Giorgio Capitani: la commedia sofisticata all’americana

Articolo di Gordiano Lupi

Giorgio Capitani nasce a Parigi nel 1927. Ha soltanto diciotto anni quando entra nel mondo del cinema, cominciando a collaborare alla realizzazione di film commerciali a basso costo. Il suo primo lavoro è come aiuto regista ne Lo sconosciuto di San Marino di Michal Waszynski e Vittorio Cottafavi. Si mette in proprio a partire dai primi anni Cinquanta, gira alcuni film mitologici (Ercole Sansone Maciste e Ursus gli invincibili – 1964), oltre a commedie brillanti, mai grevi e scurrili, ma sempre dotate di classe e buon gusto (L’arcangelo, 1969 – Pane, burro e marmellata, 1977 – Vai avanti tu che mi vien da ridere, 1982 – Missione eroica – I pompieri 2, 1987). Capitani è un regista che ama il racconto popolare, semplice e per tutti, senza sottili implicazioni psicologiche e privo di riferimenti subliminali. Non ha velleità da autore, ma confeziona buoni prodotti per il cinema e fortunate serie televisive amate dal pubblico. Basti pensare a serie di successo come Il maresciallo Rocca (1996) e Commesse(1999).

   Giorgio Capitani debutta alla regia con Delirio (1953), diretto in collaborazione con il francese Pierre Billon, del quale era stato assistente ne Il mercante di Venezia (1952). Piscatore ‘e Pusilleco (1954), che in italiano suona Il pescatore di Posillipo, è il suo primo film autonomo, un melodramma musicale ricco di canzoni napoletane, interpretato da Giacomo Rondinella e Cristina Grado. Il piccolo vetraio (1955) è il suo secondo lavoro, un modesto melodramma storico ambientato ai tempi di Napoleone, interpretato da Massimo Serato e Lianella Carell, tratto da un romanzo di De Gasperi. La trovatella di Milano (1956) è un’altra intricata vicenda storico – sentimentale di taglio melodrammatico, ambientata ai tempi delle Cinque giornate di Milano e interpretata da Franco Festucci e Franca Marzi. Si tratta di film modesti e di limitata importanza, non indicativi del reale valore del regista, che ottengono uno scarso successo di pubblico. Capitani si dedica anche alla direzione del doppiaggio e dirige la seconda unità di alcuni film mitologici e spettacolari come Le vergini di Roma (1960) di Vittorio Cottafavi e Ludovico Bragaglia, Ursus e la ragazza tartara (1961) di Remigio Del Grosso, Teseo contro il minotauro (1961) di Silvio Amadio e L’affondamento della Valiant (1961) di Roy Ward Baker.

   Nel 1964 gira Donne senza paradiso – La storia di San Michele, interpretato da Valentina Cortese, Otto Wilhelm Fischer, Dolores Palumbo e Rosanna Schiaffino. Siamo ancora nel genere melodrammatico, una storia strappalacrime di un giovane medico svedese che abbandona la propria terra e la fidanzata per lavorare all’estero. Il protagonista viene in Italia dove si innamora di una prostituta che lo abbandona quando lui si amala di colera. Il finale è lieto, si trasforma in commedia, perché il medico guarisce, diventa ricco, famoso e si costruisce una villa a Capri sulle rovine di una cosa romana. Da vecchio il medico diventa cieco, ma fa in tempo a scrivere le sue memorie. Valentina Cortese è molto brava, mentre la presenza di Rosanna Schiaffino mostra come il regista si stia avvicinando alla commedia leggera con lievi contenuti erotici. Produzione tedesca.

   Ercole Sansone Maciste e Ursus gli invincibili (1964) è il primo peplum che Giorgio Capitani gira in proprio dopo aver collaborato a diverse produzioni come regista della seconda unità. Interpreti: Anal Steel (Sergio Ciani), Red Ross, Nadir Baltimor, Yann Larvor, Lia Zoppelli, Hélène Chanel, Luciano Marin, Nino dal Fabbro, Livio Lorenzon, Arnaldo Fabrizio, Moira Orfei, Valentino Macchi, Nino Marchetti e Carlo Tamberlani. La sceneggiatura è di Sandro Continenza e Roberto Gianviti, ma è un informe pasticciaccio che mescola gli eroi di diverse mitologie per ironizzare su un filone in decadenza. Molto brava Lia Zoppelli nei panni di un’acida regina. Come sappiamo il peplum è in parte antesignano della commedia sexy, perché è il primo modo in cui i registi riescono a mostrare le grazie femminili lievemente discinte. 

   Che notte, ragazzi! (Il letto facile) (1966) è la prima pellicola di Capitani che si avvicina ai temi della commedia erotica. Interpreti: Philippe Leroy, Marisa Mell, Alberto Lionello, Franco Fabrizi, Nieves Navarro (Susan Scott), Pepe Calvo e Conrado San Martín. Tecnicamente è definibile come un giallo rosa, tipologia di pellicola di gran moda nei primi anni Sessanta, valorizzata al femminile dalla presenza di due future interpreti della commedia sexy come Marisa Mell e Susan Scott. Capitani imprime un certo brio a una storia poco originale di un avvocato donnaiolo (Leroy) che deve portare un assegno di due milioni di dollari da Londra alla Spagna come risarcimento assicurativo per una vedova. Per errore ne consegna un altro di soli venti dollari e di conseguenza si scatenano una serie di delitti provocati dal defunto che in realtà non è mai morto. In compenso muore la vedova. La trama si sviluppa sulle peripezie dell’avvocato e sugli imprevisti che deve affrontare per portare a termine il difficile compito. Siamo già alla commedia degli equivoci, a tratti divertente e spiritosa, mai noiosa, ricca di trovate e gag, ben musicata da Piero Umiliani. Si tratta di una coproduzione italo – spagnola, ma in Spagna esce solo nel 1978, forse per limitazioni della censura franchista. 

