I decreti legge che nel 1923, conosciuti universalmente come “Riforma Gentile”, modificarono l’assetto istituzionale della scuola italiana, fecero scomparire quella che era stata fino all’avvento del fascismo l’impalcatura scolastica dell’Italia a partire dal 1859.
La legge Casati, infatti, evidenziava una particolare situazione dell’Italia preunitaria: vi erano poche regioni alfabetizzate, in particolare Piemonte e Lombardia, a fronte di una Nazione che soffriva paurosamente l’analfabetismo a livello di massa. Se, ad esempio, prendiamo in esame il dato della Lombardia, si vedrà che alla vigilia della Seconda Guerra d’Indipendenza nelle quattromila e passa scuole elementari esistenti, circa il 70% dei bambini assolveva l’obbligo scolastico. Quali erano i criteri che informavano il decreto-legge Casati? Oltre a riflettere la realtà piemontese-lombarda e a premiare la gestione fondata sull’accentramento, la legge Casati separava l’istruzione umanistica da quella tecnica. Prevedeva, inoltre, l’obbligo scolastico molto limitato (praticamente inesistente), peraltro affidato alla disponibilità dei comuni e trascurava palesemente il problema del personale, sia dal punto di vista salariale, sia della qualificazione professionale. L’istruzione primaria, dunque, doveva essere totalmente supportata dai Comuni. Ciò appare molto strano se pensiamo che la politica della Destra storica si caratterizzò per un forte accentramento: non per caso, il decentramento che arrivò dopo, rappresentò, data la condizione dei Comuni italiani, l’affossamento di qualsiasi riforma.
La caduta della Destra e la conseguente vittoria della Sinistra storica, anche se non modificò l’impianto borghese del potere, creò le condizioni per una certa apertura verso i settori più popolari della società italiana. È per questo che la riforma Coppino (legge 3961 del 15 luglio 1877) può ritenersi un tentativo democratico, dal momento che voleva (in realtà ci riuscì poco) mettere le basi di una maggiore partecipazione dei ceti medi e della classe operaia alla vita politica, sociale, e culturale dell’Italia postunitaria. Ed anche se l’articolo 1 affermava:<< Il Consiglio scolastico di ogni provincia ha cura che nei Comuni da esso dipendenti venga attuata la legge sull’obbligo dell’istruzione elementare>>, la difficoltà vera fu quella di dare reale applicazione alla legge. Già all’inizio del 1878 <<l’inchiesta Bonazia>> mise in evidenza l’intrinseca contraddizione presente nella legge e cioè che pretendeva l’obbligo scolastico a carico dei Comuni, senza previsione di spesa da parte dello Stato.
Nel periodo che va dalla legge Coppino alla “riforma Gentile”, c’è da registrare l’impegno anche per la scuola del nascente movimento socialista. Prima come gruppi sparsi sul territorio, poi come partito organizzato, gli esponenti del movimento operaio si preoccuparono, in diverse occasioni, dell’educazione delle masse, sottolineando soprattutto la questione dei miseri stipendi dei maestri che sembravano, ai seguaci di Turati, l’elemento da cui partire per affrontare in seguito il problema degli asili e dell’istruzione popolare in genere. E fu in pieno periodo giolittiano, in verità nella fase che vide l’inizio della fine del giolittismo, che gran parte dell’istruzione elementare venne avocata dallo Stato con la legge del 4 giugno 1911 (Daneo-Credaro), sulla quale ci soffermeremo in un’altra occasione. Ma la scuola italiana non era solo quella elementare. Ed infatti, per la secondaria fu promossa, sempre nel primo decennio del Novecento, una commissione (Commissione Reale per l’Ordinamento degli Studi Secondari in Italia) che aveva il compito, fra l’altro, di eseguire <<particolareggiate comparazioni con la legislazione e disposizioni vigenti presso gli altri Stati e di trarne opportune conclusioni per la riforma da avviare in Italia>>.
