Il 15 aprile 1452 nel borgo di Vinci, tra Empoli e Pistoia nasce Leonardo, Leonardo da Vinci.
All’età di sedici anni entra nella bottega di Andrea del Verrocchio, una delle botteghe più importanti di Firenze per la possibilità di incontri (da lì sono passati Pietro Vannucci detto Perugino, Sandro Botticelli et alii) sia per l’ampiezza degli studi.
Leonardo è una delle più complesse personalità nel campo della storia dell’arte, ma più in generale, della cultura universale. Leonardo è «la mente più alta del Quattrocento» (G. Petronio). Un uomo del suo tempo che con la sua infinita varietà di interessi si presta ad apparire assolutamente straordinario e irripetibile: pittore, scultore, architetto, orafo, studioso di geologia, musico, scienziato, precorritore del volo e di molte scoperte successive, anatomista.
Leonardo – come afferma il professore Carlo Vecce – è un autore che per capirlo veramente occorre collocarlo entro l’atteggiamento universalistico del Rinascimento: la fabbrica del futuro. (C. Vecce, Leonardo, Salerno). Con Leonardo inizia il «metodo sperimentale» che quasi un secolo dopo sarà la base della scienza nuova di Galileo Galilei. «L’atteggiamento della mente di Leonardo nasce dallo sperimentalismo pratico dell’artigianato e dell’ingegneria trasposto sul terreno della scienza e si avvantaggia indirettamente di quell’atmosfera in cui aveva dato i suoi frutti il criticismo umanistico sia filologico sia morale» (C. Luporini, La mente di Leonardo, Sansoni, p. 16).
«La pittura è una poesia – scrive lo stesso Leonardo – che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede: Adunque queste due poesie, o vuoi dire pitture, hanno scambiato i sensi, peri quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto» (Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, 16). La pittura per e in Leonardo è «mentale» perché solo studiando la realtà si giunge a conoscerla, a possederla, a capirla: «studia prima la scientia, e poi seguita la praticha nata da essa scientia». Nel Trattato della pittura esorta i pittori a «essere universali». Nell’opera omnia di Leonardo il rapporto uomo-spazio e uomo-atmosfera – osserva con acume Piero Adorno- sono gli elementi che Leonardo cerca di cogliere fin dall’inizio del suo apprendistato.
Ad aiutarci a «leggere» le immagini di Leonardo – immagini, dato il tempo, pasquali – è lo studioso , un amico per chi scrive, Davide Pugnana. Formatosi all’Università di Pisa con un percorso a metà tra Lettere moderne e Scienza dei beni culturali. Nel 2012 ha vinto la borsa di studio per la «XII Settimana di Studi Canoviani» a Bassano del Grappa. Tiene regolarmente visite guidate al patrimonio artistico carrarese e al Museo Lia di La Spezia. Negli ultimi anni ha pubblicato tre saggi con la casa editrice sarzanese GD Edizioni: «Recensioni ed altri scritti», «Voci dal mondo dell’arte. Da Marangoni a Michaud» e l’ultimo «Un diario pubblico di passioni private. L’arte e la letteratura al tempo dei social». Ha aperto un blog: https://davidepugnana.wordpress.com/
D.: In «Sant’Anna, la Madonna e il bambino con un agnello» (esposto al Louvre) Leonardo, riprendendo un tema già trattato dal Masaccio (esposto agli Uffizi) accentua il rapporto di interdipendenza dei tre personaggi sacri: sulle ginocchia di sant’Anna siede la Vergine Maria che si sporge per sostenere il Bambino Gesù il quale a sua volta abbraccio l’«agnello di Dio», cioè Gesù stesso, vittima del sacrificio che salverà l’umanità. Dal grembo di Anna nasce Maria, da Maria nasce Gesù, da Gesù ri-nasce il mondo alla nuova vita cristiana. Davide, in quest’opera, Leonardo attraverso l’immensità dello spazio, la morbida fusione cromatica, la stessa rotazione della forma piramidale ci offre una visione del mondo (Weltanschauung), ci dà l’idea di essere immersi nella totalità del mondo. Come l’Arte può aiutarci a capire il mondo e a essere cristianamente, illuministicamente «felici»?