   La notte è fatta per… rubare (1967) è un’altra commedia alla Capitani, girata con garbo ed eleganza, tinta di giallo – rosa e a tratti divertente. Tra gli interpreti troviamo il solito Philippe Leroy – un esperto di giallo all’italiana e commedia rosa -, coadiuvato da un’affascinante Catherine Spaak che conferisce al lavoro un tocco di sensualità e si esibisce come cantante sui titoli di testa. La notte è fatta per… rubare è anche il titolo della canzone interpretata dalla showman francese. Completano il cast i diligenti Gastone Moschin, Pepe Calvo e Gianni Bonagura. Tutto ruota attorno a una cassaforte ermetica di un ricco svizzero che viene presa d’assalto dagli scassinatori al soldo di una compagnia assicuratrice (per dimostrare l’inefficacia del forziere), da alcuni ladri napoletani e da un gruppo di parenti del proprietario, che nel frattempo è morto, ma non prima di averli esclusi dall’eredità. Come molti lavori di Capitani ricorda le commedie sofisticate americane, almeno per il ritmo impresso all’azione e per la cura nella realizzazione.

   Ognuno per sé (1968) è un western insolito scritto da Fernando di Leo e Augusto Caminito che fa riferimenti espliciti a Il tesoro della Sierra Madre (1948) di John Huston. L’argomento esula dalla nostra trattazione, ma citiamo un buon cast dove spiccano Klaus Kinski,  George Hilton, Gilbert Roland, Van Heflin e Sarah Ross. Il film è ottimo, per la cura nel disegnare personaggi non stereotipati e per un meccanismo narrativo che trasgredisce le regole del genere. Il rapporto omosessuale tra due personaggi è messo in risalto da velate allusioni che rappresentano una novità assoluta per un western. 

   L’arcangelo (1969) è un ritorno alla commedia, che purtroppo comincia bene ma con il passare dei minuti si modifica in una stanca farsa giallo – rosa. Il cast è ottimo ma sprecato: Vittorio Gassman, Pamela Tiffin, Adolfo Celi, Irina Demick, Carlo Delle Piane,  Carlo Pisacane, Tom Felleghi e Corrado Olmi. La seducente Pamela Tiffin conferisce un tocco di erotismo a una pellicola dove Gassman interpreta in maniera troppo schematica un avvocato che non ha mai vinto una causa. Gassman viene assunto da un uomo molto ricco, ma il suo unico compito consiste nel fare l’uomo di paglia e di coprire alcuni loschi affari del magnate. L’avvocato è un vero incapace, non si rende conto di essere sfruttato, come non comprende che la moglie (Tiffin) e il suo amante vogliono uccidere il riccone. Il finale è logico quanto triste: il magnate viene ucciso dai due complici e la colpa ricade sul povero avvocato. Tra gli attori citiamo un cammeo del produttore Mario Cecchi Gori. La pellicola non può dirsi riuscita, nonostante elementi pop tipici del periodo e una sceneggiatura firmata niente meno che da Renato Castellani, Steno (Stefano Vanzina), Adriano Baracco, con la collaborazione del regista. Ottima la fotografia di Stelvio Massi e le musiche di Piero Umiliani.  

