Giolitti: un riformismo senza riforme

Articolo di Salvatore Distefano

Con la sconfitta di Adua (1° marzo 1896), e la conseguente uscita di scena di Francesco Crispi, cominciò quella che dal punto di visto storiografico viene definita la “crisi di fine secolo” (1896– 1900). Fu un periodo convulso, che vide la classe dominante italiana alla ricerca di nuovi indirizzi di politica interna ed estera, ricerca che fu, come scrive Ernesto Ragionieri, “tutt’altro che rettilinea e priva di interne, profonde contraddizioni”. Peraltro, il quadro mondiale era profondamente mutato perché segnato dall’affermazione dell’<<età dell’imperialismo>> e scivolava veloce, con la complicità e l’irresponsabilità di chi aveva il potere politico-economico, verso i massacri della Prima guerra mondiale.

Il famoso articolo di Sidney Sonnino, Torniamo allo Statuto (1° gennaio 1897), segnava un momento peculiare delle critiche al parlamentarismo, prima delle sanguinose giornate di maggio 1898 e dei tentativi di governo autoritario condotti dal generale Pelloux. Quello che Sonnino proponeva era il ritorno a un regime che un cinquantennio di pratica politica aveva ormai superato e che veniva riproposto in un contesto nel quale esso si presentava come uno strumento di effettiva reazione politica. Ma all’alternativa autoritaria e reazionaria fece da contrappeso, sin dagli anni Novanta dell’Ottocento, un’altra alternativa, che può essere definita liberal-democratica e che venne impersonata per circa un quindicennio da Giovanni Giolitti. Una scelta tra reazione e liberalismo, che Giolitti illustrò prima di governare e ribadì, parlando alla Camera il 21 giugno del 1901, in qualità di ministro degli Interni del governo Zanardelli.

E il Nostro nelle Memorie scriverà:<<Si era per molto tempo tentato di impedire le organizzazioni dei lavoratori, temendone l’azione e l’influenza. Per conto mio, io credevo assai meno temibili le forze organizzate che non quelle inorganiche, perché sulle prime l’azione del governo si può esercitare efficacemente ed utilmente mentre contro i moti disorganici non vi può essere che l’uso della forza. […] Nessuno poteva ormai illudersi di potere impedire che le classi popolari conquistassero la loro parte di influenza sia economica che politica; ed il dovere delle istituzioni era di persuadere quelle classi, […], ma coi fatti, che dalle istituzioni esse potevano sperare assai più che dai sogni avvenire, […]>>.

Con la formazione del governo Zanardelli-Giolitti (febbraio 1901) inizia quella che una lunga tradizione storiografica chiama <<età giolittiana>>, per il rilievo assunto dallo statista che da allora dominò la vita politica italiana fino alla vigilia, come abbiamo detto precedentemente, della <<grande guerra>>. L’Italia fece allora il primo tentativo di passare dal sistema liberale nato dal Risorgimento alla democrazia: il motivo dominante della sua azione fu l’impegno di conciliare le esigenze della borghesia liberale con lo sviluppo politico e culturale e con la partecipazione delle classi lavoratrici, spingendo la prima a riconoscere la validità delle rivendicazioni essenziali dei lavoratori e convincendo i socialisti, i sindacati e le organizzazioni popolari che potevano ottenere molto di più da una legislazione democratica e riformatrice che dall’attesa del crollo della borghesia e del capitalismo. Gli elementi di legislazione sociale che cominciarono ad essere introdotti allora erano già in vigore da tempo in altri stati e la <<necessità>> di attuarle nel nostro Paese nasceva quindi dalla partecipazione dell’Italia ad una tendenza comune a tutti i grandi paesi capitalistici. Ecco perché il processo messo in moto nell’età giolittiana presentava molte affinità con quanto era avvenuto, e continuava ad avvenire, nei paesi second comers: ruolo preminente dello Stato nella continuità della sua struttura e delle sue istituzioni, compenetrazione tra vecchi e nuovi settori della classe dominante, sostanziale ristrettezza nell’allargamento delle basi sociali e del consenso. Tuttavia, il <<casi italiano>> si connotava in maniera peculiare per la debolezza strutturale della borghesia sul piano internazionale e per l’incapacità di egemonizzare pienamente le masse, senza però escluderle del tutto; rimandando così la <<soluzione>> di questo gigantesco problema alla fase post-bellica con l’avvento del fascismo.

