Introduzione di Pietro Salvatore Reina
Il 12 marzo di centosessanta anni fa nasceva Gabriele D’Annunzio. Un uomo con due mustacchi eleganti e all’insù, la fronte alta, due occhi accesi e intelligenti, pizzetto rado. Un uomo, un poeta-vate dotato di fascino, un amante della bellezza («volle essere come Wilde, Baudelaire, come Casanova» docet Franca Angelini), un cultore della parola che il collega e amico Armando Giardinetto segue, insegue, nelle camere dell’Hotel Vesuve, nella punta di Posilippo «dove cade la sera», in una Napoli «sorta dal mare» che gli fa generare capolavori come l’Innocente e Giovanni Episcopo. Un ritratto questo del professore Giardinetto che evoca – cogliendone saggiamente sapori, profumi, respiri – il periodo napoletano della grande personalità di D’Annunzio tra amicizie, amori, conversazioni ai tavolini del Caffè Gambrinus, al ristorante «Lo scoglio» di Frisio o sotto la meravigliosa Galleria Umberto I. Da questa lettura, vien fuori tutto l’incanto e il profumo di Partenope. Grazia, armonia, energia sono incastonate e fecondate in versi e prose germinate nell’officina-laboratorio di uno scrittore che, come pochi, ha spezzato, battuto, disintegrato e creato parole. Grazie per queste parole in musica. D’altronde a Napoli essa vi regna.
“Mia dolce baronessa, non mi sarà concessa dunque una scrivania che in tutto degna sia dello scrittor famoso? […] O amica, gratia plena, non mi fate languire per quelle cento lire che l’antiquario chiede” così, la sera del 22 dicembre 1892, lo scrittore profeta, amante della bella vita – sempre troppo spesso con i soldi degli altri – scrisse alla baronessa Marianna Cassitto della Marra perché quest’ultima comprasse per lui una scrivania in stile Luigi XVI che egli aveva visto al centro di una vetrina in via Costantinopoli, nei pressi della più famosa piazza Bellini, nella città di Napoli. La baronessa non poté resistere a quella supplica scritta così tanto bene e Gabriele poté finalmente godersi lo scrittoio in stile francese dal costo di 100 L. che tanto desiderava. In un’altra occasione, invece, il trentenne scrittore abruzzese chiese dei soldi in prestito, così come anche altre volte fece, al marchese Franz Lecaldano il quale, dal canto suo, conoscendo la fama di egli, si fece portare come pegno una pelliccia che, qualche tempo dopo, venne esposta in una vetrina di uno dei tanti negozi della bellissima via Toledo. Accanto al suddetto capo d’abbigliamento fu messo un biglietto recante una frase: “Gabriele D’Annunzio, a corto di quattrini, vende questa pelliccia a prezzo di affezione”. Questi sono solo due dei tanti curiosi avvenimenti che accaddero durante il soggiorno napoletano di Gabriele D’Annunzio al quale, nel 1961, nei pressi dello Stadio oggi intitolato Diego Armando Maradona, venne dedicata una piazzetta.
Celebre intellettuale della nostra meravigliosa letteratura, scrittore, poeta, drammaturgo, militare della Prima guerra mondiale, giornalista e politico nonché primo Principe di Montenevoso, D’Annunzio ebbe con la città partenopea un rapporto assai complicato, assai interessante e assai particolare poiché qui visse, nonostante la sua disastrosa situazione economica, un periodo che egli stesso definì – o forse definito da qualche suo biografo – di “splendida miseria”. Perché e cosa significa splendida miseria? La risposta va certamente cercata nello spirito millenario della suddetta città poiché, nonostante il periodo di profonda crisi che lo scrittore stava vivendo, un periodo fatto di denunce, di processi, scandali sessuali, di depressione, di disperazione e continue fughe dai creditori che lo cercavano, all’ombra del Vesuvio D’Annunzio passò anni di vera amicizia con uomini e donne di spicco dell’epoca e di intensa produzione letteraria. Senza alcun dubbio il Pescarese, uomo fortemente superstizioso e amante dell’esoterismo e dell’occulto, si trovò bene a Napoli, capitale dall’animo antico considerevolmente enigmatico, magico e scaramantico.