   La schiava io ce l’ho e tu no (1973) è vera e propria commedia sexy di alto livello, un Lando Buzzanca movie ben diretto e interpretato con bravura da Catherine Spaak, Adriana Asti, Veronica Merin, Gianni Bonagura, Paolo Carlini, Gordon Mitchell, Renzo Marignano, Nanda Primavera e Corrado Olmi. La sceneggiatura è di Giulio Scarnicci, Raimondo Vianello e Sandro Continenza. Lando Buzzanca è Demetrio Cultrera, detto Dedè, giovane playboy siciliano che si fidanza con la bella e ricca Rosalba (Spaak), figlia del re del tonno. Rosalba è una donna molto emancipata, vorrebbe imporre un tipo di vita moderno e non tradizionalista, ma soprattutto stressa il marito con le sue manie di raffinatezza imponendo i riti dell’alta società. Dedè si trova un’amante matura e vogliosa come Elena (Asti) per sentirsi uomo vero e smettere di farsi castrare da una moglie insopportabile e dai suoi amici aristocratici. Il rimedio è peggiore del male, perché l’amante è una donna possessiva e insopportabile che lo comanda a bacchetta. Il povero Dedè decide di separarsi sia dalla moglie che dall’amante e per tentare di costruire un rapporto che soddisfi il suo ideale di vita tranquilla parte per l’Amazzonia alla ricerca di una schiava docile e bella. La scelta cade su Manua (Merin) che Dedè decide di portare a Palermo e di mostrare con orgoglio agli amici invidiosi e alla rancorosa ex moglie. Ma le sorprese non sono finite, perché il rapporto tra Dedè e Manua diventa un vero e proprio legame. L’uomo si pente di aver trattato la donna come una schiava e le chiede perdono per averla umiliata davanti a tutti. La schiava io ce l’ho e tu no è una pochade senza pretese che ironizza sui sogni proibiti del maschio italiano e sul desiderio di possedere una donna oggetto che non crei complicazioni e sia sempre disponibile. Parte della critica giudica la pellicola misogina, datata e noiosa (Mereghetti su tutti), ma chi scrive l’ha trovata fresca, divertente, autoironica e dalla parte della donna. Marco Giusti scrive su Stracult: “Storia antifemminista violenta e anche curiosa che diventa nulla nelle mani di Capitani… nella sua messa in scena tutto è annacquato come in un film televisivo e la storia rimane solo stupidina”. Non condividiamo. Lando Buzzanca che recita il decalogo alla schiava è un mito del maschio latino: “Primo: non rompere i coglioni!”. Veronica Merin è un’attrice italiana truccata da brasiliana dell’Amazzonia, molto bella, ma non ha caratteristiche esotiche e non recita spontaneamente. Scomparsa nel niente, anche se in questo film fa bella mostra di seni nudi e lunghe gambe. Rivali sexy: Adriana Asti e Catherine Spaak, ma la prima è più disponibile a mostrare grazie nascoste. 

   La pupa del gangster (1975) è una spiritosa commedia all’americana ricavata dal racconto Callared di Cornell Woolrich, sceneggiata da Ernesto Gastaldi, costruita su una serie di stanche macchiette interpretate da Marcello Mastroianni e Sophia Loren. Fanno parte del cast un divertente Aldo Maccione, un’affascinante Dalila Di Lazzaro e i diligenti Gianni Bonagura, Leopoldo Mastelloni, Alvaro Vitali e Pierre Brice. Pupa (Loren) è la mantenuta di Charlie Colletto, un violento e spregiudicato gangster che controlla il racket della prostituzione. Pupa si trova contesa tra due boss della mala, ma a un certo punto, stufa di essere manipolata e usata per sporchi fini, decide di vendicarsi e li denuncia alla polizia. Pupa rischia la pelle, ma la salva un innamorato, un commissario di polizia di origine italiana. Sophia Loren è affascinante e sensuale, ma soprattutto è molto brava in un ruolo comico che la vede confrontarsi con Rita Hayworth.

   Bruciati da cocente passione (1976) è una commedia sexy sofisticata interpretata da Cochi Ponzoni, Jane Birkin, Aldo Maccione, Catherine Spaak, Mario Maranzana, Daniele Formica ed Enrico Beruschi. Le musiche sono di Piero Umiliani, la voce narrante è di Oreste Lionello, mentre la sceneggiatura è di Nicola Badalucco.

   La pellicola racconta l’amore sfortunato di un romantico impiegato postale (Ponzoni) e di una timida dipendente dell’obitorio (Birkin), che si conoscono a bordo del treno che porta a Milano gli oprai pendolari. Al tempo stesso anche i rispettivi coniugi (Spaak e Maccione) si conoscono e finiscono per innamorarsi follemente, imbastendo una storia carnale, senza problemi e limiti romantico – sentimentali. Bruciati da cocente passione descrive un ambiente da basso sottoproletariato urbano e mette in scena una pochade attualizzata ai tempi del femminismo e della legge sul divorzio. Alla base di tutto abbiamo il tema del tradimento e un inconsapevole scambio di coppie che diventa effettivo quando i protagonisti decidono di seguire il cuore al posto dell’anagrafe. Salvo rendersi conto che stavano meglio prima. L’interrogativo del regista è se esista o meno una crisi della coppia. Basta trovare la persona giusta, forse…

   Giorgio Capitani dirige una divertente commedia erotica interpretata da attori ben calati nelle rispettive interpretazioni. Cochi Ponzoni è un romantico idealista, Jean Birkin è una ragazza timida che parla come i protagonisti di sceneggiati tipo Anna Karenina e si immedesima nelle situazioni viste sullo schermo, Catherine Spaak è un’amante focosa e imprevedibile, Aldo Maccione è il macho sempre pronto a conquistare una donna, Daniele Formica è il perfido siciliano ricattatore ed Enrico Beruschi è un compassato collega di lavoro. Capitani inserisce nel cuore della pochade tematiche alte come il femminismo, il rapporto uomo – donna, l’amore e la crisi del matrimonio, il tutto inquadrato in uno scenario da finta inchiesta con voce fuori campo. Il quadro della classe operaia senza un paradiso è ben tracciato con punte di grottesco divertimento: la bicicletta nella nebbia, il treno pieno di pendolari, il freddo padano, gli scioperi per il salario, le riunioni presso la sezione del Partito Comunista e una difficile vita in famiglia senza nessuna comodità. Dialoghi come: “Basta con la donna oggetto!” e “Sarai mica diventata femminista anche te?”. Sono il sintomi dei tempi e di un cambiamento che sta sconvolgendo abitudini sociali. È l’Italia dei primi telefoni diffusi in ogni casa, una società ancora in sviluppo dove i diritti degli operai sono tutelati soltanto dal Partito Comunista e dal sindacato. È l’Italia del pranzo in trattoria la domenica, portandosi la pasta da casa e comprando solo il vino, perché di più non si può fare.