R: Ringrazio Pietro Salvatore Reina, studioso sensibilissimo, per l’invito a parlare di una figura che non solo mi occupa da anni, ma ha segnato per sempre le figure e i miti del nostro immaginario. Senza Leonardo non sapremo vedere il mondo con la stessa potenza percettiva che le sue opere ci insegnano. Spazi labili e indefiniti, luce morbida come guina serica, composizione dinamica, gamma cromatica, fusività luministica tra figure, aria, paesaggio sono tutte caratteristiche della ricerca di Leonardo, sono la cifra di visione e di stile che lo rendono prima che «genio» in senso romantico, inventore di sottilissimo ingegno. Diciamo questo: rispetto ad altri artisti, passati o suoi contemporanei, tutti assorbito dal fare diretto nella praxis creativa, Leonardo aveva una vera e propria vocazione epistemologica, nel senso che amava mettersi davanti gli oggetti di studio e smontarli, come un peritissimo maestro orologiaio. Voleva capire non solo i fenomeni naturali con un metodo che, per certi versi, anticipa quello galileiano; in lui anche l’arte era intesa come disciplina o, addirittura, come “scienza” da classificare, con le sue nomenclature, i suoi procedimenti, le sue tecniche. Insomma, una pratica come la pittura non era solo estro creativo e poesia visiva; era ammessa nello stesso processo di minuziosa analisi speculative che investiva una macchina, una pianta o un gorgo d’acqua. Alla pittura, come meccanismo da smontare e come terreno di progressive sperimentazioni, Leonardo ha dedicato una parallela riflessione teorica che è andata condensandosi in una messe di appunti brillanti, vergati in prima persona o dettati, che, col tempo, hanno finito per formare uno “zibaldone” prezioso di riflessioni estetiche e strumenti pratici per i futuri pittori, ma anche per tutti coloro che vogliono entrare nella mente prismatica di questo pittore che fu anche scienziato. Quello che fu pubblicato postumo da Francesco Melzi come Trattato della pittura ci porta dentro le sottili e ramificate dinamiche di questo osservatore instancabile di tutta la tessitura del vivente che proiettava nella conoscenza visiva il suo porosissimo piglio empirico, articolandolo in miriadi di taccuini e fogli di straordinaria bellezza grafica: pensiamo solo alle teste fisiognomicamente indagate, ai capelli inanellati delle figure femminili; ai poeticissimi soggetti botanici; agli effetti dell’aria che erode i contorni delle cose lontane rendendole perennemente velate d’azzurro; fino agli affondi pionieristici nella macchina anatomica, tra muscoli e lacerti, vene e scatole craniche disegnate con una tecnica già da “disegno esploso”; oppure pensiamo all’immaginazione o visionarietà ingegneristica di temibili armi da guerra; o, per calarsi nel piccolo, alla resa al tratto di granchi e ai cavalli. Tutto questo per dire come in Leonardo la comprensione del mondo, la sua riorganizzazione e il suo statuto di involucro da esplorare, passasse dalla messa in figura dei concetti e delle percezioni, ossia da un tipo di pensiero per immagini proprio degli artisti figurativi, ma anche – è il caso dell’intreccio leonardesco tra arte/scienza – dell’osservazione naturalistica. Tutto questo fa sì che la pittura non fosse il fulcro centrale della ricerca di Leonardo, ma parte di un sincretismo conoscitivo capace di inglobare se non tutto, molto dello scibile umano. In questo senso, sulla pittura andavano innestandosi le conquiste della speculazione scientifica e quelle rocce e montagne lontane, stagliate dietro il gruppo di Sant’Anna e la Madonna, imbevute d’aria azzurra, prossime a rarefarsi, non diventano solo sigle iconiche indimenticabili, ma sono anche risultato di una comprensione scientifica del mondo. Una scienza però che in mano ad un artista del calibro di Leonardo ha assunto, insieme all’obiettività