Quest’anno ricorre il 160° anniversario dell’Unità d’Italia. Si tratta di una data fondamentale sia per le difficoltà che il processo di unificazione incontrò nel XIX secolo, sia per il ritardo storico con il quale si costituì lo stato nazionale in Italia; questioni che ancora oggi segnano le vicende storico-politiche del Paese e che determinano i tratti originari della storia italiana.
Ma la domanda che molti si sono posti e che continuano a porsi è la seguente: è giusto festeggiare? Perché lo schieramento democratico, così penalizzato durante e dopo il Risorgimento, dovrebbe festeggiare?
Risposta: senza il conseguimento dell’Unità, l’Italia non sarebbe entrata nella modernità; un’Italia divisa o una macroregione italiana sarebbe rimasta politicamente insignificante, rimanendo terreno di caccia delle potenze straniere. È utile ricordare agli smemorati di turno che il processo storico ha avuto come tappa fondamentale la nascita degli stati nazionali, che hanno favorito, attraverso un cammino lungo e tortuoso, il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico. E per un certo periodo il capitalismo ha rivoluzionato l’intera società. Basta rileggere a tal proposito cosa scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto: «La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario. Dove è giunta al potere, la borghesia ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci. Essa ha lacerato spietatamente tutti i variopinti legami feudali che stringevano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, il freddo ‘pagamento in contanti’. […] La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione del vecchio sistema di produzione. Il continuo sconvolgimento della produzione, l’ininterrotta messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti».
Com’è noto la mancata unificazione tra il XV e il XVI secolo impedì all’Italia di collocarsi in una linea avanzata di sviluppo; anzi, la pose in una condizione di arretratezza, destinata a permanere nel XVIII secolo nonostante le esperienze «riformatrici» dei veri stati regionali italiani.
Lo stesso assolutismo illuminato, in virtù della divisione, non ebbe la possibilità di dispiegare la sua funzione in un quadro nazionale; così come gli effetti positivi della Rivoluzione francese non riuscirono a permeare l’intera società italiana. Fu dunque con il Risorgimento che si pose all’ordine del giorno la possibilità di dare alla nazione italiana una statualità capace di rappresentarla politicamente, oltre che socialmente e culturalmente.
Del resto, gli avvenimenti successi tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento evidenziano il legame tra il processo risorgimentale italiano e la Rivoluzione francese, che in Italia era arrivata per il tramite delle armate napoleoniche nella primavera del 1796, quando risuonarono le famose parole d’ordine dell’1789: libertà, uguaglianza, fraternità; l’esempio francese, nonostante la sconfitta e l’abbattimento della repubblica partenopea del ’99, dimostrava che era possibile seguire un nuovo metodo, quello rivoluzionario, per raggiungere rapidamente gli obiettivi prefissati.
Il Risorgimento si sviluppò, quindi, in continuità con la tradizione rivoluzionaria francese, per quanto nello stesso tempo si innestasse nella vicenda storica particolare della «nazione» italiana; e un fatto nuovo fu soprattutto la sua conclusione: lo stato nazionale unitario ebbe una fisionomia tipicamente moderna. Lo stesso può dirsi per il tipo di sviluppo economico-sociale, cioè lo sviluppo capitalistico dapprima agrario-mercantile e poi industriale, che maturò in Italia dopo l’unità.
Il legame con lo sviluppo generale dell’Europa è quindi essenziale per la comprensione del Risorgimento non meno del legame di questo con la precedente storia italiana.
Data la particolare situazione italiana, era inevitabile che a svolgere una funzione primaria nella ricostruzione del passato nazionale fosse, più che la storia delle vicende politiche, economico-sociali e religiose o le élites intellettuali (spesso determinate, nella loro azione, dalle opposte spinte del localismo e del cosmopolitismo), la lingua e la letteratura, la quale, secondo la concezione romantica, era espressione della società, un’espressione viva di ciò che si poteva definire la coscienza sociale. E i protagonisti del Risorgimento furono in gran parte giovani che pieni di ideali e con slancio rivoluzionario sacrificarono la loro esistenza per l’Unità. E come è stato ricordato da più parti questi giovani «poveri erano prima di cominciare a lottare e poveri rimasero» perché avevano a cuore solamente l’interesse generale.
Ma perché il Risorgimento dovrebbe ancora parlare a noi oggi, e soprattutto ai giovani? Cosa può insegnare un movimento nato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento ai ragazzi e alle ragazze del terzo Millennio? Tanto, se si guarda al presente volgendosi al passato e proiettandosi nel futuro; se si immagina «la linea lunga» della storia italiana segnata da continuità e rottura, capace di tenere insieme il Risorgimento, la Resistenza, la Repubblica e la Costituzione.