   La commedia sexy è abbastanza castigata, anche se il film esce vietato ai minori di anni 14 per alcuni nudi integrali di Spaak e Birkin. Cochi e Jean Birkin non riescono a fare l’amore, non trovano l’occasione per colpa di orari diversi e soprattutto di remore interiori, perché lei si immedesima nel personaggio di Anna Karenina e crea troppe difficoltà morali. Nel frattempo nessuno dei due si concede al rispettivo coniuge, favorendo la loro reciproca conoscenza e il formarsi di una nuova coppia. Molto sexy la telefonata della Birkin al telefono del bar dove Cochi attende la chiamata per sentirsi dire come è fatto il suo corpo. Il problema è che all’altro capo del filo risponde il marito, che non la riconosce e resta allibito quando sente una sensuale voce femminile sussurrare: “Ho le tette a pera, piccole, come le nere…”. Il ballo sexy tra Maccione e la Spaak, travolti in un tango sfrenato è un altro momento erotico, così come sono intense (ma comiche) le sequenze d’amore sul furgone, in barca e in qualsiasi luogo disponibile. Cochi e la Birkin optano per andare a consumare il loro primo rapporto in albergo, Spaak e Maccione fanno la stessa scelta, ma per puro caso le due coppie non si incontrano. Maccione e Spaak scopano a colpi di Kamasutra estremo, persino rinchiusi nell’armadio, mentre Cochi e Birkin riescono appena a vedersi nudi. Il primo è un erotismo carnale e sfacciato, mentre il secondo è un erotismo casto e romantico. Da notare i nudi quasi integrali della Spaak a seno scoperto e della Birkin che mostra con generosità il lato B e lunghe gambe fasciate da sexy calzettoni da lolita. Cochi e la Birkin fanno l’amore sul tavolo della cucina dopo che il primo ha scoperto Maccione a letto con la moglie, ma contemporaneamente si fanno scoprire. I matrimoni vanno in crisi, si parla di divorzio, anche se il parroco sconsiglia e dice che l’unione va mantenuta per il bene dei bambini e del paese. Il conseguente finto duello in piazza tra Maccione e Cochi ricorda i film western, così come è vissuto in maniera comica il reciproco tentativo di far saltare in aria il rivale. Molti elementi rimandano alla farsa in questa commedia all’italiana ricca di erotismo e di situazioni ammiccanti. Il finale presenta il tentativo dello scambio di coppie, allargato al sottoproletariato, ma quando i protagonisti si ritrovano i vecchi amori risorgono e tutto torna come prima.

   Stefania Casini dà la voce a Jean Birkin, mentre Lia Tanzi doppia Catherine Spaak. Le due attrici sono molto belle e si contendono la scena a colpi di sorrisi e di nudità esibite con dovizia. Catherine Spaak non è giovanissima, ma la sua bellezza pare inattaccabile e regge bene il confronto con la più giovane rivale. Aggiungiamo qualche parola su Jane Birkin, vera  e propria icona della sensualità anni Settanta, sia al cinema che nella musica. Jean Birkin nasce a Londra nel 1946, ma lavora molto in Francia, resta nota la sua relazione scandalosa con il cantante e musicista Serge Gainsbourg, durata dal 1968 al 1980. Nel 1969 la coppia conquista la scena europea con la canzone Je t’aime… moi non plus, originariamente incisa dal cantante con Brigitte Bardot, che si trasforma in un film di successo (1976). La canzone fa scandalo a causa dei numerosi gemiti amorosi della Birkin a commento di un testo esplicito che la trasformano in un’icona erotica. Alla fine del rapporto con Gainsbourg (dal quale nasce la figlia Charlotte) la Birkin abbandona la propria versione sexy e interpreta film di diverso tenore con il nuovo compagno, il regista francese Jacques Doillon.

   Pane, burro e marmellata (1977) è una modesta commedia erotica sul gallismo italico interpretata da Enrico Montesano, Rossana Podestà, Claudine Auger, Rita Tushingham, Laura Trotter e Adolfo Celi. Bruno (Montesano) è un presentatore televisivo che viene abbandonato dalla moglie, ma è adottato e coccolato da tre donne sole, un piccolo harem di femmine docili e sottomesse: Podestà, Auger e Tushingham. Se non ci fosse un bravissimo Montesano resterebbe ben poco, a parte le grazie delle protagoniste femminili che vengono esibite in modo limitato. Capitani compie una critica superficiale di femminismo, istituto del matrimonio, crisi della coppia e maschilismo.