di visione, un senso arcano e stupendo di leggere e restituire il mondo. Per riallacciarmi alla tua domanda, l’idea di “felicità”, intesa come comprensione profonda del mondo e dell’animo umano, è alla base di un’espressione d’arte di questo livello. E in Leonardo questo approccio fu facilitato dalla capacità di rispecchiare ogni screziatura più minuta e fuggitiva. Scriveva nei suoi appunti: “«La mente del pittore si debbe al continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono le figure delli obbietti notabili che dinanzi gli appariscono» (Libro di Pittura, §53). Concetto fondamentale che uno degli studiosi più importanti di Leonardo, il professor Marco Versiero, ha spiegato magistralmente: “non soltanto come artista ma anche e soprattutto come indagatore della natura, Leonardo ritiene che il proprio ingegno possa e debba operare «a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obietto» (ivi, §56). Il ricorso al verbo “trasmutare”, in entrambe le proposizioni, rende chiaro il convincimento che, al di là di una meccanica operazione di duplicazione speculare, l’invenzione prodotta dall’intelletto e scaturita dall’osservazione della natura si sostanzi in uno sdoppiamento della realtà. La pittura, come specchio che assorbe forme e colori dell’universo, è capace di generare da esse una “seconda natura”, in quanto il suo artefice le introietta (assimilandole tramite una esatta e veritiera esplorazione conoscitiva ottico-sensoriale) e le riplasma in un esercizio “demiurgico” di invenzione, che Leonardo considera simile alla creazione divina: «La deità ch’ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina» (ivi, §68). La qualità metamorfica dell’imitazione della natura sussiste grazie all’approccio scientifico esercitato in uno studio scrupoloso dei fenomeni naturali, affidato primariamente ai sensi e, su tutti, alla vista, il cui organo, l’occhio, è suggestivamente definito «la finestra de l’human corpo, per la quale la sua via specula e fruisce la bellezza del mondo» (ivi, §28): finestra del corpo aperta all’osservazione del mondo, l’occhio è per la mente un tramite a fruirne la bellezza, rendendo possibile che essa si rifletta e rispecchi nella speculazione intellettiva del pittore. Egli è anche, di conseguenza, un «fintore» (ivi, §177) e, padroneggiando l’osservazione e riproduzione della realtà, può farsi «signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose», arrivando persino ad abbracciare, «in un solo sguardo», tutto «ciò ch’è ne l’universo, per essenzia, presenzia o immaginazione», generandone una «proporzionata armonia.” (qui il link dell’intervista: https://www.mandragora.it/leonardo-da-vinci-500-anni-segnati-dal-genio/). Analisi lucidissima questa di Versiero. Insomma, caro Pietro, questa capacità leonardesca di abbracciare lo scibile ricreandolo nello specchio potente della pittura è la dote che lo rende tanto prezioso e lo consegna non solo alla storia dell’arte , ma a quella universale dei classici della cultura.
D.: Nella celeberrima «Ultima Cena» (conservata a Milano presso il Refettorio di Santa Maria delle Grazie) Leonardo forma quattro gruppi piramidali concatenati fra di loro e al centro, sempre in una forma piramidale, c’è Gesù con le braccia allargate in segno di dedizione, isolato rispetto ai discepoli anche perché l’uomo è solo nel momento in cui affronta il sacrificio supremo. In quest’opera Leonardo esprime la consapevolezza di chi sa che sarà abbandonato da tutti ma al tempo stesso la serenità di ha accettato una missione che sta per essere conclusa. Come l’Arte può aiutarci nella sofferenza? I colori e le forme – come ci insegnano gli antropologi – regolano i nostri comportamenti, le nostre paure? I colori di Leonardo sono anche un «tesoro nascosto» che dicono cose essenziali sul mondo, su noi stessi?