Ma il giudizio complessivamente positivo sull’unificazione italiana non deve fare ombra agli aspetti negativi che l’hanno caratterizzata. Come si sa, all’indomani della proclamazione del nuovo regno nacquero le «questioni» che lo segnarono per tanto tempo; alcune, in particolare è squadernata all’attenzione generale quella «meridionale», fino ad oggi. Non è questa la sede per discutere approfonditamente di tale questione, ma è comprensibile che per molti meridionali (purtroppo i meridionalisti sono pressoché scomparsi!) i festeggiamenti risultino particolarmente indigesti. Bisogna, però, ricordare che frantumare l’Italia, come si intravvede dagli ultimi accadimenti, vista soprattutto l’azione dei cosiddetti governatori, avrebbe l’unico effetto di indebolire comunque il Paese e di far pagare ai settori sociali più deboli un prezzo altissimo. Ad esempio, la fine dello stato nazionale significherebbe intanto la negazione della universalità delle conquiste sociali, la frammentazione, l’isolamento di quanti rivendicano diritti e garanzie. È questo il vero obiettivo della Lega e delle altre forze di destra: la sconfitta della democrazia politica, istituzionale ed economica e il ritorno agli anni più bui della nostra storia. E chi non capisce tutto ciò, radicalizzando «da sinistra» le critiche al processo unitario non fa che portare acqua al mulino padano.
Del resto, se si vuol parlare seriamente di Mezzogiorno e Risorgimento perché non citare, seppure brevemente, Antonio Gramsci. In diversa misura e con differenti accenni, la riflessione su processi, problemi e soggetti dell’unificazione nazionale attraversa di fatto l’intera biografia intellettuale del pensatore sardo, dagli scritti giovanili ai contributi della maturità, fino, e ovviamente in misura preponderante, al cantiere dei Quaderni. Per Gramsci «il laborioso sforzo di unificazione iniziatosi col Risorgimento» è rimasto incompiuto per le modalità concrete nelle quali si è realizzato in Italia lo sviluppo capitalistico, che ha reso subalterne le campagne alle città industriali e l’Italia centrale e meridionale al settentrione. In pratica, le due grandi fratture che Gramsci riscontra all’inizio del Novecento nella società italiana rappresentano l’eredità risorgimentale: separazione/contrapposizione fra borghesia e masse popolari e acutizzarsi della questione meridionale. Di fatto la riflessione sul Risorgimento diviene così uno dei laboratori di pensiero nei quali elaborare le categorie della filosofia della prassi come «rivoluzione passiva», «blocco storico», «egemonia», e via dicendo. Sono lemmi ricavati da una lettura empirica e fattuale del processo unitario nazionale, mutuati e riletti in funzione dell’elaborazione di una strategia nuova per le classi subalterne. È di fatto il Risorgimento ad offrire il primo rilevante esempio, nel nostro Paese, dell’imporsi di una cultura originale espressione di un nuovo dominio di classe e capace di conciliare «alto» e «basso», seppur nella forma specifica della rivoluzione passiva. Da questo punto di vista, il Risorgimento presenta elementi sconosciuti rispetto alla storia precedente del Paese: prima dell’Ottocento le classi di governo della penisola non erano dirigenti; erano essenzialmente conservatrici e propense al dominio, alla coercizione, all’uso del potere statuale come sovraordinato rispetto alla società civile, mentre «la classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello stato è trasformata […]».
Per concludere su questo punto, si può dire allora, che la lettura gramsciana del Risorgimento, seppure fortemente critica nei confronti del blocco moderato-borghese, non sottovaluta la funzione euristica svolta dall’unificazione nazionale anche in vista del ruolo che avrebbero dovuto assumere le classi subalterne.
E a proposito della «Questione meridionale» ricordiamo alcune cose, sempre servendoci delle analisi gramsciane. Diciamo subito che la questione è stata derubricata negli ultimi anni dall’agenda della politica a causa dei cedimenti delle forze democratiche e a motivo dell’aggressività del blocco conservatore che, seppur differenziato al suo interno sul piano degli interessi sociali e territoriali, tende a ricompattarsi sotto la spinta antimeridionale della Lega e di altre componenti molto forti, affidando al Sud il ruolo di un’area di «modernità squilibrata», di flessibilità, di precarietà e di illegalità diffusa, soggetta all’opprimente presenza delle mafie. Non convince, per altro, l’impostazione di ridurre la questione solo a differenze quantitative, considerate come se fossero a sé stanti, distinte e separate da quei rapporti sociali e politici che ne sono la causa determinante. Al contrario, è importante sottolineare l’unitario meccanismo capitalistico per poi poter evidenziare, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, il divario economico-sociale-culturale esistente tra le diverse aree del Paese, divario che oggi si carica di connotati ancor più dirompenti. Particolare rilevanza assume, inoltre, un modello di governo che si basa sul controllo del territorio a livello «politico-militare» in virtù dell’azione delle mafie (mafia siciliana, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita), sempre più decisive nel blocco di potere dominante. Il rapporto organico delle mafie con la politica (e viceversa) non solo continua ad essere determinante negli specifici processi di formazione e di espansione delle nuove mafie, ma costituisce uno dei fattori dinamici dello stesso capitalismo globalizzato.