   Io tigro, tu tigri, egli tigra (1978) è una commedia a episodi girata da Giorgio Capitani e da Renato Pozzetto, che si cimenta per la prima volta dietro la macchina da presa. Si tratta di un lavoro modesto tenuto insieme da un esile filo di comicità sostenuto dalle trovate degli attori. Tra l’altro si tratta di una specie di sequel di Tre tigri contro tre tigri (1977) di Sergio Corbucci e Steno che aveva avuto un buon successo ed era superiore a livello di comicità. Il primo episodio è diretto da Renato Pozzetto, sceneggiato da Enzo Jannacci e Cochi Ponzoni, interpretato da Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni e Angela Luce. La storia racconta le vicissitudini di una coppia che si odia al punto di tentare a più riprese la reciproca eliminazione. Elia (Pozzetto) è il maggiordomo che si accorda con il padrone (Ponzoni) per eliminare la fastidiosa moglie (Luce); si tratta di uno dei pochi casi in cui al cinema si ricostruisce la copia comica televisiva. Il secondo episodio, diretto da Giorgio Capitani, sceneggiato da Castellano e Pipolo, è più interessante. I protagonisti sono Paolo Villaggio, Nadia Cassini e Ugo Bologna, per raccontare la storia di uno scrittore di fantascienza che vive le proprie fantasie erotiche a bordo di una navicella spaziale. Nadia Cassini interpreta la moglie dello scrittore che si traveste da regina aliena per soddisfare il marito e il suo costume è la stesso indossato nel film di Luigi Cozzi girato nello stesso anno (Starcrash). Quando lo scrittore Paolo Villaggio viene rapito dagli alieni si rende conto che la Regina Nera è un mostro orribile e al ritorno sulla Terra non viene creduto. Alla fine non si comprende se è stato un sogno o se lo scrittore imbranato ha davvero scongiurato l’invasione della Terra da parte degli alieni. Erotismo ce n’è poco, Nadia Cassini (al solito) mostra il sedere ben fasciato da collant e perizoma spaziale, ma si tratta di un buon esempio di pochade fantascientifica. In ogni caso questo episodio è l’unico che Marco Gisti su Stracult definisce di culto ritenendolo un fondamentale esempio di fantascienza parodistica. Il terzo episodio, sempre diretto da Capitani, ma sceneggiato da Italo Terzoli ed Enrico Vaime, vede interpreti Enrico Montesano, Sergio Di Pinto, Walter Valdi, Erika Blanc, Felice Andreasi e Massimo Boldi. Si tratta di una modesta farsa che racconta le disavventure di un bersagliere pasticcione deciso a invadere la Svizzera. I tre episodi non sono legati da alcun filo conduttore, ma sono caratterizzati dalla presenza di tre comici diversi: Pozzetto, Villaggio e Montesano. Il vero collante è commerciale, perché si tratta di tre interpreti in grado di portare al cinema diverse tipologie di pubblico e di garantire un buon successo al botteghino. Il primo episodio vede la comicità strampalata di Pozzetto, il secondo mette in scena la consueta imbranataggine fantozziana e il terzo (il più fiacco) è un esempio della comicità romanesca di Montesano. L’erotismo è ai minimi sindacali, per non dire inesistente.

   Aragosta a colazione (1979) è una commedia elegante, alla Capitani, che si ricorda come una delle ultime apparizioni importanti di Silvia Dionisio. Una commedia sofisticata politicamente corretta interpretata da Enrico Montesano, Janet Agren, Claudine Auger e Claude Brasseur. Montesano è un piazzista di maioliche che accetta di passare per il marito dell’amante di un ricco amico (Brasseur) perché spera di portare a termine un buon affare. La finzione serve a nascondere un tradimento del marito ma dà il via a una serie di equivoci tipici della commedia all’italiana e della pochade. Il film presenta buoni momenti comici, tante gag tipiche della farsa e un soffuso erotismo. Scritto e sceneggiato da Laura Toscano e Francesco Marotta, apprezzati autori televisivi.  

   Odio le bionde (1980) è una divertente commedia che segna l’addio al cinema di Paola Tedesco. Protagonista principale è Enrico Montesano, nei panni di uno scrittore “negro” che lavora per conto di un giallista famoso ma incapace di scrivere. Montesano si mette nei guai con il suo ultimo lavoro, un copione che descrive un furto geniale ma finisce nelle mani di ladri veri interessati a metterlo in pratica. La commedia degli equivoci parte da questo malinteso e prosegue mettendo in scena una serie di gustose situazioni. Lieto fine per lo scrittore che ottiene il giusto riconoscimento e viene considerato degno di firmare romanzi con il suo nome. Altri interpreti: Jean Rochefort, Corinne Cléry, Ivan Desny e Gigi Ballista.