R: Il Cenacolo è uno dei vertici della ricerca di Leonardo sull’interiorità umana. È una pittura rischiarata da una sublime luce mentale che riesce ad affondare nell’abisso dei cosiddetti “moti dell’anima”, per usare il lessico dell’artista. È proprio lo studio analitico di ciò che muove gli uomini, e il modo di renderlo in pittura, raccontandolo con le forme, che ossessionava Leonardo, e il soggetto dell’Ultima cena gli offre l’opportunità di vivisezionare i diversi temperamenti dei discepoli che siedono attorno a Cristo. Come attraverso un’istantanea eterna Leonardo ferma il momento in cui Cristo dice: “In verità, in verità vi dico, uno di voi mi tradirà.” Questa frase sferzante si propaga da entrambi i lati, in tutto simile ad un che, scagliato nell’acqua, genera anelli concentrici di forte intensità. Ogni discepolo rimane esterrefatto e offeso: ogni viso, postura e gesto restituiscono singolarmente il carattere specifico del discepolo. Leonardo non solo è abile lettore dei Vangeli, ma studia e penetra come un punteruolo nel ventre molle di quei moti segreti che pungono gli apostoli. A sinistra, Bartolomeo si spinge in avanti con il busto e appoggia le mani al tavolo, come chi è intento ad ascoltare. Giacomo Minore appoggia la sua mano sinistra sulla spalla di Pietro, per attirare la sua attenzione. Andrea alza le mani mostrando i palmi, in un gesto di meraviglia e di spavento. Pietro si protende di scatto verso Giovanni, per chiedere conferma di quello che ha appena sentito, e con la mano destra afferra un coltello, prefigurando il gesto impulsivo con cui, poche ore dopo, ferirà un soldato nel vano tentativo di difendere Cristo. Giovanni ha il tipico atteggiamento del dolente, lo stesso che assumerà sotto la croce, mentre Giuda (il quinto da sinistra, quello sovrapposto a Pietro), sentendosi scoperto, afferra il sacchetto con i trenta denari e si ritrae spaventato. Alla sinistra di Gesù, Tommaso alza l’indice al cielo con atteggiamento dubbioso, tipico della sua indole; Giacomo Maggiore spalanca le braccia manifestando tutto il suo orrore. Filippo, al contrario, rivolge le mani verso di sé, dichiarando la sua innocenza. Infine, il gruppo all’estrema destra sembra discutere sull’identità del traditore: sono Matteo, Taddeo e Simone, i quali esprimono con gesti assai espliciti dubbio, sgomento e indignazione. È un corale sommovimento emozionale. Pochi anni dopo, verso il 1494, questa similitudine è moltiplicata e amplificata in un meraviglioso frammento di scrittura leonardesca, nel quale – scrive sempre Marco Versiero – “ la propagazione delle onde acquatiche e vocali è a sua volta paragonata ai più espansi riverberi prodotti dal fuoco nello sspazio, sino alla ancora più ampia proiezione delle onde della mente nell’incommensurabile dimensione dell’universo. Questo brano ci ricorda come anche il corale sommovimento emozionale dispiegato dagli apostoli della coeva Ultima cena all’annuncio della tragica figura di Cristo (colta nella profonda sofferenza della propria umanità) circa l’imminente tradimento, risponda alla stessa “legge” che associa il dipanarsi dei “moti mentali” dei commensali a un impulso sonoro o acustico. Il dolente annuncio di Cristo, infatti, si ripercuote sotto forma di onde emotive manifestate nell’orchestrazione di diversificate reazioni in termini di gesti ed espressioni, quali anche stenograficamente puntellate nello schizzo preparatorio della prima idea per la pittura murale. Scrive, dunque, Leonardo: L’acqua percossa dall’acqua fa circuli dintorno al loco percosso. Per lunga distanzia la voce infra l’aria. Più lunga infra ‘l foco. Più la mente infra l’universo. Ma perché l’è finita non s’astende infra lo ‘nfinito.” La pittura ferma l’apice del pathos, attraverso la geometria pausata e cartesiana dei gruppi piramidali a cui accenni, segnando così il culmine drammatico che avvolge e isola il maestro prossimo al tradimento, e, al contempo, Leonardo fissa anche l’ethos grazie alla resa fisiognomica degli individui in gioco. E lo