<<Gli studi secondari sono, per loro natura, aristocratici, nel senso migliore della parola, studi di pochi, dei migliori, poiché preparano gli studi disinteressati, i quali non possono appartenere se non a pochi destinati di fatto, per loro ingegno o per situazione familiare al culto dei più alti ideali umani>>, così Gentile si esprimeva alla viglia della sua “riforma”.
Giovanni Gentile era nato in Sicilia, a Castelvetrano, il 30 maggio del 1875 e morì a Firenze, ucciso dai partigiani il 15 aprile del 1944. Nell’aprile del ’44, in piena <<svolta di Salerno>>, le sorti della guerra e del fascismo sono già decise. Ma proprio per questo la lotta diventò più dura e drammatica, esasperata dai repubblichini della Repubblica Sociale Italiana (RSI), che non demordevano dalla linea terroristica che avevano scelto all’atto della costituzione del loro stato fantoccio.
All’inizio del Novecento Gentile, assieme a Croce, era stato il maggior esponente dell’idealismo in Italia; anch’egli aveva aderito all’hegelismo, ma a differenza di molti andò oltre il pensiero del grande filosofo tedesco. Infatti, Gentile e Croce diedero all’idealismo italiano quell’originalità, non sempre foriera di effettivi sviluppi in avanti, di cui aveva bisogno. Croce e Gentile negavano con la loro filosofia qualsiasi forma di trascendenza, riconducendo tutta la realtà ad attività spirituale. A tal proposito il pensiero crociano-gentiliano può essere ritenuto, per certi versi, innovatore rispetto a ciò che diceva Hegel e da quest’ultimo si differenziava fondamentalmente per la riforma della dialettica triadica, che diventava altra cosa nella speculazione filosofica dei pensatori italiani. Ma la ricerca di Croce e Gentile avrà in seguito esiti molto diversi, fino ad arrivare alla contrapposizione che sarà foriera dei due manifesti attraverso cui gli intellettuali italiani si pronunciarono a favore o contro il fascismo. Scriveva Abbagnano:<< Le due dottrine si distinguono […] in quanto l’una, quella di Gentile, è un soggettivismo assoluto (attualismo), l’altra, quella di Croce, uno storicismo assoluto>>.
Gentile muove all’attacco della dialettica hegeliana perché ritiene che può esistere dialettica solamente del pensante: ciò vuol dire che una realtà diventa esistente solo nell’atto in cui viene concepita. Di più: niente può sussistere senza l’atto del pensiero, un atto che va visto come creatore e infinito. In sostanza il pensiero gentiliano non fa che enfatizzare il ruolo del soggetto, ma attenzione: l’individuo non è altro che un oggetto dell’Io trascendentale, l’unico capace di superare il soggetto empirico e di renderlo universale.
A proposito del diritto e dello Stato, Gentile approda ad uno statalismo che lo porterà a giustificare lo Stato assolutistico e totalitario; anzi, a rappresentare la figura decisiva del regime fascista e a diventarne il puntello al momento della crisi. <<Con questa fede nell’Italia immortale>>, affermò Gentile nel discorso tenuto in Campidoglio il 24 giugno del ’43, <<noi […] continuiamo a guardare alla sacra maestà del re, silenzioso e sicuro nella semplicità austera del gesto e della parola; a guardare negli occhi del Duce, che conosce le tempeste e ci ha dato tante prove del coraggio che le fa vincere, dell’indomita passione con cui si deve guardare al destino. Viva l’Italia!>>.
La ricomparsa di Gentile nella fase finale del fascismo aveva molto infastidito gli antifascisti che gli addebitavano la responsabilità di voler ancora coprire la dittatura, quando ormai era chiaro al mondo intero non solo cos’era stato il Ventennio, ma soprattutto quale inganno rappresentava la Repubblica di Salò. Togliatti osservò:<< Mussolini ha paura e se ne sta nascosto […]. Mussolini si inganna […] se crede che Gentile conservi un prestigio qualunque fra gli intellettuali, la gioventù e il popolo>>.