   Bollenti spiriti (1981) – come Aragosta a colazione – è scritto e sceneggiato da Laura Toscano e Franco Marotta, il montaggio è di Sergio Montanari e la fotografia di Silvano Ippoliti. Le scenografie e i costumi sono di Ezio Altieri, le musiche di Piero Umiliacchi, direttore di produzione è Marcello Crescenzi per la Clesi Cinematografica e la Italian International Film. Interpreti: Johnny Dorelli, Gloria Guida, Alessandro Haber, Lia Tanzi, Adriana Russo, Lory Del Santo e Francesca Romana Coluzzi. Il conte Giovanni Degli Uberti (Johnny Dorelli), nobile squattrinato, è reduce da un fallimento ed è assalito dai creditori che gli portano via anche i mobili dell’ufficio. Il suo avvocato (Alessandro Haber) cerca di aiutarlo ma può fare poco in una situazione che va inesorabilmente a rotoli. Giovanni ha un’amante nevrotica e asfissiante (Lia Tanzi) che nelle prime sequenze lo mette nei guai con il marito. Giovanni per cavarsela si spaccia per l’idraulico e si fa pagare centomila lire, anche se l’abbigliamento elegante insospettisce il marito. Arriva l’avvocato con la grande notizia che Giovanni ha ereditato dallo zio Ubezio il novanta per cento di un castello e che il maniero può essere venduto a un’immobiliare svizzera. Piccolo problema: l’immobiliare è di proprietà del marito dell’amante di Giovanni. Non solo, il restante dieci per cento del lascito spetta alla bella Marta Sartori (Gloria Guida) che si è occupata dello zio in ospizio. L’avvocato cerca la donna per convincerla a cedere la sua quota, ma non la trova. Giovanni scopre anche un fantasma che vive nel castello e gli somiglia come una goccia d’acqua. Si tratta di Guiscardo, ucciso nel 1680 da un marito geloso che lo sorprese in flagrante adulterio con la moglie. La leggenda dice che se vuole seguire il padre in cielo dovrà riuscire a far l’amore con una donna. Giovanni decide di aiutarlo e telefona a una prostituta (Lory Del Santo) che però fugge via spaventata quando vede il fantasma passare attraverso i muri. Va citata una sosta al distributore con Gloria Guida interprete di una sequenza stile Marylin Monroe con un getto d’aria che le solleva la gonna. Si torna al castello e abbiamo il primo equivoco con Giovanni che scambia Marta per la prostituta. Si susseguono le situazioni da commedia e da parodia di film horror con il fantasma che tocca il sedere alla serva (Adriana Russo) e poi fa volare i bicchieri. Le scene che vedono Giovanni e Guiscardo insieme sono recitate da una controfigura ripresa di spalle oppure realizzate con una tecnica di collage e di sovrapposizione di due inquadrature. Continuano gli equivoci e i tentativi di liquidare Marta con poche lire da parte di Giovanni e del suo avvocato, ma la ragazza è furba e vende il suo dieci per cento all’immobiliare svizzera per duecentocinquanta milioni. Alla fine gli svizzeri, rappresentati dal marito dell’amante di Giovanni, comprano pure la restante parte del castello e tolgono il conte dai guai. Trionfa anche l’amore tra il conte e la ragazza, ma si deve pagare il dovuto “pedaggio” al fantasma che infesta il castello. Infatti, approfittando dell’assenza di Giovanni, il furbo Guiscardo si porta a letto Marta fingendosi lui e si libera dalla maledizione. Giovanni e Guiscardo decidono che sarà un loro segreto. Guiscardo non si farà più vivo e non ha senso essere gelosi di un fantasma.

   Bollenti spiriti è una commedia degli equivoci elegante che diverte senza volgarità, ma mostra la corda per la prevedibilità della trama.   L’importanza del film è fondamentale nella vita privata di Gloria Guida che conosce Johnny Dorelli, il futuro marito dal quale nel 1984 avrà una figlia, Guendalina, motivo decisivo per convincerla ad abbandonare per molti anni le scene.

   Teste di quoio (1981) è un film comico – surreale ambientato all’epoca degli anni di piombo. Interpreti: Philippe Leroy, George Hilton, Christian De Sica, Mauro Di Francesco, Ugo Fangareggi, Leo Gulotta, Andy Luotto, Daniela Poggi, Serena Grandi, Howard Ross, Marco Messeri, Maurizio Micheli, Ken Clark, Roberto Della Casa, Sergio Di Pinto, Paolo Baroni, Tuccio Musumeci e Nando Paone. Alcuni terroristi (Luotto, Fangareggi e Paone) arrivano a Roma per assaltare la sede diplomatica di un fantomatico paese, ma sbagliano bersaglio e sequestrano un intero condominio popolato da strani inquilini. L’ambasciata, infatti, ha cambiato indirizzo e al suo posto resta un palazzo ordinario, che viene preso in ostaggio dalle armi dei terroristi. Per liberare gli ostaggi arrivano le truppe speciali del comandante Bartoli (Leroy) che circondano la palazzina, ma l’interprete chiamato a prendere accordi non capisce la lingua degli assediati e scoppia un caos a base di equivoci. Il regista gira una commedia alternativa dove vengono esaltati il ritmo e il gusto per la trovata surreale a livello di tormentone cinematografico. Si ride senza troppe pretese, ma non troppo. La sceneggiatura di Laura Toscano e Franco Marotta ricorre anche alla slapstick (farsa grossolana): gli abitanti del condominio inciampano sempre nel medesimo ostacolo. Per Marco Giusti si tratta di “una specie di Squadra di polizia all’italiana, ma il film non funziona”.