Venne talmente colpito dalle bellezze della città che in una lettera del mese di settembre 1891, inviata a una delle sue numerosi amanti con la quale ebbe un amore travolgente – Barbara Leoni (morta nel 1949) – forse da una camera dell’Hotel Vesuve in cui alloggiava, scrisse: “In questi pochi giorni ho veduto mille spettacoli diversi e tutti stupefacenti… Sono stato a Posillipo, a Pozzuoli, a Baja, a Sorrento, a Capri, per mare e per terra… Sono tornato a Napoli in barca… È stata una divina navigazione per un mare divino… Alla punta di Posillipo è caduta la sera; e tutta Napoli è sorta dal mare incoronata di lumi respirando come una creatura misteriosa”. Nella città partenopea, d’altra parte, lo scrittore dell’Innocente (1892) e di Giovanni Episcopo (1892) – scritti entrambi nel cosiddetto periodo napoletano – dal 1892 ebbe l’opportunità di collaborare con Il Mattino diretto dalla sua grande e stimata amica Matilde Serao e da Edoardo Scarfoglio i quali accettarono di pubblicare i suoi scritti.
Il Vate – così chiamato per l’alto valore profetico delle sue opere che vogliono proporsi come testi che riescono a interpretare i sentimenti delle masse in quel determinato periodo storico italiano – nella calda estate del 1891 conobbe ed ebbe una liaison dangereuse (va ricordato che era sposato con la principessa Maria Hardouin) con la contessa trentenne Maria Gravina di Cruyllas di Rammacca che, però, a sua volta era già sposata al conte Ferdinando Anguissola di San Damiano a cui aveva dato quattro figli o, come dicono altre fonti, addirittura otto. I due vennero scoperti dal marito di lei in un appartamento di via Caracciolo, dove già da mesi e mesi si vedevano per dare sfogo alla loro passione amorosa, quindi furono denunciati per adulterio, tuttavia riuscirono a evitare la prigione grazie a una amnistia regia. Così gli illeciti amanti andarono a vivere al Palazzo Medici di Ottaviano, vicino Napoli, messo gentilmente a loro disposizione dalla principessa Felicita Gallone. Fu da una delle stanze fredde di questo palazzo che il poeta scrisse una lettera alla Leoni informandola, nemmeno poi con tanta chiarezza, sulla fine della loro relazione: “Sono in un tale stato di umiliazione e di sofferenza che, avendo dovuto rinunziare a tante dolci cose amate, ho rinunziato anche alla tua confidenza un tempo così consolatrice… Sono qui come un fuggiasco… vivo miseramente, sono poverissimo… In tutto questo tempo, intanto, ora non è passata che io non abbia pensato a te con amore e con infinito rimpianto, sicuro di averti perduta”. Renata, amorevolmente chiamava dal padre Cicciuzza, nata nel 1893 a Resina, fu il frutto dell’amore tra D’Annunzio e Maria Gravina, ma a un anno dalla nascita della bambina la coppia inizia ad allontanarsi tanto che, quando nel 1895 nascerà Gabriellino (1895), D’Annunzio – che aveva lasciato Napoli per trasferirsi a Roma dove aveva già conosciuto l’attrice Eleonora Duse (1858 – 1924) con la quale intreccia una tormentosa relazione amorosa – non lo riconoscerà avendo dubbi sulla sua stessa paternità.
