Nel corso degli ultimi cinque anni mi è capitato spesso di sentire commenti e considerazioni del tipo: “non mi piace la musica trap perché non ha contenuti”.
Tendenzialmente, questo tipo di asserzione arriva da ascoltatori appassionati della forma primordiale dell’hip hop, genere che ad oggi risulta estremamente ramificato e privo di contorni, oppure da un pubblico disinteressato al mondo urban ma che non può fare a meno di notare un certo distacco fra i testi della trap (o del rap moderno, in generale) e quelli dei grandi cantautori italiani degli anni ’60 e ’70. Tuttavia, la mancanza di contenuti nella trap risulta essere un concetto opinabile e, credo, sia necessario fare chiarezza prima che lo facciano gli autori de La Vita In Diretta o di Domenica In (si scherza).
Affermare la mancanza di contenuto di una musica di cui si critica il contenuto (i versi, le parole, i “messaggi” e le tendenze) è già di per sé contraddittorio, oltre che errato. Nella cosiddetta trap (che non sempre è effettivamente tale, ma diventerebbe un discorso troppo lungo e dispersivo) i messaggi sono tanti e sono anche estremamente chiari, vividi e spontanei. Spesso, infatti, questi non sono filtrati da nessun ermetismo, se non nel caso di artisti come i romani Tauro Boys o del milanese Rkomi (ormai più vicino alla sfera nazional popolare del genere), ma denotano, anzi, un gusto decisamente splatter e sanguinolento.
La maggior parte degli artisti che propongono questo genere infarciscono le proprie liriche con richiami alla depressione, all’ansia e ai vari disturbi psicologici che, giorno dopo giorno, diventano sempre più determinanti di molti costumi della nostra società. E’ infatti consuetudine ascoltare rapper (italiani e non) fare innumerevoli richiami all’abuso di psicofarmaci, come lo Xanax o il Prozac, e di droghe sintetiche di vario tipo, elevate a cura momentanea per i vuoti interiori ma spesso mostrate per quello che realmente sono nei momenti di maggiore consapevolezza. Inoltre, questo tipo di narrazione decadente e nichilista è spesso correlato da punte di edonismo ed estetismo, con la ricerca del piacere (sia questo sessuale, economico o conferito dall’utilizzo delle sostanze prima citate) e della “bellezza”, in un’accezione particolarmente distorta del termine, che diventa motivo di vita e, nei fatti, unico reale obiettivo di questa, lontana da ambizioni spirituali e dall’impegno sociale che caratterizzava la musica dei “genitori”.
In più, la componente materialista dell’attuale panorama urban (nonostante questa, negli U.S.A., sia protagonista del rap almeno dai primi anni ‘90), che si manifesta in una ricerca spasmodica del guadagno e in un’ostentazione arrogante e al contempo pittoresca, è una componente tanto evidente quanto sostanziosa della quotidianità sociale in cui viviamo, figlia di politiche capitaliste-estremiste e di un’educazione economica e di pensiero quantomeno opinabili.
Questa disamina, tuttavia abbastanza superficiale e generalista, si potrebbe sviscerare in sotto-argomenti quali la rivalsa sociale, seppur circoscritta all’individuo e priva di un sentore di collettività (intesa, dunque, come arricchimento e “invasione” di una sfera più agiata a cui non si pensava di poter mai appartenere), le carenze affettive e la conseguente incapacità di amare in modo sano e naturale (con tutte le dinamiche misogine che, vista la natura machista del genere, ne conseguono), i forti legami di amicizia che creano “branco” e che danno forza ai ragazzi dei quartieri (e non) e una forte attitudine, a metà fra il punk dei Sex Pistols e la tristezza dissacrante degli Smiths, che si manifesta sia nella ruvidezza dei suoni e delle parole che nell’immagine e nella moda annesse al genere.
Insomma, a sviscerare le innumerevoli velleità e le priorità artistiche della musica trap saranno i musicisti, i critici, i sociologi e, probabilmente, pure gli psicologi, ma credo sia ormai evidente l’erroneità dell’affermazione “la trap non ha contenuti”.
I contenuti ci sono e sono figli dei nostri tempi, ossia rappresentano una fetta di società abbondante, spesso di età molto giovane, e le problematiche a questa legate. In passato lo facevano il punk rock, negli anni ’70, ’80 e, seppur spesso in un modo più divertente e meno hardcore, anche negli anni ’90, il rock ‘n’ roll, il grunge, il gangsta rap (che è un po’ il genere padre della trap music) e tante altre subculture di “rottura”.
Gli argomenti e i messaggi non mancano. Ma sono argomenti e messaggi con cui, spesso, non si vuole avere a che fare e sui quali, difficilmente, si ragiona onestamente e liberi da preconcetti di varia natura.