   Vai avanti tu che mi vien da ridere (1982) è una commedia che ricicla vecchie battute e presenta il sapore della fiction televisiva. Interpreti: Lino Banfi, Agostina Belli, Gordon Mitchell, Pino Colizzi, Nando Paone e Aldo Massasso. Lino Banfi conferisce comicità genuina alla storia, ma non sono più i tempi d’oro della commedia sexy e la sua prima volta con Capitani, alle prese con il cinema di serie A, non è memorabile. Il film è interessante perché ironizza con intelligenza sul poliziottesco, un genere che ha dato lustro al cinema italiano. Gli sceneggiatori Toscano, Marotta e Nasca imbastiscono una modesta trama gialla che mostra inseguimenti, sgommate, un minimo di vita poliziesca e di indagine, condita da battute da avanspettacolo. La musica di Piero Umiliani conferisce ritmo alla pellicola e sottolinea i momenti più divertenti. Il montaggio di Antonio Siciliano presenta tempi televisivi, ma ha un buon ritmo. Pasquale Bellachioma (Banfi) è un imbranato commissario di polizia che ogni volta combina guai sulla scena del crimine. Pino Colizzi è il superiore, un tipo determinato che porta a termine ogni missione con successo, nemico giurato di Bellachioma, al punto che vorrebbe trasferirlo in provincia di Trento. Il povero commissario è vessato da una ex moglie, da un cane San Bernardo che lo segue ovunque e da un figlio terribile che usa la sua casa per organizzare feste. Il commissario Bellachioma cerca di riabilitarsi agli occhi dei superiori seguendo la pista di un travestito (Belli), importante testimone in una storia di attentati e utile per smascherare un killer internazionale (Mitchell). Il commissario perde la testa per il bel travestito, va in crisi per un sentimento che giudica contro natura, a un certo punto lei confessa di essere una donna, ma uno spiazzante finale fa capire che non è così vero. Il film si basa su vecchi equivoci già visti in precedenti commedie sexy e su battute abbastanza divertenti ma riciclate. Le trovate sono mediocri, ma resta comunque una discreta commedia sofisticata che evita cattivo gusto e cadute di stile, trattando un argomento spinoso con classe ed eleganza. Il tono è tipico della farsa, anche se lo schema narrativo segue le regole del giallo comico, della commedia  poliziesca, basandosi su un interprete sfortunato e su una comprimaria sexy. Lino Banfi ha tutte le caratteristiche per interpretare un imbranato commissario di polizia colpito da sfortuna e inettitudine. Tra l’altro l’aveva già fatto con buoni risultati comici in Brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia (1973) di Luca Davan (Mario Forges Davanzati) – è un carabiniere ma il senso non cambia – e lo farà di nuovo nel più importante  Il commissario Lo Gatto (1986) di Dino Risi. Agostina Belli è molto sensuale, regala alcuni castigati striptease, diverse poste plastiche sul letto matrimoniale, ma si ricorda soprattutto quando Banfi le strappa la gonna e resta in calzamaglia trasparente. Molte sequenze citano la pochade e la commedia sexy, come la parte che vede Banfi e Belli sul cornicione di una finestra mentre nella stanza si consuma un rapporto sadomasochista tra un uomo e una donna. Immancabile la persiana spalancata che colpisce sul volto il povero commissario che in tale occasione pronuncia la frase fondamentale del film: “Vai avanti tu che mi vien da ridere!”. Alcune battute trash sono tipiche del vecchio Lino Banfi della commedia sexy: “Quando la pasta non è al dente il cuoco è un deficiente!”, “La pasta al dente e il commissario non è fetente”, cose ingenue che dette con la tipica inflessione pugliese fanno sorridere. Infine citiamo la lite in autobus quando un forzuto passeggero tocca il sedere ad Agostina Belli e le sequenze dove Banfi si finge gay sfoderando una serie di movenze effeminate.

   Vai avanti tu che mi vien da ridere è anche un film che cerca di affrontare il problema dei gay e di un amore diverso che mette in crisi un uomo che si reputa normale. Capitani vuol far riflettere sul tema senza essere didascalico, ma con gli strumenti della farsa che si compie nel rocambolesco finale. Agostina Belli è scoperta da Lino Banfi mentre fa pipì in piedi nel bagno degli uomini. “Sei proprio sicuro di volermi bene?”. La parola Fine lascia tutti nel dubbio.

Gordon Mitchell è il killer dall’espressione truce che non dice una parola, ma fa rimpiangere i tempi in cui interpretava Maciste.

   Missione eroica – I pompieri 2 (1987) è un fiacco sequel de I pompieri (1985) di Neri Parenti che già di per sé non era eccezionale. Sono film molto americani, risposte italiane al successo di simili lavori d’oltre oceano. Interpreti del primo film: Lino Banfi, Paolo Villaggio, Andrea Roncato, Gigi Sammarchi, Massimo Boldi, Christian De Sica, Ricky Tognazzi, Paola Onofri e Moana Pozzi. Villaggio e Banfi sono due pompieri in pensione che vengono richiamati al lavoro e danno vita a una serie di situazioni comico – avventurose che si concludono con la loro consacrazione a eroi. Moana Pozzi è la sola concessione al sexy, ma la sua parte è modesta e non influente su una trama composta da barzellette e situazioni stereotipate. Il film di Capitani è ancora peggiore. Interpreti: Paolo Villaggio, Lino Banfi, Massimo Boldi, Christian De Sica, Teo Teocoli, Franca Gonella, Luc Merenda e Franca Scagnetti. Nel nuovo film abbiamo un istruttore americano come Luc Merenda che forma professionalmente i pessimi pompieri Boldi, Villaggio, Banfi, De Sica e Teocoli. I nostri eroi se la devono vedere con un pozzo di petrolio in fiamme e nonostante la loro imbranataggine diventano eroi al servizio della collettività. Le battute sono risapute e la comicità è ai minimi storici. Concessioni al sexy per la presenza di Franca Gonella. 

