Chissà, oggi, che esito, cinematografico o televisivo, avrebbe questo giallo fortunatissimo di Piero Chiara -non che non ne abbia avuto in passato, pensando all’epilogo dello sceneggiato Rai degli anni ‘70-, ma oggi “l’effetto Camilleri” (scrivere un giallo e concepire una serialità televisiva) fa riflettere.
Verrebbe proprio da domandarsi se accogliere dentro sé l’idea di concepire un romanzo giallo sia un esperimento di perizia da parte dell’autore, una sorta di punto d’approdo a un genere narrativo per temperare le proprie idee e per saggiare le proprie capacità o, in ultimo, per accettare la seduzione di un vizio sopito; oppure, al contrario, se sia una dinamica di marketing, prodotta per la maturazione di una lunga serie di romanzi, di là da venire, con comunissimi cliché per soddisfare tutte le rappresentanze comunitarie esistenti al mondo; e poi via via l’arma; il delitto; la ritualità dei gesti che soddisfa un pubblico ampio, insomma quanto la televisione produce da circa un ventennio, influenzando inevitabilmente il nostro gusto.
Alieno dei vizi moderni, Piero Chiara, tra la pletora dei romanzieri del ‘900, si è sempre distinto per una prosa piana che raccoglie esperienze di vita sfruttando il campionario offerto dalla provincia, fototipia della vita, e una rielaborazione morale e psicologica del periodo del secondo dopoguerra tramite il racconto di vizi, virtù, e debolezze degli esseri umani. Ne I giovedì della signora Giulia, uno dei romanzi in assoluto più avvincenti, l’autore sperimenta un inconsueto labor limae nel quale vi scorgiamo differenti fasi da produzione e una gestazione differente dalle opere che sarebbero nate in seguito; il romanzo infatti è apparso, a puntate, sul Corriere del Ticino, intorno al ‘62. Il Chiara narratore e poeta infatti aveva esordito precocemente in Svizzera, nella quale si era rifugiato da sfollato della guerra. Usando lo pseudonimo, di probabile memoria dannunziana, Nik Inghirami, aveva voluto raccontare le indagini del commissario Sciancalepre, un immigrato siciliano inurbatosi in un misterioso paesino lombardo, innescate dall’inspiegabile scomparsa della signora Giulia, la giovane moglie dell’Esengrini, un eminente avvocato di provincia.
Successivamente una nuova edizione del ’70, la prima ufficiale in Italia, garantì all’opera maggiore diffusione, mantenendo intatto il fermento genuino connaturato alla nascita. Mauro Novelli nella memorabile prefazione agli Oscar Mondadori parla in effetti “di una prova avviata senza particolare impegno, che andò progressivamente lievitando nel corso della stesura, a conferma di un’inclinazione per la detection che riemergerà con prepotenza nell’ultima parte della carriera di Chiara, per lo più sotto forma di noir”.
Il titolo comunque è già di per sé memorabile e nasconde la ritualità della protagonista principale la signora Giulia, che abita nella città di M. e che ogni giovedì va a Milano a trovare la figlia Emilia in collegio. In un tranquillo giovedì di maggio del 1955 la signora Giulia scompare, senza lasciare alcuna traccia e il marito, l’avvocato Esengrini sporge subito denuncia. Da qui il narratore comincia a dipingere scene a lui congeniali (le voci e i bisbigli della comunità locali, analizzati attraverso una dimensione sociale che esula dal chiacchiericcio dei caffè); su sfondi ampiamente conosciuti: una villa misteriosa e dalla pianta architettonica tortuosa e complessa: il famoso palazzo Zaccagni-Lamberti; il lago e il bioma lacustre; e il piccolo paesino; sull’uso del medesimo nelle pagine del romanzo, qui presentato con la semplice menzione di un’iniziale fittizia M. (espediente che viene utilizzato frequentemente nella narrativa chiariana), non sarebbe come ha notato acutamente in un suo breve saggio Leonardo Terrusi (Silenzi, nomi, asterischi. Gli ‘asteronimi’ manzoniani) un asteronimo, ossia il classico espediente grafico, di memoria manzoniana, che offre la cosiddetta “illusione del vero”, ma tutt’al più una legittima censura per scongiurare l’identificazione del toponimo (M. dovrebbe riconoscersi in Porto Ceresio, secondo una malcerta testimonianza orale di Chiara); non pochi fastidi avevano causato al romanziere lombardo i suoi primi successi. Memorabile per questo suo personalissimo scrupolo appare la Nota apposta a La Spartizione: “L’autore, che dispone finora di un solo luogo nel quale gli riesca di ambientare le sue invenzioni, tiene a ripetere che di quel luogo, caro e prediletto, ha fatto una pura astrazione. I personaggi che ha tentato di far vivere in quell’aria sono pertanto cittadini della sua fantasia e non figurano allo Stato Civile”.