fa da consumato artista visivo, inventando una regia gestuale memorabile che dopo, sia pure in modo diversi, ritroveremo nelle tele di Caravaggio. Per fortuna ci è stato tramandato un aneddoto intorno alle sessioni di lavoro di Leonardo. Sappiamo che i tempi di composizione e stesura furono molto dilatati. Leonardo veniva sorpreso a sostare lungamente davanti alla parete, senza toccare pennello. Dietro ad un’opera del genere c’è un profondo lavorio di introspezione e riflessione. Sappiamo anche che Leonardo amava aggirarsi per le vie della città esaminando i passanti, scrutando chi si affacciava dagli usci delle case, chi s’intratteneva presso le osterie. Il risultato dei suoi studi fisiognomici fu che il lavoro del Cenacolo progrediva più lento del solito e il Moro sembrava rassegnarsi ai tempi di Leonardo. A non rassegnarsi erano i monaci, che non ne volevano sapere di abbandonare le comodità terrene per indirizzare la mente alle cose del cielo: si lamentavano di non poter consumare i pasti comodamente seduti nel refettorio. Arrivarono a lamentarsi col priore. Lo storico dell’arte Giorgio Vasari, nelle sue Vite, scrive che dopo aver constatato che non ne cavava nulla, il priore se ne dolse col duca: fu un tradimento che Leonardo non gli perdonò. Quando fu chiamato dal Moro, Leonardo si giustificò tirando in ballo la complessità delle espressioni facciali e disse che ormai gliene mancavano solo due, le più complicate: quella di Cristo, difficile da trovare tra gli umani, e quella del traditore Giuda, difficile persino da trovare all’inferno. Leonardo era molto colpito dal racconto biblico di Giuda. Lui stesso aveva avuto a che fare con dei traditori. Per esempio quando fu denunciato per sodomia. Ora a tradirlo era il priore, che si rivolgeva al duca. Così Leonardo rispose “che alla fine non trovando meglio, non gli mancherebbe quella di quel priore, tanto importuno et indiscreto”. Giorgio Vasari scrive che il Moro, ormai rassegnato alla lentezza di Leonardo, non poté che riderne divertito. In quanto al priore tornò a occuparsi del suo orto e Leonardo dipinse il traditore di Cristo con la faccia del suo stesso traditore. È solo un aneddoto però restituisce bene l’attenzione di Leonardo alla commedia umana della vita. Sul piano materiale, molto si è perso della qualità originaria delle superfici perché, come sappiamo, Leonardo sperimentava nuove tecniche, e nonostante l’epico restauro lungo diciassette anni (1982-1999), fatto dall’eroica Pinin Brambilla Barcillon, e finanziato dalla Olivetti, abbiamo solo una vaga idea di come potesse essere all’origine. Il testo pittorico che vediamo ha recuperi importanti, anche dei timbri dei colori, però nel complesso sembra di essere di fronte ad una “sindone” del corpo originario. Rimane però leggibile il complesso sistema di rimbalzi psicologici dei personaggi e altre finezze, come la scelta di collocare in fondo la fonte di luce e di fare di Cristo il fulcro delle linee prospettiche, facendone un motore immobile, assoluto e totalizzante. Così come il restauro ha portato alla luce l’altissima fattura delle nature morte sulla tavola: i piatti di peltro, i bicchieri di vetro colmi di vino, gli alimenti, la tovaglia ricamata dimostrano quanto Leonardo avesse studiato con attenzione le opere di ascendenza fiamminga circolanti a Milano in quegli anni. Tale affascinante riflessione si coglie ancora in una notazione di Marco Versiero, quella in cui osserva come lo stesso moto di propagazione fisico-psichica sopra descritto si possa estendere, secondo lui, alla disposizione leonardesca dei personaggi che animano la scena pittorica dell’Ultima cena. Ecco il moto umano figlio di quello universale, ecco l’incantesimo: così come da un urto elementare può scaturire un vortice nell’aria, allo stesso modo, in quella parete meravigliosa, dall’annuncio di Cristo relativo all’imminente tradimento che lo attende, scaturisce un turbinio di reazioni eterogeneamente disperate a quell’urto, a quel velo di Maya inesorabilmente lacerato.