   Arrivederci e grazie (1988) è una commedia sofisticata molto televisiva, in gran parte prevedibile, sceneggiata con poco brio da Simona Izzo e Graziano Diana. Interpreti: Ugo Tognazzi, Ricky Tognazzi, Anouk Aimée, Catherine Alric, Milly Carlucci, Gianmarco Tognazzi, Giuppy Izzo, Vittorio Haber, Marina Tagliaferri, Edoardo Siravo, Antonella Fattori e Cinzia Bonfantini. Ugo Tognazzi interpreta un sessantenne separato dalla moglie (Aimée) che – per una serie di equivoci – va a vivere in un appartamento insieme ai due figli maschi (Ricky e Gianmarco Tognazzi). Ugo Tognazzi è stufo della famiglia e vorrebbe vivere da solo, Ricky è stato piantato dalla moglie (Carlucci) perché depresso e noioso, Gianmarco attende un figlio dalla compagna. Il padre impara a conoscere i figli grazie alla convivenza forzata, viene a sapere che è malato di cancro e prima di morire sistema tutti i problemi della sua famiglia. Ugo Tognazzi è alle prese con il suo ultimo memorabile personaggio che pare anticipare la prossima morte. La sua presenza salva la commedia, così come è interessante sia la recitazione al fianco dei veri figli che il tema della difficile comunicazione all’interno di una famiglia. 

   Rimini Rimini – Un anno dopo (1988) è lo stanco sequel di Rimini Rimini (1987) di Sergio Corbucci. Si tratta di due tarde commedie sexy ma ormai la tematica è sfruttata e la televisione è alle porte. Nel primo film abbiamo una serie di storie erotiche ambientate al mare con protagoniste Laura Antonelli, Eleonora Brigliadori, Serena Grandi e Sylva Koscina. Villaggio, Calà, Micheli e Roncato provano a far ridere ma non sempre ci riescono. In ogni caso è un grande successo di pubblico. Rimini Rimini – Un anno dopo è diretto da Sergio Corbucci in collaborazione con Giorgio Capitani, ma il risultato è sempre modesto, questa volta pure in termini di pubblico. Corbucci è il responsabile principale del film perché gira quattro episodio su cinque: Il nipote del vescovo (Andrea Roncato, Isabel Russinova, Petra Scharbach, Dario Salvatori e Loredana Romito); La legge del taglione (Maurizio Micheli, Maria Rosaria Omaggio, Adriano Pappalardo e Tosca D’Aquino); La scelta (Renzo Montagnani, Eva Grimaldi e Sabrina Ferilli); un ultimo episodio non firmato che racconta la voglia di una ragazza di trasgredire alle regole. Giorgio Capitani dirige soltanto Vu cumprà (Gianfranco D’Angelo, Gastone Moschin e Corinne Cléry). D’Angelo interpreta un finto venditore ambulante marocchino e finisce per andare a letto con Corinne Cléry, la bella moglie di Moschin, cornuto beffato secondo le regole della commedia sexy. La sceneggiatura è di Mario Amendola e Bruno Corbucci. Capitani ci finisce dentro per caso, ma non è un suo film.

   Giorgio Capitani amail racconto semplice, per tutti, privo di velleità intellettuali, per questo motivo lo sbocco naturale è la fiction televisiva, che alla fine degli anni Ottanta si impone come nuova via al cinema di genere. Capitani lavora molto in televisione, imponendosi all’attenzione del pubblico con interessanti lavori seriali (Commesse e Il maresciallo Rocca), ma pure con una dignitosa opera divulgativa storico – religiosa (Papa Giovanni, Rita Da Cascia, Papa Luciani…). Si tratta di opere televisive che esulano dalla nostra trattazione, ma che citiamo per completezza: E non se non vogliono andare! (1989), E se poi se ne vanno? (1989), David e David (1989), Un cane sciolto (1990), Un cane sciolto 2 (1991), Un cane sciolto 3 (1992), Il coraggio di Anna (1994) e Un figlio a metà (1994), Italian Restaurant (1994), Natale con papà (1994), Alta società (1995), Un figlio a metà – Un anno dopo (1995), Un prete da strada (1996),  Il maresciallo Rocca (5 episodi, 1996), Un prete tra noi (1997),  Mio figlio ha 70 anni (1999), Commesse (1999), Anna (2000), Il ritorno del piccolo lord (2000), La memoria e il perdono (2001), Papa Giovanni (2002), Mai storie d’amore in cucina (2004), Rita da Cascia (2004), Edda (2005), Callas e Onassis (2005), Papa Luciani – Il sorriso di Dio (2006), Il generale Dalla Chiesa (2007), Puccini (2009), Enrico Mattei – L’uomo che guardava al futuro (2009) e Ho sposato uno sbirro (2 episodi, 2008 – 2010). Giorgio Capitani partecipa al documentario Il falso bugiardo (2008) di Claudio Costa, dedicato allo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, indimenticato autore di Signore & Signori

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