Giolitti seppe occupare per molti anni il centro della scena politica grazie ad un’azione oscillante, pendolare, tra le contrastanti posizioni dei suoi avversari, riuscendo così a rafforzare il proprio potere con il loro, per quanto possibile, coinvolgimento, o tutt’al più a contenerne e controllarne le tendenze più estremistiche e pericolose. Nei confronti dei movimenti di massa mostrò tutta la sua abilità nell’accettarne da un lato le richieste compatibili con il sistema democratico-liberale, e dall’altro nel puntare a collocare queste forze in una posizione subordinata al sistema di potere e di relazioni politiche da lui personalmente gestito.

Ma, come abbiamo detto, fosche nubi si addensavano sull’Europa e sul mondo all’inizio del secolo scorso, il “secolo breve” secondo il grande storico britannico Hobsbwam, e i venti di guerra cominciarono a soffiare forti sull’Italia con la campagna di Libia, che venne preparata da un lungo lavoro diplomatico, dopo che nel 1881 il nostro paese si era vista sfuggire, a vantaggio della Francia, la possibilità di estendere il proprio controllo coloniale in Tunisia. Il fronte favorevole all’espansionismo coloniale dell’Italia era guidato dai nazionalisti e più in generale dalla Destra, a cui si aggregarono i cattolici e in seguito alcuni ambienti socialisti, anche se la maggioranza era contraria all’impresa come dimostrò il Congresso di Reggio Emilia del 1912, e alcuni settori sindacali.

Dopo le elezioni del 1913 la situazione diventò ancor più difficile sia sul piano economico-sociale, sia su quello politico: i socialisti, avviatisi su una strada di contestazione generale del sistema, non costituirono più uno dei poli delle oscillazioni giolittiane e al tempo stesso si indebolì la frastagliata maggioranza liberale sempre più condizionata dall’ipoteca cattolica (liberali e cattolici si erano alleati grazie al Patto Gentiloni); preso atto delle difficoltà, Giolitti si dimise nel marzo del 1914 e indicò al re come suo successore il liberale di Destra Antonio Salandra.

Quando tornò al potere, dopo la Prima guerra mondiale, la sua politica non riuscì più ad incidere visto che era venuto meno la possibilità della mediazione e del compromesso: il movimento operaio si era radicalizzato, – oltre alla crisi provocata dal conflitto, in Russia era scoppiata la Rivoluzione d’Ottobre -, ed era sorto il fascismo che sarebbe andato al potere nell’ottobre del ’22 e avrebbe instaurato la sua dittatura totalitaria per un ventennio.

Molti studiosi hanno valutato in maniera sostanzialmente positiva l’operato di Giolitti, anche se non mancarono forti posizioni critiche; il più feroce e implacabile fu lo storico e uomo politico pugliese Gaetano Salvemini, soprattutto per quanto riguardava il problema del Mezzogiorno. Egli definì Giolitti <<ministro della malavita>> e democratico solo a parole. Di più: lo accusò di essere il rappresentante tipico di quel blocco protezionistico frutto della collusione tra l’industria del Nord e il latifondo meridionale; e anche altri studiosi e uomini politici come Giustino Fortunato e Antonio De Viti De Marco mossero fermissime critiche all’indirizzo delle politiche giolittiane che volevano il Mezzogiorno in condizioni di inferiorità, come un mercato semicoloniale nel quale riversare i prodotti industriali a prezzi artificialmente elevati, in virtù delle tariffe doganali protezionistiche. Del resto, la legislazione speciale per il Mezzogiorno fu poco efficace e non disancorò il Sud dalla sua arretratezza.

Parlare ancora dell’età giolittiana e riflettere sull’intero Novecento per noi è indispensabile se vogliamo comprendere il nostro tempo e mettere le basi della sua trasformazione.

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