La vicenda di Giulia, ma potrebbe essere di qualsiasi altra donna o altro uomo fa riflettere in modo pressante sul rapporto tra diritto di cronaca e diritto delle persone alla loro identità e sfera del privato che, in casi come questo, gronda di dolore e di lacrime. Al tempo stesso, l’accalcarsi di cronisti avidi di conoscere tutto quanto è possibile per riferirlo ad un pubblico divoratore di “sangue” porta a conseguenze aberranti ed incredibili. Esiste un limite tra il diritto di cronaca e la violenza della narrazione dei fatti? Riteniamo di sì. Il diritto di cronaca deve dispiegarsi nel narrare l’evento accaduto e nel narrare i protagonisti dello stesso. Il bravo cronista è colui il quale narra il fatto, lo mette sotto la lente di ingrandimento, analizza il comportamento dei soggetti coinvolti, ma non si “crogiola” in particolari scabrosi e non descrive se non sommariamente quanto appare avvenuto dando risalto alla notizia non al gossip.
Il cronista da l’informazione, ma non crea il terreno per una “fiction” truculenta densa di particolari scabrosi. I particolari sono argomenti utili, anzi utilissimi, ma ai magistrati inquirenti prima, alle difese e ai magistrati giudicanti poi. Leggere le modalità con cui un corpo è stato straziato non è cronaca è una vigliacca operazione di marketing per vendere copie od avere visualizzazioni in abbondanza. Informare non è esercitare una visualizzazione del macabro, ma rendere edotto il lettore di quanto capitato. Esistono diritti imprescindibili delle vittime e dei rei che non possono essere costantemente violati per una attività di “mercimonio” della notizia. In questo contesto sia la TV, sia i quotidiani, sia gli online rispondono tutti ad un editore ed ad una linea editoriale. Ecco, è qui che occorre intervenire. Non vogliamo il silenzio, ma nemmeno che i diritti dei protagonisti di certi eventi siano “carne da macello” da sbranare e gettare in pasto ad un pubblico bramoso di particolari. Va detto subito, però, che se le linee editoriali seguono certi criteri vi deve essere una ragione, un motivo.
La ragione non può che essere (nel caso delle trasmissioni TV e giornali) essenzialmente economica. La trasmissione viene più vista, ha più ascolti e, quindi, tutto quello che avviene in quell’orario ha maggiore evidenza (ergo migliori introiti in pubblicità). Ma è lecito ragionare così? È lecito rispondere a criteri di mero guadagno? Riteniamo di no, ma temo che siamo perdenti in questa valutazione. Il vero criterio del mondo occidentale è solo ed esclusivamente il denaro che porta al potere e che porta al comando e, quindi, al ricatto. Ma vi è una ulteriore riflessione da fare nemmeno tanto a margine rispetto a quanto sin qui illustrato: il lettore, il telespettatore, il fruitore veramente cosa vuole? Cosa cerca? La ormai cronica assuefazione a discutere di tutto senza conoscere nulla, porta il soggetto che guarda a rimanere attento solo se è “nutrito” di particolari agghiaccianti, efferati, torbidi, sanguinolenti in una parola macabri.
Ormai, è avvenuta la trasformazione dell’osservatore e del lettore da soggetto che si informa a soggetto che “ottusamente” crede di poter interagire con la notizia. L’informazione è la verità non perché è vera, ma perché essa è capace non tanto e non solo di informare, ma di guidare il lettore, il telespettatore, il fruitore. Tutto questo è molto pericoloso. Ma è un pericolo che conosciamo da tempo. Orson Welles insegnò a tutti come il mondo può cambiare di fronte ad una informazione deformata ma posta come vera. Noi abbiamo una informazione che non fa più analisi, non fa più opinione, ma si accende come tanti “occhi di bue” sul ventre del mondo e lo illumina in modo intermittente. Si è vivi se siamo o nel cono di luce o se si vede il cono di luce. Siamo in una società nella quale il potere dell’informazione non ha controllo e non ha vaglio perché risponde o a logiche di puro “sensazionalismo” o a logiche di pura economia.
Oppure quando è ancora più raffinato ad entrambe le logiche insieme. Vi è una prova immediata che è la guerra in Ucraina (che per la verità si protrae dal 2014) che, adesso, pare non ci sia più, visto che il “cono di luce” dell’”occhio di bue” della cronaca (internazionale, in questo caso) ha virato l’attenzione verso il conflitto in Israele ed in Palestina. Ma la cosa che sta emergendo ascoltando analisti ed esperti (vari) di geopolitica è che, forse, per la prima volta dall’attacco del 24 febbraio 2022 siamo vicini ad un cessate il fuoco. I riflettori si spengono, l’Occidente è stanco, gli aiuti economici si fanno meno importanti, l’appoggio militare si fa più esiguo. Si arriva ad un probabile cessate il fuoco. Tutto questo fa molto riflettere. Quanto il “focus” sulla guerra ha contribuito a che il conflitto continuasse? Quanto l’informazione ha “forse” avuto il compito di farlo continuare?
Sono domande senza una risposta, ma sono domande agghiaccianti. Se una guerra (che, peraltro, già era in atto, ma non conosciuta perché non riferita dalle fonti di informazione) si ferma quando le notizie sulla stessa tacciono, fa pensare che le “notizie dal fronte” avessero una finalità strategica in entrambi gli schieramenti (peraltro lo è sempre stato anche nella storia antica). Il tema è solo accennato, ma la sensazione è che si viva in un mondo incapace di informare e fare pensare, e si viva in un tempo nel quale si informa e si indirizza le masse (ELIAS CANETTI, Massa e potere). Quello che manca è il rispetto delle vittime (compresi i rei) ed il rispetto delle vite per un fine molto chiaro: dare alla cronaca il valore delle “analisi”. La cronaca è fondamentale, ma è paragonabile ad una “bozza” di un dipinto, ad uno schizzo. Il quadro si realizza dalla capacità di fornire elementi di riflessione e di valutazione strumenti per una analisi e riflessione che deve essere del destinatario finale.
Informare senza deformare, informare senza dirigere, informare senza condizionare. La chiave della democrazia è il pluralismo delle idee e delle opinioni. L’informazione deve fare crescere questo pluralismo e non dirigere il pensiero. Si ha, però, l’impressione che il mondo attuale sia sempre meno capace di riflettere, ma solo di fare “capannelli” televisivi e mediatici per il piacere di intercettare il desiderio del pubblico e degli editori (anche quelli pubblici, nessuno escluso). Siamo in una “centrifuga” e ci si pensa al centro dell’Universo. Basterebbe avere il coraggio di formarsi un pensiero critico per capire che quello che viene propinato è cibo precotto ed orientato.
Tutto ciò, determina che il fruitore dell’informazione non solo sarà orientato e vorrà nutrirsi sempre di più di quello che gli verrà propinato, ma ridurrà progressivamente le sue capacità di critica e di analisi. Tutto ciò porta a generare una società appiattita ed immobile. In tal modo si genera una società pronta per essere sottomessa e gestita. Un progetto che parte da lontano e che ha avuto la sua enorme propulsione e velocizzazione con il mondo di internet. Un mondo in cui tutti credono di saper gestire, ma nessuno è immune dal concreto pericolo di essere “gestito” dalla rete e dai social in generale. Ci si avvia a grandi passi alla dittatura più terribile: quella desiderata dalla massa che la identifica con la libertà di pensiero.