Guido Oldani, un melegnanese alle prese con le insidie della modernità

Articolo di Luigi Pistillo

Conosco Guido Oldani da tempo immemore. Fisicamente potrebbe evocare uno di quei guerrieri vichinghi, assai bellicosi, che impugnavano micidiali spade a doppio filo. In realtà Guido, armato del solo calamo, con i suoi occhi cilestrini e la sua voce piacevolmente baritonale, proclive alla temperanza, ha con i suoi simili un approccio garbato che sa di dolcezza. Il suo “natìo borgo”, tutt’altro che selvaggio, è Melegnano (l’antica Marignano) che non ha mai voluto abbandonare. E a tal proposito mi sovviene un mirabile verso di Saba: “La mia città che in ogni parte è viva,/ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva.”

Si è avvicinato alla poesia non giovanissimo, andando oltre il verseggiare, bensì, dimostrando, peraltro, un’indubbia abilità da animatore culturale, promuovendo iniziative tese alla diffusione dell’arte poetica.

Esordisce con la raccolta di versi “Stilnostro”, Cens, 1985, avvalendosi dell’autorevole introduzione di Giovanni Raboni. E poi “La betoniera”, Lieto Colle, 2005; “Il cielo di lardo”, Mursia, 2008 e tanto altro ancora, avendo riscontri positivi di critica e costituendo una voce nuova nel panorama della poesia italiana. Ma non è su questo aspetto che vorrei soffermarmi, quanto piuttosto sul suo “Il Realismo Terminale”, un manifesto pubblicato nel 2010 da Mursia, che presto si diffonde travalicando i confini nazionali. Tradotto ed accolto con interesse inizialmente negli Stati Uniti e successivamente in altri paesi, genera un movimento che non limita la sua azione alla mera poesia, ma abbraccia altre discipline quali Teatro, Matematica, Filosofia etc. Gli articoli su riviste, i dibattiti si susseguono e coinvolgono una schiera di appassionati sedotti dal lungimirante scritto di Oldani di cui, qui di seguito, riportiamo un breve estratto: “La Terra è in piena pandemia abitativa: il genere umano si sta ammassando in immense megalopoli, le “città continue” di calviniana memoria, contenitori post-umani senza storia e senza volto. La natura è stata messa ai margini, inghiottita o addomesticata. Nessuna azione ne prevede più l’esistenza. Non sappiamo più accendere un fuoco, zappare l’orto, mungere una mucca. I cibi sono in scatola, il latte in polvere, i contatti virtuali, il mondo racchiuso in un piccolo schermo. È il trionfo della vita artificiale. Gli oggetti occupano tutto lo spazio abitabile, ci avvolgono come una camicia di forza. Essi ci sono diventati indispensabili. Senza di loro ci sentiremmo persi, non sapremmo più compiere il minimo atto. Perciò, affetti da una parossistica bulimia degli oggetti, ne facciamo incetta in maniera compulsiva. Da servi che erano, si sono trasformati nei nostri padroni; tanto che dominano anche il nostro immaginario”.

E dove ci sta conducendo tutto ciò? Ad un regime liberticida dal sapore orwelliano i cui instauratori del totalitarismo non sono più gli uomini, ma gli oggetti. L’antropocentrismo, figlio dell’Umanesimo, contrapposto al teocentrismo, pone l’Uomo al centro dell’Universo. Nell’epoca coeva l’Uomo, invece, sta assumendo un ruolo gregario, rispetto agli oggetti, voraci predatori delle nostre immiserite esistenze.

I prodromi di tale tendenza si manifestarono già con l’esplosione del consumismo che, perlomeno in Italia, decollò alla fine degli anni’50 del secolo scorso. Un’artificiosa moltiplicazione dei bisogni, spinta da una pubblicità viepiù martellante, per incentivare l’acquisto di prodotti, di oggetti che, in seguito ad una ribollente e non sempre comprensibile evoluzione, diventavano, in men che non si dica, obsoleti, fuori moda e dovevano essere sostituiti di continuo.

Un aneddoto: tempo fa un’amica peruviana, di provenienza campagnola, che ora vive tra noi, mi raccontava che, allorquando in Perù sorsero i primi grandi centri commerciali, la domenica mattina, lei e i suoi famigliari che abitualmente frequentavano la chiesa per assistere alla messa, cambiarono abitudine. Partivano dalla campagna indossando l’abito della festa e si recavano in questi luoghi scintillanti dove, ormai devoti seguaci, partecipavano, compatibilmente con le loro risorse economiche, alla celebrazione del rito pagano dell’acquisto smodato, compulsivo.

All’inizio dell’espansione dei consumi, reduci dalle privazioni, memori dello spirito di sacrificio, perlomeno ci comportavamo con una qualche responsabilità privilegiando l’oggetto in base al criterio dell’utilità. Poi col tempo, infrollendoci gradualmente, abbiamo subito una regressione che ci ha portato a considerare questi templi dell’illusorio benessere, alla stregua d’un paese dei balocchi.

“La natura è stata messa ai margini, inghiottita o addomesticata. Nessuna azione ne prevede più l’esistenza. Non sappiamo più accendere un fuoco, zappare l’orto, mungere una mucca. I cibi sono in scatola, il latte in polvere, i contatti virtuali, il mondo racchiuso in un piccolo schermo”, osserva Oldani.

Il tema toccato dal poeta mi porta ad offrire le luci della ribalta a “Il principio responsabilità”, l’opera di Hans Jonas nella quale il filosofo tedesco stigmatizza il titanismo prometeico, vale a dire la prevaricazione umana sulla natura mediante il progresso tecnico-scientifico. Trasformazioni continue che hanno il carattere dell’irreversibilità e che potrebbero mettere, addirittura, a rischio l’esistenza delle future generazioni. Jonas, temendo che il vandalistico progresso possa portare alla catastrofe, indica, quale via salvifica, “l’euristica della paura” che dovrebbe condurre l’Uomo, consapevole dei propri errori, al principio di responsabilità.

Il poeta melegnanese, quale possibile scappatoia, ricorre all’ironia nutrendo la speranza che l’Uomo colpito dall’irrisione possa ravvedersi. “Vogliamo che, a forza di essere messo e tenuto a testa in giù, un po’ di sangue gli torni a irrorare il cervello. Perché la mente non sia solo una playstation”, questo il suo auspicio.

La sua penna spazia, si sbizzarrisce, non risparmia nessuno, neanche la poesia attuale alla quale riserva un giudizio tagliente definendola “paludata e salottiera, stracolma di oggetti, ma definitivamente morta”. Diciamo, comunque, che l’interesse dei lettori verso questo genere letterario è calato notevolmente. Nessuna opera di poesia del tempo nostro riuscirebbe a raggiungere le vendite, ad esempio, di Ungaretti. Oggidì i poeti che raccolgono significativi risultati, all’interno dei canali convenzionali, sono casi eccezionali…e Guido Oldani è uno di questi. Gli autori che prevalgono sono coloro che promuovono i loro libri, spesso autoprodotti, bazzicando il variopinto mondo del web: i “social-poet”, insomma “you tuber“, “instagrammer” e compagnia cantante. E forse la poesia è davvero morta…forse.

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