex nobili in cattive condizioni economiche o di faccendieri senza scrupoli (e senza controlli). Altri capolavori sono “usciti” dalle chiese di campagna, ricchissime di preziosi dipinti. Capolavori venduti, rubati o svenduti per paura (perché i curati venivano minacciati) o per superficialità o per meri interessi economici. Esemplare il caso della Madonna di Sivignano, in provincia dell’Aquila. Il parroco della chiesa di San Silvestro dove era esposta decise di venderla e di sostituirla con un falso. Ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale impedì al prete di portare a termine il proprio progetto. I compaesani, accortisi dei traffici del prete, decisero di mettere in salvo il dipinto, cambiandogli nascondiglio ogni settimana nelle case private.
Molte delle collezioni più ricche del mondo sono oggi sparse in giro per il pianeta. Capolavori appesi al muro o esposti nella casa di qualche miliardario cinese o arabo o russo o americano.
Innegabile la responsabilità politica di chi avrebbe dovuto tutelare questo patrimonio di inestimabile valore. Una responsabilità storica ben dimostrata: subito dopo l’Unità d’Italia, furono allentati i vincoli che impedivano la vendita di opere preziose (fu in quel periodo che, stranamente, l’Inghilterra acquistò la collezione Lombardi-Baldi di Firenze. Le opere alcune delle quali oggi esposte alla National Gallery di Londra, contenevano capolavori come l’Adorazione dei Magi di Botticelli). Anche durante il fascismo la situazione non migliorò: per compiacere Hitler, Mussolini gli “regalò” il Discobolo Lancellotti (oggi a Palazzo Massimo, Roma) una scultura del II sec d.C., copia romana della celebre statua greca di Mirone.
La storia d’Italia è caratterizzata dalla incapacità di valorizzare e tutelare il proprio inestimabile patrimonio di opere d’arte. Uno dei più autorevoli antiquari italiani, Bardini, pare abbia venduto circa trentamila opere di gran valore (oltre a duecentomila tra mobili e oggetti d’arredamento). Vendite che, secondo la Fondazione Alinari, comprendevano capolavori di Donatello e di Botticelli. Tutti regolarmente imballati, venduti e spediti a musei esteri (come il Metropolitan di New York) ben felici di accaparrarsi pezzi unici da esporre nelle proprie sale.
Per cercare di porre un freno a queste “esportazioni”, nel 2018, è stata introdotta una nuova legge che disciplina la circolazione delle opere d’arte e cerca di avvicinare l’Italia all’Europa. Una legge (e il successivo decreto attuativo, il n. 246/18), che si basano su tre punti cardine. Il primo è l’introduzione della “soglia di valore unica” (pari a 13.500 euro, in pratica per oggetti realizzati oltre settant’anni fa, il cui valore non sia superiore ai 13.500 euro, l’esportazione sarà possibile previa presentazione di una semplice “autocertificazione”/dichiarazione. Ma come determinare il valore del bene da esportare? C’è la possibilità, da parte dello Stato, di procedere alla “notifica” di beni sotto la “soglia” dei 13.500 euro di valore, che presentino “un interesse artistico, storico, archeologico, o etno-antropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”. Ma in questo caso, l’Ufficio esportazione dovrà seguire una tabella di marcia serrata (e non facile da rispettare). Il secondo aspetto importante è l’innalzamento da 50 a 70 anni della cd. “soglia temporale”, al di sotto della quale i beni, che siano opera di autore non più vivente, non potranno essere oggetto di provvedimenti di blocco all’esportazione (anche in questo caso rimane però la possibilità, da parte dello Stato, di dichiarare che alcune opere “presentino un interesse artistico, storico, archeologico, o etno-antropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione”). Il terzo punto interessante è l’introduzione del cosiddetto “passaporto elettronico” per le opere d’arte. Mentre per i migranti e per le persone si discute ancora sulla possibilità o meno di adoperare strumenti innovativi per il riconoscimento dell’identità (digitale), per le opere d’arte questa è già una realtà. A quale scopo? Permettere procedure più snelle e rapide (rispetto a quella sino ad oggi in vigore, risalente al 1913) per l’importazione e l’esportazione temporanea di opere d’arte. Il tutto nella speranza che una volta all’estero facciano ritorno entro i confini italiani. E quelle che sono già all’estero? Di quelle, la nuova legge non parla. Ad occuparsene dovrebbe essere l’Ufficio VI del Ministero degli affari Esteri. È il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) che “supporta le attività di recupero dei beni illecitamente sottratti al patrimonio dell’Italia e di altri paesi, svolgendo una funzione di raccordo e collegamento tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (MiBACT), il Comitato per la Restituzione dei Beni Culturali del MiBACT, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, le Rappresentanze Diplomatiche italiane all’estero e quelle straniere in Italia”. Sul sito ufficiale si parla di una “Banca Dati dei beni illecitamente sottratti, che include circa 700.000 immagini e informazioni su 1,2 milioni di oggetti, appartenenti al patrimonio dell’Italia, ma anche di paesi esteri”. Sul sito, però, non si dice quanti di questi oggetti siano stati riportati in Italia. Né dove sono in questo momento. Ma soprattutto cosa è stato fatto per contrastare questo fenomeno, questi reati. Recupero dei beni culturali illecitamente sottratti – Italiana – Lingua, cultura, creatività nel mondo (esteri.it)