Il velo di mistero (o di censura, se ipotizziamo che il romanzo di Chiara sia nato da una vicenda reale) adombra anche la signora Giulia. Si tratta di una donna dalla potenza evocativa straordinaria. L’intera storia ruota attorno a lei, alla sua evanescenza, alla sua assenza presente; e il lettore ne ricompone la figura sommando le notizie che raccoglie (includiamo anche delle lettere che conferiscono maggiore autenticità all’opera, condite da uno stravolgimento di luoghi piacevole, dato che avvicina il lettore a particelle di verità) e avviando anch’egli una sua personale indagine insieme al commissario Sciancalepre, mero esecutore della legge. Il fatto della scomparsa genera un senso di smarrimento, perché ne percepiamo l’estemporaneo disordine, l’intensità della folgore nel cielo torbido di una famiglia borghese di provincia nella quale si intuisce che la differenza d’età dei coniugi e la freddezza dei rapporti ha soffiato il mantice del dinamismo della signora Giulia verso un anelito di vita: in questo Chiara è un maestro assoluto, inarrivabile.
E l’eredità materna, l’orda prevaricatrice contro la piattezza della vita, transita verso la figlia dell’Esengrini, Emilia, che s’innamora di un ex spasimante della madre; è il classico corollario di Chiara: abbarbicarsi al vitalismo femmineo per comprendere la dualità della vita, la transizione di chiari e scuri, dei pieni e vuoti, degli assensi taciti e dei silenzi, spesso rumorosi, interrotti da rivelazioni improvvise come quelli della governante Teresa Foletti, un’altra donna. Allora l’equilibrio cittadino appare una clessidra capovolta e il tempo scorre, confondendo pure Chiara che bisticcia con l’età della giovane Emilia.
L’ultima donna di cui lo scrittore parla è la Giustizia. Chiara aveva una buona padronanza delle pratiche grazie alla sua lunga esperienza maturata nel servizio dell’amministrazione giudiziaria, in qualità di cancelliere. Ne regala anche un’efficace definizione nel finale tramite la descrizione meravigliosa delle procedure avviate dalle parole dell’astuto avvocato Esengrini, che, sospinto dalla padronanza assoluta del codice penale a una lucidissima serie di mosse, ribatte forse l’unica certezza del romanzo: “La giustizia è un robot senza cuore né intelligenza: colpisce a seconda della carica che ha avuto. E la carica è costituita dalle prove. Dobbiamo metterle nello stomaco le prove sicure, i documenti, le testimonianze certe.
Allora colpisce giusto. Guai se le mettiamo nello stomaco delle opinioni! Peggio, se la rimpinziamo di prove incomplete, approssimative”.
Pertanto nell’eseguire il suo inesorabile compito, nella ricostruzione metodica delle dinamiche borghesi ed elitarie (notiamo differenze tre le classi sociali acutamente approfondite in questo rigurgito del boom italiano) la giustizia arriverà a una cristallizzazione completa, lasciando a noi tanto il dubbio di chi sia stato l’autore del delitto, quanto la certezza che l’assolvimento scrupoloso della procedura non garantisce l’equità. Questo senso di sospensione, accompagnato da una personale certezza della conclusione del romanzo formatasi nel segrete del lettore, pongono fine a un giallo atemporale (pochissime se ne ritrovano di riferimenti su cui fare affidamento); a Chiara interessa il tempo e lo spazio delle anime in gioco, come se la complessità del mondo si solvesse in una partita contro uno sfidante misterioso.