Una parte centrale dell’attività intellettuale di Gentile fu rivolta all’approfondimento dei problemi pedagogici e, segnatamente, alla scuola. La “riforma Gentile” fu varata nel 1923 e ha rappresentato fino a qualche anno fa un punto di riferimento per il nostro sistema scolastico. Gentile, innanzitutto, muove da una critica molto ferma verso le posizioni herbartiane, per passare, poi, ad un attacco frontale al positivismo. Gentile afferma che né l’etica, né la psicologia possono fondare la pedagogia, che ha un suo oggetto specifico, l’educazione, e che vive nel momento in cui l’atto si fa prassi. L’atto educativo farà diventare maestro e discepolo <<una mente sola, la mente oggettiva che viene costruendo la verità>>; pertanto, sarà negata la soggettività, e poiché negare significa affermare (ricordiamo il detto di Spinoza “Omnis determinatio est negatio”), ci si innalzerà alla superiore oggettività. Gentile criticava, inoltre, la separazione che veniva operata, così come si fa ancora oggi, tra contenuto e forma, tra materia e metodo. Per Gentile, infatti, non si dà in astratto un metodo che possa valere per tutti gli insegnanti e per tutte le discipline, e, comunque, è sempre il docente che personalizza il messaggio culturale:<< Chi sa veramente, sa insegnare, chi è uomo è anche educatore>>. Con queste lapidarie espressioni può essere sintetizzato ciò che il filosofo pensava sulle questioni, peraltro sempre attuali e complesse, metodologiche e della formazione professionale del docente.
Il filosofo neoidealista il 4 maggio del 1918, in un articolo per un quotidiano, aveva delineato uno schema da cui poi partirà quando si tratterà di mettere in atto la sua “riforma”: rigida selezione per gli allievi, riduzione del numero degli insegnanti a fronte di un certo miglioramento economico: era una visione che spingeva, a differenza di quanto aveva predicato il positivismo e il movimento socialista, in direzione di una scuola classista, idealistica e aristocratica, luogo privilegiato per la formazione delle classi dirigenti. Non a caso, la posizione gentiliana fu guardata con molta attenzione dai gesuiti, che, come tutto il mondo cattolico, si battevano strenuamente per la scuola privata e religiosa.
In quel torno di tempo era nato in Italia il movimento fascista, che già nel ’19 aveva affrontato nel suo programma il problema della scuola, anche se lo riprenderà in modo ancor più puntuale nel 1921 e quando ormai le ambiguità erano state sciolte e il fascismo era diventato il braccio armato dei latifondisti e del grande capitale finanziario. Ecco alcuni punti del programma annunciato da Mussolini il 27 dicembre del ’21 sul Popolo d’Italia:<< Carattere rigorosamente nazionale della scuola elementare in modo che essa prepari anche nel fisico e nel morale i futuri soldati d’Italia, perciò rigido controllo dello Stato sui programmi, sulla scelta dei maestri, sull’opera loro, specie nei Comuni dominati da partiti antinazionali. Carattere prevalentemente classico delle medie inferiori e superiori; riforma ed unificazione di quelle inferiori in modo che tutti gli studenti studino il latino […]. Trattamento economico e morale dei maestri e dei professori, nonché degli ufficiali dell’esercito, quali educatori militari della Nazione […]>>.
Dopo la marcia su Roma Mussolini assegnò la Pubblica Istruzione a Gentile e al suo gruppo di “riformatori”, consentendo al filosofo siciliano di esercitare un’egemonia idealistica funzionale alla direzione dello Stato. In particolare, la scuola assumeva un ruolo centrale come strumento di organizzazione del consenso e per la selezione sociale.
