Tra una notizia (vera o falsa) sul Covid-19 e una polemica (l’ennesima) su gossip politico, è passata quasi inosservata la Giornata Mondiale del Rifugiato istituita dalle Nazioni Unite nel 2001, introdotta dopo l’approvazione, nel 1951, della Convention Relating to the Status of Refugees (comunemente detta Convenzione di Ginevra) da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Spesso i media fanno una gran confusione e usano parole come “rifugiato”, “profugo”, “migrante” o altro come se avessero tutte lo stesso significato. Invece non è così e le conseguenze umane e geopolitiche sono pesanti. Rifugiato, in base a quanto stabilito dall’art. 1A della Convenzione di Ginevra, è chi “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Secondo l’UNHCR, nel mondo, i rifugiati sarebbero circa 70 milioni. Ma le persone che hanno lasciato la propria casa sono molte di più: secondo l’IOM, sono oltre 271 milioni. Tra loro oltre ai rifugiati ci sono profughi, “sfollati”, naufraghi, MSNA o anche “semplici” migranti. E ovviamente rifugiati.
Il punto è che molte volte questa differenza finisce per alterare pesantemente il significato e gli effetti degli accordi tra i paesi per l’accoglienza (o il respingimento alla frontiera) di queste persone. Ad esempio, quelli che entrano in Europa attraversando il Mar Mediterraneo solo in minima parte sono rifugiati. Gli altri sarebbero “sfollati” (a definirli così è la direttiva 2001/55/CE del Consiglio dell’Unione Europea, pensata per far fronte al massiccio afflusso in Europa di persone ai tempi degli scontri nell’ex Jugoslavia, negli anni Novanta). Ma se venissero riconosciuti tali, gli “sfollati”, in barba alla chiusura delle frontiere di molti degli stati membri dell’UE, avrebbero godrebbero “della protezione temporanea, per un periodo non superiore alla durata di quest’ultima” e avrebbero il diritto “di esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo, nel rispetto della normativa applicabile alla professione, nonché di partecipare ad attività nell’ambito dell’istruzione per adulti, della formazione professionale e delle esperienze pratiche sul posto di lavoro”. In altre parole, potrebbero circolare liberamente per tutti i paesi dell’UE e lavorare regolarmente. Cosa questa che, evidentemente, a molti non piace.
Nel caso, poi, di salvataggio in mare, non si tratterebbe né di rifugiati né di “sfollati” ma di naufraghi: per loro valgono le norme del Diritto Marittimo Internazionale che sono abbastanza precise, ma spesso disattese o legate a dispute decennali (mai risolte) sulle acque di competenza dei vari paesi. Ma anche qui non mancano le difficoltà nel comprendere il fenomeno: la ripartizione del Mediterraneo in zone da controllare e di competenza non è mai stata accettata da tutti i paesi coinvolti.
É per questo che si preferisce far finta di non conoscere le norme comunitarie e internazionali. La stessa UE non fa nulla per imporne il rispetto: lascia che a farsi carico del problema siano Italia, Spagna e Grecia. In un guazabuglio di dati e di numeri spesso non confrontabili tra loro.
Anche i dati sulle persone che perdono la vita cercando di attraversarlo spesso non coincidono. Secondo l’IOM, nel 2020 (fino al 18 Giugno), avrebbero perso la vita nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa 339 persone. Di questi oltre la metà sono morti cercando di raggiungere l’Italia dalla Libia (gli altri cercando di arrivare in Spagna o in Grecia). Nel 2019 sono stati 592 i morti. Secondo Statista.com, invece, nel 2016, i morti nel Mar Mediterraneo, sarebbero stati oltre 5mila. Quasi 2mila solo lo scorso anno, più del triplo di quelli riconosciuti dall’ILO!
Un mondo a parte, poi, è quello rappresentato dai MSNA ovvero dai Minori Stranieri non Accompagnati: per i loro le norme internazionali prevedono l’accoglienza almeno fino al raggiungimento della maggiore età (in Italia, grazie alla legge 47/17, c’è anche la possibilità di prolungare questa permanenza fino ai 21 anni, ma anche in questo caso non mancano le polemiche e le difficoltà).
Il risultato è che spesso i governi, fingendo di non capire cosa sta avvenendo in tutto il mondo, interpretano e definiscono queste persone – non dimentichiamo che si parla sempre di uomini, donne e bambini, non di “cose” o di “numeri” – come meglio preferiscono. Alcune norme, ad esempio, parlano solo di “rifugiati” (limitando così la ridistribuzione territoriale ad un numero limitato di migranti). Altre fanno riferimento ad accordi bilaterali. In alcuni paesi poi, dopo aver accolto i migranti, i governi si nascondono dietro accordi comunitari poco chiari e mai definiti e li rispediscono nei paesi di prima accoglienza. Qui finiscono per rimanere come in una sorta di limbo del diritto internazionale dato che per rimpatriarli è necessario accertare l’identità del migrante (cosa questa tutt’altro che facile per chi arriva sui barconi) e, una volta trasmessi i dati al consolato del paese d’origine, attendere il “nulla osta” del paese di provenienza. A questo si aggiunge che molte volte tra i due paesi, quello di destinazione e quello d’origine, non esistono accordi in tal senso. Dei tredici stati che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha recentemente inserito nel decreto per il rimpatrio “sicuro” dei migranti, soltanto con due, Tunisia e Algeria, hanno sottoscritto accordi con l’Italia: ciò fa sì che i migranti provenienti dagli altri paesi non possono essere rimandati a casa (se non con procedure lunghe e quasi sempre fallimentari).
La Giornata Mondiale dei Rifugiati, avrebbe potuto (e dovuto) essere un momento per parlare di “rifugiati” ma anche per dipanare un po’ quella che diventa ogni giorno che passa una matassa sempre più intricata (alla quale si aggiungono sempre nuove definizioni come quella di “profughi ambientali”). Nonostante da oltre mezzo secolo esistano, regolamenti, accordi e norme (come la Convenzione per i diritti dei Rifugiati) firmati e ratificati da quasi tutti i governi del pianeta, ancora oggi, purtroppo, la situazione non è chiara.