Degna di nota del periodo napoletano è l’amicizia che il Vate strinse con Ferdinando Russo – poeta, compositore di canzoni napoletane e, secondo lo stesso D’Annunzio, vero simbolo di napoletanità – con il quale spesso e volentieri andava in giro per la città, saltellando da una parte all’altra per poi finire a mangiare – come ci raccontano alcuni testi – i favolosi vermicelli alle vongole del ristorante Lo scoglio di Frisio. Entrambi si conobbero negli uffici de “Il Mattino” e nacque tra loro una collaborazione professionale. Si racconta che un bel giorno i due si ritrovarono a chiacchierare come di consueto seduti ai tavolini del Caffè Gambrinus anche se, secondo altri, si videro nel bar di fronte alla barberia di un certo ‘O Zingariello nella Galleria Umberto I oppure, secondo altri racconti, si incontrarono al ristorante Lo scoglio di Frisio a Posillipo, fatto sta che il Russo gli lanciò una sfida mettendo alla prova la sua abilità di scrittore: scrivere dei versi di una canzone in napoletano. La sfida fu accolta da D’Annunzio e nacque la meravigliosa canzone di successo che porta come titolo “‘A Vucchella” – o Arietta di Posillipo – (1907) dedicata alla neonata Cicciuzza: “Si’ comm’a nu sciurillo, tu tiene na vucchella, nu poco pucurillo, appassuliatella. Méh, dammillo, dammillo, è comm’a na rusella. Dammillo nu vasillo, dammillo, Cannetella”. La canzone – che, secondo varie tesi, prima di essere ricopiata su un foglio fatto ritrovare nel cassetto della scrivania del Russo, fu scritta di getto con la matita direttamente sul marmo del tavolino del bar – venne musicata dal compositore abruzzese Francesco Paolo Tosti (1846-1916). Il testo presenta un neologismo che richiama alla mente due parole “passione” e “appassita” – “Appassiulatella” – forse in riferimento alla bocca della Gravina, musa ispiratrice del testo, ma le teorie proposte in merito sono molto numerose. Gabriele D’Annunzio, durante i suoi due anni e alcuni mesi di soggiorno a Napoli (dal 30 agosto 1891 al 11 dicembre 1893) scrisse delle poesie meravigliose ispirato dalla bellezza e dalla storia dell’antica Partenope. Per esempio non molto conosciuta è la poesia “Nella certosa di San Martino” – contenuta nella raccolta “Elegie romane” (1892) – in cui viene risaltato il meraviglioso panorama che si può ammirare dalla collina del Vomero, dalla quale D’Annunzio descrive perfettamente i posti dei Campi Flegrei – Pozzuoli, Baia, Miseno, Cuma, Lucrino – in una chiave di lettura anche mitologica: “E pe’ leggeri intrichi pampinei l’isole e i golfi s’intravedeano splendere: Puteoli […] Baia voluttuosa, e il tumulo ingente che Enea diede a Miseno, e l’alta Cuma che udì gli ambigui carmi fatali, e il lido lacustre che l’orme sostenne d’Ercole dietro il gregge pingue di Gerione”. Tuttavia il poeta non è solo ad ammirare cotanta bellezza, infatti dai versi della poesia si evince una compagnia femminile: “Quella che al fianco m’era — Non senti — mi disse — la nostra felicità salire? Tutte le cose belle credo io aver nel cuore. — Mi disse languendo la donna tenera. Nella bocca le rifioriano i baci”.
D’altra parte in “Poema paradisiaco” (1893) – inteso come Poema dei giardini – nella sezione Hortulus Animae, troviamo un’altra splendida poesia quasi sconosciuta che un giovane sentimentalista, malinconico, delicato e nostalgico D’Annunzio scrive mentre abitava a Ottaviano e a cui dà come titolo “Le foreste”. Dalla poesia viene fuori tutta la bellezza del paesaggio ottavianese che si trasfigura e da cui – come ci dicono alcuni studi – si capisce che l’autore era quasi certamente a conoscenza della storia del leggendario fiume Veseri citato anche in Storie di Tito Livio e da tantissimi altri storici antichi e moderni come l’ottavianese Adolfo Ranieri il quale, nel 1907, riteneva che il Veseri scorresse ancora sotto le rovine dell’antica Ottajano. Gabriele d’Annunzio compose: “Foreste bionde come donne bionde… verso i grandi cieli sognano, ove la nuvola diffonde lenta i suoi veli; bionde con un pallor roseo, quale vide il Correggio, a Acrisio, il tuo tesoro: Danae vinta da la gioviale nuvola d’oro… ma con un respiro voluttuoso… e pur qualche sospiro fievole s’ode ne l’aria vaporata ch’è si morta che non da ramo foglia al suolo cade, si che varcata sembrami la porta aver de l’Ade”.
Pare che Gabriele D’annunzio abbia lasciato scritto sul registro dei clienti illustri del ristorante posillipino una frase: “Al par di Saffo mi inabisserò sullo Scoglio di Frisio lanciandomi dall’alto di una fumante caldaia di vermicelli alle vongole”; ebbene non sappiamo se effettivamente queste parole sono sue, ma ce le possiamo immaginare con la sua vera voce che possiamo udire in un video del 1931 più unico che raro che si trova in rete, in cui lo scrittore si domanda come mai un uomo come lui venga bersagliato da numerosi fotografi (La voce di Gabriele D’Annunzio dal cinegiornale americano Fox Movietone News – Youtube).