Gentile qualche mese prima della sua “riforma” affermò che occorreva restaurare. <<Bisogna restaurare lo Stato. Lo Stato non si restaura se non si restaurano le forze morali che nello Stato trovano la loro forma concreta organizzata, perfetta. Lo Stato non si restaura se non si restaura la Scuola>>. La centralità del ruolo dello Stato è in perfetto accordo con la filosofia idealista, che, a partire da Hegel per finire ai suoi epigoni, aveva sempre parlato di eticità dello Stato. Lo Stato è per definizione, nell’Idealismo, libertà: il controllo e l’accentramento statale risultano perciò indispensabili per poter affermare, secondo Gentile, quei criteri di libertà che son dati proprio dal totale controllo statale sull’organizzazione scolastica. Nell’arco di pochissimi mesi furono soppressi i consigli scolastici provinciali e le deputazioni, che furono messi alle dipendenze dei regi Provveditori; la scuola elementare fu ristrutturata; il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione perse la parziale elettività acquisita dopo la legge Casati e ritornò alla nomina ministeriale. Così Gentile spiegò la sua opera:<< dai licei, dalle università, dalle scuole normali, usciva ogni anno un numero di licenziati, laureati, abilitati, enormemente più alto del bisogno; e nella grande maggioranza questi giovani avevano cercato nella scuola piuttosto un diploma che la cultura>>. Insomma: tagliare, ridurre, sfoltire!
Emergeva, così, attraverso la “riforma” la volontà del regime fascista, coniugata con la storica paura della piccola e media borghesia verso le masse popolari, di portare avanti la restaurazione a tutti i livelli, in prima istanza nella scuola, eletta a luogo di incontro di ideologie antidemocratiche e anti- egualitarie, luogo di esaltazione delle élites politiche, luogo di affermazione dell’asse filosofico-umanistico in contrapposizione ad un asse scientifico, che ha dovuto attendere parecchi decenni prima di poter fare il suo ingresso nella scuola italiana.
Analizziamo, a questo punto, con maggiore attenzione alcune parti della “riforma” gentiliana, basandoci sul R. D. del 6 maggio 1923 n. 1054, relativo all’ordinamento dell’istruzione secondaria.
All’articolo 12 si afferma che :<< A capo di ogni istituto è un Preside […]. I Presidi sono scelti dal Ministro […]. Dalla scelta sono escluse le donne>>. Con l’articolo 22 si indicano le punizioni disciplinari che possono essere inflitte ai professori e ai presidi; l’articolo 39 spiega che
:<< L’istruzione classica ha per fine di preparare alle Università ed agli Istituti superiori>>, mentre l’articolo 45 stabilisce che :<<L’istruzione tecnica ha per fine di preparare all’esercizio di alcune professioni. È impartita nell’istituto tecnico>>. C’è poi l’articolo 65 che afferma :<< I licei femminili hanno per fine d’impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirino né agli studi superiori, né al conseguimento di un diploma professionale>>.
È utile notare che anche gli antifascisti, o almeno una parte, condivisero lo spirito della “riforma”, dimostrando subalternità sul piano culturale. Gli avversari del fascismo, avversari che tali rimasero sul piano politico, sostennero gli aspetti fondamentali della linea gentiliana, vista come affermazione dell’autonomia dei valori culturali e scientifici, come ricerca disinteressata rispetto alle scelte << della sfera del pratico e del contingente>>.
L’impianto della scuola italiana è rimasto sostanzialmente inalterato, anche se non mancarono modifiche durante e dopo il fascismo, fino alla contestazione globale del sistema scolastico operata dal movimento studentesco, che ne criticava radicalmente la struttura gerarchica e il sapere che veniva impartito. Il movimento studentesco rifiutava la scuola di classe e si batteva per realizzare il progetto democratico della scuola di massa, aperta a tutti, non selettiva; scuola, al tempo stesso, di qualità: contro il conformismo e l’appiattimento culturale, di confronto e di ricerca alternativa.
Come affermava Gramsci:<< Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso […], è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. Se si vorrà creare un nuovo strato di intellettuali, fino alle più grandi specializzazioni, da un gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi, si avranno da superare difficoltà inaudite>>.